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Ruanda, i paradossi della Singapore dell’Africa

Analisi – Alla luce dell’inasprirsi del conflitto nella regione dei Grandi Laghi, è utile ripercorrere le vicende di uno dei suoi attori principali, il Ruanda, per comprendere la centralità di questo piccolo Stato e il suo ruolo nell’attuale crisi.

LE RADICI DEL CONFLITTO HUTU-TUTSI

Ai confini di Ruanda, Burundi, Uganda e Congo (tra le aree più densamente popolate d’Africa), la competizione per le risorse ha spesso contrapposto le due etnie principali: hutu e tutsi. Se l’era precoloniale aveva visto una coesistenza pacifica, seppur con differenze “di classe”, tra contadini hutu poveri e allevatori tutsi in genere abbienti, dalla fine dell’Ottocento il colonialismo europeo avrebbe fatto leva su una chiara distinzione etnica, strumentalizzata per cooptare le élite politiche tutsi e tenere sotto controllo le masse hutu. Carte d’identità indicanti l’appartenenza etnica furono introdotte dai tedeschi e mantenute anche dopo la Prima Guerra Mondiale, quando il Belgio ottenne dalla Società delle Nazioni il mandato del Ruanda-Urundi.
A fine anni Cinquanta, il Belgio acconsentì al processo di decolonizzazione, che, nelle iniziali intenzioni, avrebbe restituito i poteri alle due dinastie tutsi, formalmente mantenute durante il periodo coloniale. Se ciò fu possibile per il Burundi, in Ruanda le violenze interetniche del 1959 indussero il Belgio a favorire il partito hutu, nel tentativo di fermare gli scontri. Fu dunque organizzata una serie di tornate elettorali che decretò la netta affermazione della compagine hutu e l’abolizione della monarchia. Nel 1962 Burundi e Ruanda divennero indipendenti: il primo come monarchia tutsi, il secondo come repubblica a guida hutu.
Il percorso verso l’indipendenza fu caratterizzato da violenze e massacri reciproci, favorendo l’instaurarsi di regimi militari in cui l’etnia dominante escludeva l’altra dal potere. Il Ruanda divenne un sistema a partito unico dalla metà degli anni Sessanta, con tratti ancor più autoritari dopo il golpe del generale Juvénal Habyarimana, sostenuto dalla Francia, nel 1973.

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Fig. 1 – L’ex Presidente del Ruanda Juvénal Habyarimana durante il Summit Franco-Africano del 1985

PAUL KAGAME, DALLA GUERRIGLIA AL POTERE

Le violenze che accompagnarono l’indipendenza produssero un flusso di rifugiati tra Ruanda e Burundi e verso i Paesi vicini. Molti tutsi ruandesi in esilio aderirono a ribellioni locali: emblematico il caso di Paul Kagame, fuggito da bambino in Uganda e in seguito entrato a far parte della guerriglia guidata dal futuro Presidente Yoweri Museveni, a fianco del quale avrebbe combattuto il regime di Idi Amin e la guerra civile (1979-86).
Nel 1987 veterani tutsi della guerriglia ugandese fondarono il Ruandan Patriotic Front (RPF), in cui il trentenne Kagame ricoprì sin da subito un ruolo centrale. Verso la fine del 1990 il RPF invase il nord del Ruanda, con l’obiettivo di rovesciare il regime hutu. L’iniziativa incontrò parecchie difficoltà, riuscendo a controllare solo zone di confine e subendo pesanti perdite per mano dell’esercito ruandese, sostenuto da Zaire e Francia. Kagame, impegnato in un corso di addestramento dell’esercito statunitense in Kansas, non partecipò alle prime fasi del conflitto, ma con la morte in combattimento degli altri principali leader tornò in Ruanda e assunse la guida del RPF, dando inizio a un’efficace guerriglia.
Crisi economica, guerriglia nel nord e spinte alla democratizzazione misero in difficoltà il regime ruandese. Finita la Guerra Fredda, venne meno il sostegno esterno a dittatori africani come Habyarimana, che nell’agosto 1993 si convinse ad accettare un negoziato con il RPF, aprendo alla transizione democratica e alla creazione di un Governo hutu-tutsi. L’ONU inviò un contingente di pace per vigilare sul rispetto dell’intesa.
Lo scoppio della guerra civile in Burundi (ottobre 1993), presto tracimata nel sud del Ruanda, e l’opposizione dell’ala hutu più oltranzista determinarono però il fallimento degli accordi, in un clima di crescente violenza. Mentre il conflitto civile si riaccendeva, l’evento scatenante del genocidio fu l’abbattimento dell’aereo su cui viaggiavano i Presidenti di Ruanda e Burundi (lo stesso Habyarimana e Cyprien Ntaryamira), di ritorno da un tentativo di mediazione, il 6 aprile 1994. L’incidente, sulla cui responsabilità non è mai stata fatta chiarezza, fu preso a pretesto dalla fazione hutu estremista per scatenare un’ondata di violenze senza precedenti contro i tutsi, ma anche contro hutu moderati fautori dell’accordo di pace. Tra aprile e luglio, in una situazione di disfacimento dello Stato e nell’impotenza del contingente ONU, le milizie hutu massacrarono circa 800mila persone, mentre il RPF approfittava del caos per conquistare l’intero Paese.

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Fig. 2 – Il Presidente del Ruanda, Paul Kagame, alla conferenza stampa inaugurale delle commemorazioni per il 30° anniversario del genocidio, Kigali, 8 aprile 1994

MEMORIA E CONTROLLO POLITICO

Vinta la guerra civile, Kagame creò un nuovo Governo, diventando vicepresidente e ministro della Difesa, mentre la presidenza fu affidata a Pasteur Bizimungu, esponente hutu moderato. Al di là dell’apparente power sharing, il potere era saldamente in mano al RPF.
La politica interna del nuovo Ruanda è stata caratterizzata dal tentativo di costruire un’identità nazionale oltre le differenze etniche e dal ruolo centrale delle politiche della memoria. Già nel 1994 fu eliminato il riferimento all’etnia nei documenti di identità e vietata la creazione di gruppi politici su base etnica. La memoria del genocidio pervade il discorso pubblico, con celebrazioni annuali, iniziative scolastiche e percorsi di riconciliazione.
Tratto saliente della politica ruandese è la straordinaria partecipazione femminile, dovuta anche alla drastica riduzione della popolazione maschile: la percentuale di donne in Parlamento è di gran lunga la più alta al mondo (63,8% alla Camera, 53,9% al Senato).
Dietro questo volto democratico e moderno non mancano però le contraddizioni. Nonostante indiscutibili successi in termini di tassi di crescita – trainati dalla spinta governativa verso digitalizzazione e innovazione e dalla nascita di numerose start-up del settore tecnologico – il Paese è rimasto sottosviluppato e povero, con un’economia dominata da membri del RPF e dipendente da esportazione di materie prime e turismo. L’accusa di negazionismo del genocidio è stata strumentalizzata per silenziare le opposizioni. Nel 2000 l’eccessivamente critico Bizimungu fu destituito, il suo partito messo al bando e Kagame divenne Presidente. Nonostante il mantenimento di un formale multipartitismo, ogni candidato dell’opposizione in grado di competere con lui è stato escluso dalla corsa presidenziale. Il Presidente è stato più volte riconfermato con percentuali plebiscitarie, inverosimili a prescindere da un certo consenso reale. Diverse ONG hanno documentato negli anni brogli e violazioni dei diritti umani, compresi omicidi mirati di dissidenti in esilio. Oppositori politici come Victoire Ingabire e Paul Rusesabagina (protagonista delle vicende raccontate nel film Hotel Ruanda) sono stati arrestati con accuse pretestuose. Nel 2014 un documentario della BBC che proponeva una lettura critica del ruolo del RPF nella guerra civile ha portato al temporaneo oscuramento dell’emittente britannica nel Paese.
La parabola di Kagame ricalca dunque quella di molti leader ribelli africani: da guerrigliero liberatore a Presidente-padrone.

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Fig. 3 – Una veduta del Nyanza Genocide Memorial Center di Kigali

DIPLOMAZIA MILITARE E SOFT POWER

La politica estera del nuovo Ruanda è tanto astuta quanto spregiudicata. La partecipazione alle due guerre del Congo (1996-2003), ufficialmente motivata dalla minaccia costituita dalle milizie hutu fuggite nel Kivu dopo il genocidio, segnò l’inizio di una trentennale interferenza nel Paese vicino, attraverso il sostegno a gruppi ribelli congolesi composti in prevalenza da tutsi. Tali interferenze furono portate avanti talvolta in coordinamento, talvolta in competizione con Uganda e Burundi, in un continuo, machiavellico ribaltamento di alleanze. La presenza in Congo, diretta o meno, ha permesso a Kigali di trarre vantaggio dal controllo dell’esportazione di minerali preziosi (oro, coltan, stagno, tungsteno e altri), estratti e contrabbandati dalle milizie filo-ruandesi.
L’ammodernamento dell’esercito e la sua specializzazione nella counter-insurgency hanno reso il Ruanda un attore militare di primo piano. Dal 2004 i soldati ruandesi sono impiegati massicciamente in operazioni di peacekeeping dell’ONU e dell’Unione Africana (Darfur, Sud Sudan, Somalia, Mali, Haiti). Repubblica Centrafricana e Mozambico hanno invece richiesto direttamente l’assistenza delle truppe ruandesi per far fronte a ribellioni interne. Questa diplomazia militare è stata premiata: essendo il secondo Paese per peacekeepers forniti all’ONU, il Ruanda ha beneficiato di una certa accondiscendenza quando l’Organizzazione avrebbe potuto prendere provvedimenti punitivi nei suoi confronti; inoltre, la presenza militare ruandese è stata accompagnata da vantaggi economici.
Il non-allineamento del Ruanda gli ha permesso di mantenere rapporti di cooperazione economica e militare sia con Russia e Cina, sia con Europa e USA, anche se il Paese si è avvicinato sempre più al mondo anglosassone: nel 2009 è stato il primo Stato francofono in Africa ad accedere al Commonwealth britannico. L’inglese, parlato da esponenti della classe dirigente tutsi cresciuti in esilio come Kagame, è stato gradualmente imposto come lingua ufficiale.
Kagame ha anche avviato una strategia di “sportwashing”, attraverso contratti di sponsorizzazione con top club del calcio europeo (Bayern Monaco, Arsenal, PSG) pubblicizzando il Ruanda come meta turistica.

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Fig. 4 – Una manifestazione di fronte all’ambasciata del Ruanda a Bruxelles contro il sostegno di Kigali ai ribelli di M23, che stanno avanzando nelle regione orientali delle Repubblica democratica del Congo

IL PARADOSSO RUANDESE

Le violazioni del diritto internazionale perpetrate dal regime di Kagame non hanno dunque comportato adeguate conseguenze, grazie all’acquiescenza delle grandi potenze, che vedono Kigali come partner strategico affidabile, e al malriposto debito morale che l’ONU sente di avere verso il Ruanda.
L’importanza geopolitica del Ruanda è testimoniata dalle recenti intese con l’Europa: l’accordo con il Regno Unito per la deportazione dei migranti (siglato nel 2022, poi naufragato) e gli accordi con l’Unione Europea su materie prime strategiche (febbraio 2024) e aiuti militari (ottobre 2024).
La remissività dell’ONU verso Kigali è ben esemplificata dal caso della procuratrice del Tribunale Internazionale per il Ruanda, Carla del Ponte: nel 2004 l’ONU non sostenne la sua richiesta di investigare sul comportamento del RPF nella guerra civile, assecondando le proteste di Kagame e causando le dimissioni della procuratrice. Nonostante negli anni l’ONU abbia documentato crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati dall’esercito ruandese in Congo, a partire dal noto Mapping Report (2010) fino al più recente rapporto del Group of Experts on DRC (dicembre 2024), non sono seguite le dovute sanzioni.
Il Ruanda gode di impunità e libertà d’azione non comuni per un Paese africano, configurandosi come un vero e proprio paradosso: è uno Stato autoritario, ma anche un modello di stabilità, crescita ed emancipazione femminile esaltato dalle democrazie liberali; è sprovvisto di riserve minerarie, ma è il primo esportatore mondiale di coltan; ha invaso a più riprese il Congo e sostenuto brutali milizie etniche, ma è un partner affidabile e imprescindibile per garantire la sicurezza e combattere il terrorismo in Africa; fonda la sua identità nazionale sulla memoria di un genocidio, ma si macchia di crimini internazionali.
Non ci si può aspettare che la risposta internazionale verso le azioni del Ruanda nella Repubblica Democratica del Congo vada al di là delle tiepide condanne verbali delle ultime settimane. Kagame e il Ruanda sembrano intoccabili e le Istituzioni internazionali rimangono inerti, aumentando la frattura tra principi e pratiche e confermando la propria debolezza.

Giovanni Tosi

“President Paul Kagame of Rwanda, speaking at the London Summit on Family Planning” by DFID – UK Department for International Development is licensed under CC BY-SA

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Perchè è importante

  • Il conflitto nella regione dei Grandi Laghi ha radici storiche profonde legate alle tensioni etniche tra hutu e tutsi. In Ruanda, dopo il genocidio, il RPF guidato da Paul Kagame ha preso il potere, instaurando un regime caratterizzato da repressione politica e violazioni dei diritti umani, eppure decantato come modello di modernitĂ  e sviluppo: una “Singapore d’Africa”.
  • Il Ruanda, nonostante contraddizioni e accuse di crimini internazionali, è considerato un partner strategico dalle grandi potenze e dalle Organizzazioni internazionali. StabilitĂ , crescita economica e partecipazione alle missioni di pace lo rendono un attore geopolitico rilevante, mentre le sue azioni in Congo continuano a destabilizzare la regione. L’impunitĂ  ruandese evidenzia le contraddizioni della comunitĂ  internazionale, che chiude un occhio sulle violazioni dei diritti umani in cambio di cooperazione strategica e sicurezza regionale.

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Giovanni Tosi
Giovanni Tosi

Classe 1998. Ho conseguito, presso l’Università degli Studi di Milano, una laurea triennale in Filosofia e una magistrale in Storia, con una tesi sulla Cina e la Responsibility to Protect. I miei principali interessi di analisi riguardano la politica estera dei Paesi afro-asiatici, l’evoluzione storico-politica delle Organizzazioni internazionali e il processo di transizione sistemica innescato dall’ascesa dei Paesi emergenti. Per il resto, mi piace leggere, suonare e camminare in montagna.

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