Da qualche giorno si è conclusa a Washington la prima settimana di colloqui tra Stati Uniti e Unione Europea per raggiungere l’accordo sulla realizzazione di un’area di libero scambio. Sia Mike Froman, consigliere di Barack Obama per il commercio estero, sia Ignacio Garcia-Bercero, leader dei negoziatori UE, l’hanno definita una settimana produttiva. I negoziati riprenderanno in ottobre
Cosa significa la sigla TTIP?
Letteralmente significa Transatlantic Trade and Investment Partnership, partenariato transatlantico su commercio e investimenti. L’intenzione è liberalizzare l’equivalente di un terzo dell’intero commercio mondiale, cioè il peso degli scambi tra Stati Uniti e Unione Europea. Non sarà un negoziato semplice poiché i punti da trattare sono molteplici: dalla liberalizzazione dei servizi a quella dei prodotti agricoli, da una sistemazione dei problemi degli standard alla promozione su scala globale di principi comuni, per esempio sulla proprietà intellettuale e sullo sviluppo sostenibile.
È il primo tentativo di unire le due sponde dell’Atlantico?
In realtà ci fu il progetto di creazione di un’area di libero scambio (Transatlantic Free Trade Agreement, TAFTA), la cui discussione prese avvio a metà degli anni Novanta. Il TAFTA non godeva, però, di un contesto economico adeguatamente favorevole né di un ampio consenso politico e dell’opinione pubblica. Infatti, le barriere tariffarie tra Stati Uniti e Unione Europea erano già mediamente basse e si preferì lavorare su accordi con altri Paesi, per la riduzione degli ostacoli al commercio. Inoltre i gruppi di pressione più rilevanti (si pensi alla liberalizzazione dei prodotti agricoli) non erano disposti a cedere sulla protezione commerciale del proprio settore. Infine i ritmi di crescita, negli Stati Uniti, e di integrazione, in Europa, non posero la conclusione dell’accordo ai primi posti delle rispettive agende governative. L’ambiente politico ed economico è però decisamente cambiato e, oltre alle complessità che la TTIP può presentare, i benefici possono giocare, questa volta, un ruolo decisivo.
Quali saranno i vantaggi di questo nuovo accordo?
Un’area di libero scambio porterebbe vantaggi ampi e diffusi. L’obiettivo dei promotori dell’accordo è stimolare la crescita e rafforzare l’integrazione transatlantica. Il gruppo di lavoro di alto livello, che ha avuto il compito di preparare la strada per i negoziati, ha individuato tre profili di intervento principali: migliorare l’accessibilità ai mercati, limitare per quanto possibile le barriere non tariffarie (si stima che l’80% dei benefici in termini di maggiore ricchezza dipenda dal successo di quest’intervento) e promuovere posizioni comuni in sede di negoziati multilaterali. Secondo uno studio indipendente del Centre for Economic Policy Research di Londra, l’aumento annuale del prodotto, una volta che l’accordo sarà a regime, è stimato da 68 a 119 miliardi di dollari per l’UE e da 50 a 95 miliardi per gli USA. In pratica l’impatto sul PIL dovrebbe essere riscontrabile tra lo 0,2% e lo 0,5%. Sempre secondo questo studio le esportazioni dall’UE verso gli Stati Uniti dovrebbero crescere di una percentuale variabile tra il 16 e il 28% (circa 187 miliardi di dollari in più nel caso più ottimistico). Diversamente, gli USA vedrebbero un incremento dell’export verso l’Europa tra il 23 e il 37%.
Quali i punti critici?
Sebbene il presidente Hollande abbia espresso recentemente dubbi sull’apertura del mercato francese alla concorrenza di Hollywood (per ciò che riguarda i prodotti culturali) e abbia tentato di legare l’accordo a un chiarimento sul caso “Datagate”, sussistono altri tre aspetti molto più problematici da risolvere. Il primo riguarda la protezione tradizionale di cui godono i settori agricoli europeo e statunitense. Le barriere tariffarie sono tuttora alte rispetto alla media dei prodotti non agricoli (il dazio medio per i prodotti industriali è del 4% mentre per quelli agricoli è di circa il 9% negli USA e il 18% nell’UE), e gli ostacoli non tariffari saranno più difficili da eliminare o limitare in questo ambito. Il secondo fattore di complessità riguarda le regolamentazioni. Sarà difficile raggiungere un accordo sull’armonizzazione effettiva degli standard, nonostante sia stato dichiarato esplicitamente come obiettivo del TTIP (più probabile un compromesso sul mutuo riconoscimento). In particolare gli standard sanitari e di protezione del consumatore e dell’ambiente portano a una riduzione degli scambi e a un aumento dei costi (per esempio per uno stesso prodotto si possono rendere necessari test differenti per i due mercati). Senza poi contare che alcuni prodotti sono considerati in maniera diversa negli Stati Uniti e in Europa: due su tutti la carne di allevamenti nutriti con ormoni della crescita e gli organismi geneticamente modificati (i prodotti OGM), ampiamente accettati dai consumatori statunitensi, meno dagli europei. Ultimo nodo difficile da sciogliere sarà quello delle commesse pubbliche. Oltre ai settori sensibili (in primo luogo la difesa) si presentano criticità in particolare per le imprese europee che vogliano partecipare ai bandi pubblici americani, per via della clausola “buy american“, applicata soprattutto a livello dei singoli Stati (non solo a livello federale), la quale può impedire di fatto l’accesso di attori stranieri ai bandi stessi.
L’Italia è interessata a un partenariato transatlantico?
L’Italia ha un regime tariffario favorevole con gli Stati Uniti. Il rapporto di Confindustria (maggio 2013), che utilizza anche dati forniti dal WTO, afferma che, delle 350 linee tariffarie che costituiscono l’80% del nostro export negli USA, 325 voci hanno un dazio pari a zero o inferiore al 10%. L’Italia è più interessata agli effetti di una riduzione delle barriere non tariffarie, in particolare al riconoscimento reciproco degli standard, poiché il maggior ostacolo per le imprese italiane restano le norme e i regolamenti adottati negli Stati Uniti. Inoltre sarà impegnata in un’azione per promuovere gli aspetti relativi al riconoscimento delle indicazioni geografiche, fondamentali per il settore agro-alimentare. Infine risulterà importante l’impatto della riduzione degli ostacoli sugli investimenti, poiché gli IDE italiani sul totale in USA rappresentano lo 0,9% e quelli americani circa l’8,7% del totale di quelli in Italia. Il premier Enrico Letta ha recentemente espresso il suo impegno personale affinché i negoziati vadano presto in porto e ha indicato il secondo semestre 2014, quando sarà il turno dell’Italia alla Presidenza del Consiglio UE, come periodo per concludere i colloqui. Una scadenza forse troppo ambiziosa, ma che dà l’idea del serio commitment del nostro Paese.
Davide Colombo