Il 12 gennaio 2010 un terremoto fortissimo mise in ginocchio Haiti. A quasi quattro anni di distanza, e a un anno dal termine della missione di ricostruzione delle Nazioni Unite, analizziamo gli sforzi degli haitiani e del loro presidente Martelly per uscire dalla povertà e dalla disoccupazione.
CERCASI INVESTIMENTI – Il presidente Martelly e il suo Governo cercano investimenti e promuovono Haiti fissando come obiettivo l’ascesa del Paese nella top 50 della Banca Mondiale per la facilità degli affari (ora si attesta al 174° posto su 185 Paesi). Ma la crescita tanto sperata, e prevista dal Fondo Monetario Internazionale all’8%, non riesce a decollare, restando a un modesto 2,5% a causa anche delle tempeste tropicali che hanno messo in ginocchio gli agricoltori haitiani. Inoltre la maggior parte dei programmi cash-for-work organizzati dopo il terremoto sono giunti al termine e molte delle ONG che affollavano il Paese hanno chiuso gli uffici lasciando gli haitiani impiegati senza più occupazione. Circa tre quarti sono ora senza lavoro o cercano di far quadrare i conti nell’economia informale. Martelly, benché rimanga popolare, deve rispondere a chi lo critica di voler mettere Haiti in vendita. I suoi detrattori sostengono che le esenzioni fiscali offerte agli investitori stranieri saranno di ostacolo agli sforzi per ridurre la dipendenza dagli aiuti esterni.
È da rilevare, però, che nonostante le agevolazioni fiscali e la manodopera a buon mercato, poche sono state le risposte degli investitori, scoraggiati dalla paura di instabilità sociale e dalla mancanza di chiarezza sui diritti fondiari. Il problema è che, come Haiti ha bisogno di investimenti per generare stabilità sociale e crescita economica, allo stesso modo c’è bisogno di stabilità sociale e di migliori infrastrutture per attrarre investimenti. Ci sono senza dubbio alcuni segni di progresso: l’aeroporto ha un nuovo terminal internazionale, la maggior parte delle macerie sono state rimosse e nuovi alberghi sono stati aperti, eppure le minacce di epidemie di colera si presentano sempre dopo ogni tempesta tropicale. Purtroppo la maggior parte del denaro che è stato erogato è andata spesa principalmente in misure di urgenza temporanee (tende e acqua su tutti). Dei grandi progetti di ricostruzione è rimasto quasi nulla e il sistema delle Nazioni Unite, destinato a coordinare la risposta alla crisi, ha terminato il suo compito con il 2012, mentre i nuovi appelli umanitari rivolti ai donatori hanno dato una debole risposta. Di conseguenza, i progetti sono incompiuti. Per colmare la lacuna, il Governo ha fatto ricorso al Fondo Petrocaribe, sistema di aiuti istituito con il Governo venezuelano, che fornisce a Haiti e ad altri Paesi petrolio in regime preferenziale da poter rivendere e che genera circa il 4% del PIL.
DEBITI INTERNAZIONALI E INVESTIMENTI – Povertà, corruzione e difficile accesso all’istruzione per gran parte della popolazione sono i gravi inconvenienti per lo sviluppo. Haiti è il Paese più povero dell’emisfero occidentale, con l’80% della popolazione che vive sotto la soglia di povertà e il 54% in condizioni di estrema povertà, due quinti degli abitanti dipendono dal settore agricolo di sussistenza su piccola scala, e rimangono vulnerabili alle frequenti calamità naturali. Il terremoto ha inflitto 7,8 miliardi di dollari di danni: Haiti, però, ha ricevuto 4,6 miliardi di dollari in impegni internazionali per la ricostruzione. Nel 2005 il Paese ha pagato gli arretrati alla Banca Mondiale, riuscendo così a ricevere la conferma per futuri aiuti, mentre il resto del suo debito estero è stato annullato dai donatori dopo il terremoto del 2010, ma da allora è salito ancora. Già nel 2006 gli Stati Uniti hanno mostrato il loro interessamento verso Haiti con il Partnership Encouragement Act (HOPE I), grazie al quale si approvavano investimenti e facilitazioni doganali, seguito nel 2010 dall’Economic Lift Program Act (HELP), al fine di supportare l’industria tessile haitiana tramite investimenti delle grandi firme americane come Gap. Nonostante questi programmi, le rimesse sono la principale fonte di valuta estera, pari a quasi il 20 % del PIL, e il Governo haitiano basa la sostenibilità dei conti pubblici sull’assistenza internazionale.
HAITI, LA VIVE – Con questo slogan il Ministero del turismo haitiano cerca di presentarsi al mondo mostrando il lato migliore del Paese per far dimenticare le immagini del terremoto e dell’emergenza umanitaria. Il mare cristallino, il calore delle musiche e del folklore, la cucina dalle influenze francesi e africane sono tra gli elementi che il Governo propone per richiamare turisti, ed è proprio il turismo lo strumento che potrebbe portare Haiti a risollevarsi dalla situazione di assoluta povertà causata da anni di incertezza politica e dal catastrofico sisma. In generale il settore turistico caraibico ha visto negli ultimi anni una netta crescita (pari al 5,4% annuo) data sia dalle incertezze politiche e dal rischio terroristico delle aree del Nord Africa e del Medio Oriente, che hanno portato i vacanzieri a scegliere mete più sicure, sia dallo svilupparsi di proposte commerciali diversificate negli arcipelaghi centroamericani. Se in passato tali mete erano riservate al jet set statunitense ed europeo, l’ampliarsi delle offerte “tutto compreso” dei tour operator e l’aumento delle crociere dei colossi come Carnival ha fatto sì che i Caraibi divenissero un paradiso per tutte le tasche. Haiti potrebbe “afferrare al volo” questo momento propizio: basti pensare che l’anno scorso il Paese ha ricevuto solo 950.000 turisti (da navi da crociera) a fronte della limitrofa Repubblica Dominicana con 4,5 milioni di presenze. Il turismo porterebbe fondi nel Paese a oggi assolutamente necessari, nella speranza che questi vengano utilizzati per migliorare le infrastrutture, creare posti di lavoro e sostenere la ricostruzione a tutela di soggetti vulnerabili.
Maria Sole Zattoni