L’instabilità della regione MENA può essere la chiave di volta fondamentale per la leadership egiziana a medio termine. Ma il generale al-Sisi si è guadagnato credibilità internazionale e legittimità interna solo a caro prezzo. Infatti, dalla sua elezione dello scorso maggio il presidente egiziano ‘Abd el-Fattah al-Sisi si è ritrovato a dover affrontare diverse crisi regionali e problematiche interne. Attivo su più fronti e affannato all’interno soprattutto da questioni sociali, il Paese ha a lungo ponderato la strategia internazionale e sembra ora deciso a prendere le redini dell’area.
IL ‘SUCCESSO’ DI GAZA – L’ennesimo episodio del conflitto israelo-palestinese si è concluso il 26 agosto con un accordo fra le parti fortemente auspicato e direttamente negoziato dall’Egitto. Sarebbe tuttavia riduttivo limitare a questo l’influenza egiziana. Al-Sisi, a più riprese condannato dall’interno per le sue politiche poco islamiche, si è infatti imposto agli occhi dell’Occidente come un partner affidabile, strategicamente, ma anche ideologicamente. Dopo aver deposto l’ex presidente Muhammad Morsi, al-Sisi ha messo per la terza volta nella storia egiziana il bando all’organizzazione dei Fratelli Musulmani e ne ha sciolto l’ala politica (Partito Libertà e Giustizia). È anche in quest’ottica che va letto lo scarso sostegno ad Hamas, ramo palestinese dei Fratelli Musulmani, oltre che in prospettiva di appoggio alle più ampie politiche occidentali di contrasto al terrorismo. Non da ultimo, l’aiuto di al-Sisi alla popolazione palestinese è stato minimo in termini umanitari, ma credibile agli occhi dell’Occidente, poiché si è avvalso di strumenti diplomatici chiari – la maggior parte dei cessate il fuoco è arrivata per parte egiziana – e del suo popolo, che in un clima di crisi generale non si è visto sottrarre importanti risorse.
I FRONTI APERTI OGGI: LA LIBIA – Forte dell’esperienza palestinese, al-Sisi sembra intenzionato a imporsi di nuovo sulla scena regionale e le occasioni di certo non mancano. La complessa situazione libica è un enorme campo di prova per l’Egitto e una eventuale risoluzione promossa o influenzata da al-Sisi sarebbe un successo incredibile per le mire del Presidente egiziano. Muhammad Badr al-Din Zayed, sottosegretario agli Esteri, ha dichiarato apertamente l’esistenza di una strategia egiziana per la Libia, che passa attraverso il supporto incondizionato al Parlamento libico, poiché unica Istituzione formalmente legittima. Ancora una volta non saranno appoggiate quindi le milizie di carattere islamico ed è alla luce di questo che diversi analisti occidentali hanno ricondotto all’Egitto la matrice dei misteriosi attacchi aerei avvenuti negli ultimi giorni sulle sedi di Fajr Libia (Alba Libica). Un documento apparso su Al Jazeera riporta l’esistenza di un «accordo di cooperazione strategica e condivisione di capacità militari fra la Repubblica d’Egitto e lo Stato della Libia», in cui i due Paesi si impegnano a definire i costi e le modalità d’aiuto per i prossimi cinque anni.
Abdel Fattah al-Sisi incontra il principe saudita al-Walid bin Talal al Cairo nel maggio 2014, pochi giorni prima della sua elezione a Presidente
LA COALIZIONE ANTI-ISIS – Al-Sisi si è prontamente unito alla coalizione guidata dagli Stati Uniti per sconfiggere lo Stato islamico in Siria e Iraq. Dando un’ulteriore conferma del proprio impegno nella lotta al terrorismo, il Presidente ha dichiarato la totale conformità dei mezzi egiziani alla missione anti-ISIS, ma ha tuttavia escluso a priori l’utilizzo di truppe di terra. Non è ancora chiaro quale sarà il ruolo fattivo dell’Egitto: il segretario di Stato americano John Kerry ha comunque apprezzato l’adesione e nella giornata di sabato ha stilato un programma operativo con i militari del Paese nordafricano. Per ora il ruolo egiziano è puramente ideologico: le televisioni mostrano ripetutamente immagini avverse allo Stato islamico e la settimana scorsa persino il Gran Mufti d’Egitto si è espresso, dichiarando apertamente la «non islamicità» dell’ISIS.
I PROBLEMI INTERNI – Eppure al-Sisi avrebbe molto da fare in chiave anti-ISIS fin da subito. Diversi combattenti occidentali e nordafricani sfruttano la pista egiziana per raggiungere la Siria, nonostante la rotta più battuta rimanga quella turca. In particolare, vi sono alcune zone sicure sulle alture del Sinai in cui i wannabe jihadist (aspiranti jihadisti) si sottopongono ad addestramenti prima di essere inclusi nel gruppo di destinazione. Scortati brevemente attraverso la Giordania attraverso checkpoint sicuri, i miliziani possono raggiungere finalmente la meta in Siria. Uno dei network che opera in tal senso è Ansar Beit al-Maqdis, un gruppo jihadista che ha recentemente sottoscritto la bay’a (fedeltà) all’ISIS e ne imita la dialettica. Si calcola che circa il 10% di tutti i combattenti stranieri presenti in Siria sia di origine egiziana. Inoltre, l’Arabia Saudita, seppur anch’essa da tempo impegnata in politiche antiterrorismo, si è offerta di finanziare il restauro della moschea di al-Azhar ed è forte la minaccia di un’ondata di imam wahhabiti al Cairo, che porterebbe a ulteriore radicalizzazione e predicazione salafita.
Ma le tendenze estremistiche intestine al Paese non sono le uniche sfide poste al Governo di al-Sisi. Il Generale deve inevitabilmente pensare anche alla legittimità interna, che non sarà per sempre garantita dal solo impegno estero. In particolare il regime è accusato di forte autarchia, metodi oppressivi e censura. I frequenti soprusi sessuali sulle donne e la violenza verso le minoranze copte sono altre piaghe dalla difficile risoluzione. Anche gli indici economici non aiutano: nonostante un aumento delle importazioni e degli investimenti esteri, l’Egitto vive gravi difficoltà nei campi dell’esportazione, del turismo, dell’occupazione (è forse il primo Paese nel Maghreb per quanto riguarda la cosiddetta “economia parallela”, ossia lavoro in nero e attività non dichiarate) e ha un tasso di inflazione peggiore rispetto all’anno passato.
Per il momento i problemi dell’Egitto vengono coperti da un continuo impegno estero: resta da capire quanto effettivamente riuscirà a imporsi regionalmente al-Sisi e per quanto, quindi, potrà contare sull’effetto del rally ‘round the flag.
Marco Arnaboldi
[box type=”shadow” align=”aligncenter” ]Un chicco in più
Gli Stati Uniti hanno donato per il 2014 circa un miliardo e mezzo di dollari all’Egitto, che occupa il quinto posto nella classifica dei Paesi più aiutati da Washington dopo Israele, Afghanistan, Pakistan e Iraq. Del totale, 1,3 miliardi sono destinati a finanziare l’apparato militare, mentre 200 milioni sono i fondi per supportare l’economia e 7 milioni sono destinati ad attività di law-enforcement, tra cui antiterrorismo, non-proliferazione e controlli sul narcotraffico, oltre a programmi di sminamento.
Altro approfondimento su un fronte diverso: l’Egitto organizzerà a breve una conferenza al Cairo insieme al ministero degli Esteri norvegese per stilare un programma di aiuti economici destinati alla ricostruzione della Striscia di Gaza, per un valore intorno ai 7,8 miliardi di dollari. [/box]
Foto: Doctor Power