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La Brexit vista da Martin Feldstein

Il dibattito e le previsioni degli effetti della “Brexit” infiammano da mesi l’Europa. Tuttavia anche dall’altra parte dell’Atlantico, nonostante la sfida per la Casa Bianca, l’evento non è stato ignorato.


In questa sede l’obiettivo è analizzare l’opinione di merito di uno dei critici americani più avversi al
processo d’integrazione europea, Martin Feldstein. Docente di economia all’Università di Harvard; presidente emerito del National Bureau of Economic Research (NBER); dal 1982 al 1984 presidente del Council of Economic Advisers (CEA) e Capo consigliere economico di Ronald Regan; dal 2003 membro del Group of Thirty. Sin dalla nascita dell’UE e dell’euro attacca ferocemente l’Europa, senza eccezioni, tantomeno per la “Brexit”

LE RAGIONI DEL “LEAVE” – Una delle preoccupazioni che hanno preceduto il referendum consultivo dello scorso 23 giugno sulla “Brexit” è stata, ed è tuttora, l’incertezza economica portata dal “Leave” – che ha prevalso con il 51,9% rispetto al 48,1% del “Remain”. Secondo Martin Feldstein molti cittadini britannici erano tuttavia piĂą preoccupati del fatto che l’Unione europea (UE) avesse oltrepassato il suo mandato originario. Il sogno di Jean Monnet (1888 – 1979) di creare gli Stati Uniti d’Europa non era il sogno dei britannici. Inoltre questi non erano nemmeno interessati a fare dell’Europa un contrappeso agli Stati Uniti d’America, al contrario di Konrad Adenauer (1876 – 1967). La Gran Bretagna sarebbe stata semplicemente interessata ai vantaggi di una maggiore integrazione commerciale e del mercato del lavoro, con gli Stati del Canale della Manica. Quando i leader europei hanno pensato di consolidare il senso d’appartenenza attraverso la definizione di un’unione monetaria, il Regno Unito in ragione della clausola di opt-out ha mantenuto la sterlina e, con ciò, il controllo sulla sua politica monetaria. Questa scelta ha però comportato uno status di estraneitĂ  relativa all’interno dell’UE.
Mentre l’UE si ampliava a 28 membri, la Gran Bretagna non ha potuto limitare l’ingresso nel suo mercato lavorativo di cittadini stranieri. In conseguenza il numero di quest’ultimi dal 1993 è raddoppiato – superando i sei milioni –, ora pari a circa il 10% della forza lavoro. Inoltre la maggior parte sono cittadini provenienti da Stati non membri originari dell’UE e dove vige un basso livello salariale. Ammettendo che gli elettori i quali hanno votato “Leave” erano preoccupati per la conseguente pressione sui salari nel Regno Unito, questi non si sono dichiarati contrari all’aumento dei flussi commerciali e dei capitali, che sono l’essenza stessa della globalizzazione. I “pro-Brexit” in tal senso potrebbero indicare il successo del North American Free Trade Agreement (NAFTA) – accordo di libero scambio tra Canada, Messico e Stati Uniti in vigore dal 1° gennaio 1994 –, che non contiene alcuna disposizione in merito alla mobilitĂ  del lavoro. A differenza della Gran Bretagna gli altri Paesi dell’UE, guidati da Francia e Germania, hanno voluto molto di piĂą che un’area di libero scambio e un Mercato unico del lavoro.

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Fig. 1 – Il leader dell’UKIP Nigel Farage il giorno dopo il referendum, Londra, 24 giugno 2016

IL DOMINIO (TEDESCO) DELL’UE – I leader del “Vecchio Continente” quando hanno deciso di espandere il “progetto europeo”, hanno spostato il potere decisionale dalle istituzioni nazionali verso quelle dell’UE, giustificando ciò sotto il concetto di “sovranitĂ  condivisa”, secondo il quale la sovranitĂ  britannica – come quella di tutti gli altri Stati – poteva essere erosa senza alcun accordo formale con il Governo o senza l’assenso esplicito della cittadinanza. Per ciò che concerne invece la divisione dei poteri tra UE e Stati membri, questa è ispirata al “principio di sussidiarietà”, un elemento preso in prestito dalla dottrina sociale della Chiesa cattolica – secondo il quale se l’autoritĂ  inferiore è in grado di amministrare, quella superiore non interviene se non per sostenere l’azione. Tuttavia ciò non ha affatto mediato la regolamentazione da parte di Bruxelles e di Strasburgo, perchĂ© il principio di sussidiarietĂ  fornisce molta meno protezione rispetto al Decimo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti – che nega al governo federale i poteri non delegati dalla Costituzione. Andrebbe quindi considerato da questo punto di vista il Patto di stabilitĂ  e crescita (PSC) del 1997 – accordo “sollecitato” dalla Germania –, che ha rafforzato la vigilanza dei “parametri di Maastricht” relativi al bilancio dello Stato, quali il rapporto deficit/PIL inferiore al 3% e quello debito/PIL inferiore al 60%.
Dopo lo scoppio della crisi economico-finanziaria globale nel 2008, Angela Merkel avrebbe visto ciò come l’occasione per rafforzare ulteriormente i poteri dell’UE, facendo approvare un nuovo “Fiscal compact”, che ha autorizzato la Commissione europea a sorvegliare i bilanci annuali dei membri e a infliggere eventuali ammende per la violazione di bilancio e dei target di debito. Oltre a ciò la Germania avrebbe orchestrato anche l’Unione bancaria europea, allo scopo di istituire un unico quadro normativo e un meccanismo di risoluzione vincolante per le istituzioni finanziarie in difficoltà.

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Fig. 2 – Martin Feldstein durante un’intervista di Bloomberg Television, New York, 5 gennaio 2016

LA VITA OLTRE L’UE – Non tutte le linee di condotta dell’UE hanno toccato direttamente il Regno Unito, tuttavia hanno ampliato il divario intellettuale e politico tra questo e i membri dell’eurozona nell’UE: la Gran Bretagna storicamente orientata al libero mercato, contro molti Stati aventi ancora i segni del socialismo, come la pianificazione e regolamentazioni invasive.
Secondo Feldstein il referendum ha mostrato il disagio della popolazione britannica nei confronti dell’UE. A sostegno di ciò ha citato un recente sondaggio condotto dalla Pew Foundation, il quale ha rilevato che la maggioranza degli elettori di Francia e Spagna non vede l’UE con favore, in Germania vige un sostanziale pareggio tra favorevoli e contrari, mentre in Italia c’è una netta maggioranza che sostiene la bontà dell’adesione all’UE – anche se in un recente passato il Movimento Cinque Stelle ha promesso un referendum sull’euro in caso di vittoria delle elezioni politiche. Facilmente intuibile è l’orientamento della Grecia.
In molti prevedono che la “Brexit” avrà conseguenze economiche disastrose, tuttavia ciò dipenderà delle future relazioni tra UE, Gran Bretagna e resto del mondo. Il Regno Unito ora potrebbe trovarsi addirittura in una posizione vantaggiosa per negoziare accordi commerciali e attirare flussi di investimenti dagli Stati Uniti. Per esempio rispetto al Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) il Governo britannico, poiché al di fuori dell’UE, potrebbe negoziare un accordo più “snello”.

Claudio Cherubini

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””] Speciale – Una lunga storia

Le considerazioni di Feldstein a seconda del periodo in cui si esaminano possono essere viste come delle “profezie” oppure come “maledizioni”. Scrisse nel 1997 su Foreign Affairs che agli albori dell’Unione economica e monetaria europea (UEM), la maggior parte dell’opinione pubblica americana era convinta che fosse un oscuro progetto senza pericoli per gli Stati Uniti. Egli considerò questo un grave errore, convinto che ciò avrebbe cambiato la natura politica dell’Europa in maniera tale riportarla in guerra e generare scontri con gli Stati Uniti.
Feldstein ha ritracciato le ragioni politiche dell’UE e dell’euro, offrendo una sua visione. Nel 1956 dopo che gli Stati Uniti costrinsero la Francia e il Regno Unito a ritirare le proprie forze dal Canale di Suez, Adenauer avrebbe confidato ad un uomo politico francese che i singoli Stati europei non sarebbero mai stati potenze mondiali: «There remains […] only one way of playing a decisive role in the world; that is to unite to make Europe […]». L’anno seguente con il Trattato di Roma si lanciò il Mercato comune. Nel 1992 il Trattato di Maastricht – entrato in vigore nel 1993 – ha dato origine all’UE e all’UEM, una grande zona di libero scambio e di mobilitĂ  del lavoro, oltre che base per impostare il calendario di adozione della moneta unica e del Mercato europeo integrato di beni e servizi. La Commissione europea avrebbe adottato questo accordo come un “trampolino di lancio” verso una maggiore unitĂ  politica, rendendo agli occhi della popolazione la moneta unica un mezzo indispensabile. Secondo Feldstein nulla implicava però che per il libero commercio fosse necessaria una moneta unica. Egli pose in tal senso come esempio il NAFTA, che ha stimolato l’aumento degli scambi senza che Canada, Messico e Stati Uniti adottassero una moneta unica – ma paradossalmente ispirato all’UE.
L’economista, però, non era preoccupato degli effetti di breve periodo dell’UEM, ovvero sostituire le singole valute nazionali dei partecipanti con una moneta unica, l’euro, e spostare la responsabilità della politica monetaria dalle Banche centrali nazionali alla Banca Centrale Europea (BCE). L’effetto più pericoloso era quello di lungo termine: l’adozione di una moneta unica sarebbe stata non solo la base della creazione di un’unione politica ma di uno Stato federale europeo, di un’istituzione responsabile della politica estera e di sicurezza a livello continentale. Feldstein non aveva dubbi che la vera motivazione dell’UEM fosse politica e non economica, per questo profetizzò che gli effetti negativi dell’euro sulla disoccupazione e l’inflazione sarebbero stati superiori agli utili eventualmente derivanti dall’agevolazione dei flussi commerciali e finanziari.
Il Trattato di Maastricht prevedeva esplicitamente l’evoluzione verso una futura unione politica. Feldstein considerava la moneta nazionale emblema irrinunciabile della sovranità, la chiave per il perseguimento di una politica monetaria e di bilancio indipendenti. Il Trattato impose di abbandonare le monete nazionali per l’euro, per questo motivo avrebbe un forte significato in primis politico. Dai tempi di Monnet l’unione politica delle nazioni europee è stata concepita come un deterrente per ridurre il rischio di un’altra guerra intraeuropea. Il tentativo di gestire un’unione monetaria e il conseguente sviluppo di un’unione politica avrebbero invece reso, secondo Feldstein, più probabile l’effetto opposto. Invece di aumentare l’armonia e la pace, il passaggio all’UEM e l’integrazione politica avrebbero aumentato i conflitti in Europa e tra l’Europa e gli Stati Uniti. Tali conflitti sarebbero nati dalle divergenze in merito agli obiettivi della politica monetaria e non solo. Questi si sarebbero inaspriti in fasi negative del ciclo economico, contribuendo a generare un clima sfiducia tra le nazioni europee. I principali motivi di contrasto erano noti: il dissenso francese nei confronti della Germania per la sua politica monetaria e le sue mire di egemonia, a cui opponeva il suo desiderio di diventare co-direttrice delle sorti del Continente; l’ossessione tedesca per l’inflazione contro l’attenzione francese alla crescita e alla disoccupazione; l’impossibilità di svalutare per combattere la disoccupazione; il target inflattivo al di sotto del 3% per volere tedesco, fonte di trade-off tra inflazione e disoccupazione; la potenziale necessità di coordinare e unificare i sistemi di tassazione, che avrebbe imposto un’ulteriore e dolorosa cessione di sovranità.
L’unione politica avrebbe comportato dei dissapori a causa di attese incompatibili circa la condivisione del potere, con disaccordi sostanziali sulle politiche interne e internazionali dell’UE. Visto che nel progetto iniziale non tutte le nazioni europee erano parte dell’unione monetaria e politica, Feldstein ipotizzò conflitti anche con gli Stati dell’Europa ex-sovietica, che avrebbero coinvolto anche gli Stati Uniti, su questioni come la politica estera e il commercio internazionale. Tutto ciò perché le politiche estere e militari dell’UE sarebbero state imposte da un ristretto gruppo di “Stati dominanti”.
L’economista ha sempre considerato l’Europa unita abbastanza grande e ricca da proiettare un’ingente potenza militare nella politica globale. Questo perchĂ© alla nascita dell’UE il Continente contava quasi 300 milioni di abitanti e un’economia approssimativamente uguale per dimensioni a quella degli Stati Uniti. Quindi l’Europa politicamente unificata e con una politica estera e militare indipendente avrebbe accelerato la riduzione della presenza militare statunitense, indebolito la North Atlantic Treaty Organization (NATO) e reso sĂ© stessa piĂą vulnerabile agli attacchi. L’indebolimento dell’egemonia globale dell’America avrebbe poi indubbiamente complicato le relazioni militari internazionali a livello generale. Questo perchĂ© anche se la Russia si stava concentrando sulla ristrutturazione industriale, secondo Feldstein rimaneva una grande potenza nucleare. Le relazioni tra la Russia e l’Europa sono sempre state importanti ma imprevedibili. GiĂ  nel 1997 Feldstein ipotizzava le mire del Cremlino di recuperare il controllo dell’Ucraina e dubitava che l’UE avrebbe reagito con la forza. Egli mostrò dubbi anche sulle relazioni tra l’UE e il Nord Africa, il Medio Oriente e gli Stati musulmani dell’ex Unione Sovietica, importanti potenziali fonti di energia per l’Europa. Feldstein considerava quindi la guerra in Europa un’eventualitĂ  non impossibile. I conflitti per le politiche economiche e le interferenze con la sovranitĂ  nazionale potevano resuscitare le animositĂ  di lunga data, basate sulla storia, le nazionalitĂ  e la religione.
L’UEM era allora la base per l’unione politica e militare avente lo scopo di far diventare indipendente l’Europa dagli Stati Uniti. In ragione di ciò Feldstein mise in guardia l’America: in primis dovevano ripensare la propria politica estera rispetto all’Europa, cioè adoperarsi per prevenire i conflitti in quest’ultima, quindi impedire a Bruxelles di intervenire tra Washington e le capitali europee e rafforzare i legami con queste; in secondo luogo gli Stati Uniti dovevano diventare consapevoli che l’Europa economicamente e politicamente unificata avrebbe cercato un diverso rapporto – i funzionari francesi in particolare erano stati chiari nel sottolineare che la ragione principale dell’unificazione era quella di ridurre l’influenza degli Stati Uniti; infine l’America doveva riconoscere che non sarebbe stata piĂą in condizione di contare sull’Europa come un alleato in tutte le sue relazioni con altri Stati e, perfino, considerare la possibilitĂ  di interessi apertamente in conflitto.
L’UEM, secondo Feldstein, era l’anticamera per un mondo non necessariamente più sicuro. A sostegno di ciò sottolineò che i 50 anni di pace generati dal processo d’integrazione europea, dalla fine della WWII alla nascita dell’UE, potevano essere al massimo di buon auspicio per il futuro. A tal proposito ricordò che tra il Congresso di Vienna e la guerra franco-prussiana vi furono più di 50 anni di pace. Anche se considerava difficile profetizzare con certezza gli effetti delle criticità da lui individuate, Feldstein considerava pericoli reali tutte le nefaste conseguenze ipotizzate, questo per via di una caratteristica fondamentale dell’UE, in generale, e dell’UEM, in particolare: l’assenza di meccanismi di opt-out – salvo eccezioni. Richiamò in tal senso l’esperienza americana della secessione del Sud, come un’importante lezione in merito ai pericoli di un trattato o una costituzione che non lascia vie d’uscita.
Nel corso degli anni l’opinione dell’economista non è mai cambiata: nel 2012 – sempre su Foreign Affairs – ha sostenuto infatti che si dovrebbe riconoscere che l’euro è un esperimento fallito, il finale non di un incidente o di una cattiva gestione burocratica, piuttosto l’inevitabile conseguenza di aver imposto una moneta unica a un gruppo di Stati molto eterogenei. Sarebbe l’euro la causa della crisi europea dei debiti sovrani, della fragilità delle principali banche europee, degli alti livelli di disoccupazione e dei grandi passivi commerciali dell’eurozona. L’intento politico di creare un’Europa armoniosa sarebbe fallito. I politici europei avrebbero imposto la moneta comune per instillare nella cittadinanza un senso di appartenenza all’Europa, per poter spostare il governo dell’Europa a Francoforte senza avere proteste. [/box]

Foto di copertina di David Holt London pubblicata con licenza Attribution License

 

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Claudio Cherubini
Claudio Cherubini

Sono nato a Roma nel 1987, dove ancora risiedo. Sono laureato in Relazioni internazionali presso l’”Università degli Studi Roma Tre” e, non ancora saturo della materia, ho conseguito un master in “Relazioni internazionali e protezione internazionale dei diritti umani”, presso la “Società Italiana per l’Organizzazione internazionale” (S.I.O.I.) di Roma. Attualmente sono impegnato nella frequenza del master in “Global Marketing, comunicazione e made in Italy”, offerto dalla “Fondazione Italia USA” (di cui sono professionista accreditato) e dal “Centro Studi Comunicare l’Impresa” di Bari (C.S.C.I.). Coltivo a livello meramente amatoriale la passione per la letteratura italiana, mentre ho sviluppato un forte interesse per la crisi economica e finanziaria che da anni attanaglia il mondo, l’Italia particolar modo.

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