Analisi – L’orrore dell’invasione russa in Ucraina ha risvegliato l’atavica paura dell’ingombrante vicino dell’Est nella penisola scandinava. Dopo secoli di neutralità , Svezia e Finlandia hanno infine deciso di presentare la propria candidatura alla NATO. Quello che doveva essere un processo di adesione facile e veloce si è, però, tramutato in potente arma di ricatto della Turchia per veder esaudite alcune richieste che da tempo le erano state negate dagli scandinavi.
LA FINE DI UN’ERA
È finita, il 16 maggio 2022, la centenaria tradizione di politica estera neutrale della Svezia e della Finlandia. Incassando un’ampia maggioranza parlamentare, il Governo di Magdalena Andersson ha ritenuto di procedere all’iter di adesione alla NATO, dichiarando che la neutralità ha servito bene la Svezia negli ultimi 200 anni ma che oggi, alla luce dell’invasione russa in Ucraina, il Paese ha bisogno di un cambio radicale di rotta.
Stesso copione è stato ripetuto a Helsinki, dove il sì all’ingresso nella NATO è stato votato dal Parlamento con 188 favorevoli e soli 3 contrari, sulla scia delle stesse ragioni.
Le speranze erano di un iter di ammissione facile e veloce, alla luce della loro appartenenza all’Unione Europea, nonché alle numerose passate collaborazioni con la NATO in qualità di Paesi partner.
Non avevano, tuttavia, tenuto in conto che un ingombrante membro NATO, il cui contingente militare è il secondo più grande dell’Alleanza, la Turchia, aspettava da tempo un’occasione simile per veder esaudite quelle richieste cui gli scandinavi avevano finora fatto orecchie da mercante.
Uno dei pilasti della politica interna del Presidente turco Erdogan è, infatti, la totale repressione di qualsiasi istanza legata alla minoranza curda del Paese. Ciò ha importanti riverberi anche molto oltre i confini turchi, nelle relazioni internazionali con l’Occidente.
LA QUESTIONE CURDA
Il destino del popolo curdo è una delicata questione che risale grossomodo all’inizio del secolo scorso. Si tratta di un’etnia nativa delle catene montuose a cavallo di un’area che oggi è divisa tra Turchia, Siria, Iraq e Iran e alla quale fu promessa l’indipendenza dai vincitori della I Guerra Mondiale a seguito dello smantellamento dell’Impero Ottomano nel 1920. Tale spartizione fu però riscritta a Losanna appena un anno dopo, per accontentare le richieste della nascente Repubblica turca di Ataturk. Il filo rosso che da allora ha accomunato il destino dei curdi, indipendentemente dallo Stato in cui si trovavano a vivere, è la negazione dello status di minoranza etnica e i diritti che ne conseguirebbero: da quelli basilari come l’utilizzo della propria lingua fino all’eventuale autonomia regionale.
I decenni di oppressione hanno formato generazioni di combattenti, e un popolo che ha fatto dell’autodifesa uno dei propri collanti sociali, a volte convogliati istituzionalmente con successo, come nel caso dei Peshmerga nella regione autonoma del Kurdistan iracheno. Questi ultimi hanno intessuto relazioni molto strette con l’Occidente per decenni, dalla I Guerra del Golfo fino alla lotta all’ISIS, ricevendo finanziamenti ed elogi anche per la particolare composizione delle loro divisioni armate di natura mista maschile e femminile. Stesso discorso vale per le Unità di Difesa Popolare (YPG e YPJ) attive in Siria dopo lo scoppio della guerra civile e preziosissime nella lotta all’espansione dello Stato Islamico.
Proprio queste due formazioni sono nel mirino di Erdogan da quando hanno instaurato un’autonomia de facto nella regione del Kurdistan siriano (comunemente chiamata Rojava) per far fronte alle esigenze e alla protezione dei profughi che scappavano dalla guerra civile a sud e dall’ISIS a est.
Ciò che il Presidente turco recrimina ai curdo-siriani è la presunta appartenenza al PKK, organizzazione perseguita come terroristica in Turchia, comunque mai del tutto provata se non per l’affinità che l’amministrazione autonoma dimostra di avere per le idee politiche del dissidente curdo Abdullah Öcalan. Con i dovuti distinguo va però sottolineato che tali idee risalgono a un periodo successivo rispetto a quando questi era leader del PKK, ovvero quello del suo incarceramento sull’isola di Imrali.
Nell’ottobre 2019 l’esercito turco ha infine sfondato il confine con la Siria con l’obiettivo dichiarato di combattere le Unità di Difesa Popolare del Rojava, provocando quasi un centinaio di morti e più di 130mila sfollati. All’incursione seguirono degli scontri ai quali partecipò anche il Governo siriano, per la prima volta collaborando attivamente con le forze di autodifesa curde, e dei negoziati mediati dalla Russia. Gli sforzi diplomatici risultarono nella creazione di una buffer zone tra Rojava e Turchia, presidiata da diverse Forze Armate congiunte.
COSA C’ENTRA LA SCANDINAVIA
Svezia e Finlandia sono tra i Paesi europei che hanno accolto più rifugiati della diaspora curda. Si stima che ci siano circa 100mila curdi in Svezia, molti associati in organizzazioni culturali e attivi in ambito politico, tanto che alle ultime legislative ben 6 (di 20 candidati) cittadini svedesi di origine curda sono stati eletti in Parlamento.
In generale il supporto delle Istituzioni svedesi alla causa curda non si è mai fatto desiderare in passato. Eppure Ann Linde, ministra degli Esteri svedese dal 2019 e colei che negli ultimi anni ha intrecciato più strette relazioni con il Rojava e imposto l’embargo alle esportazioni militari alla Turchia, è la stessa persona a firmare oggi un accordo con Erdogan coinvolgendo proprio la comunità curda, al solo fine di incassare il benestare di Ankara per l’ingresso in NATO.
Si tratta di un impegno sottoscritto al NATO Summit di Madrid il 28 giugno scorso, in cui Svezia e Finlandia accettano di esaudire le richieste del Presidente turco in cambio del voto positivo al loro l’ingresso nel Patto Atlantico.§
Com’è noto i candidati NATO vanno accettati con votazione parlamentare di tutti i Paesi membri, occasione di ricatto che la Turchia non si è lasciata sfuggire. Erdogan ha accusato Svezia e Finlandia di essere complici del terrorismo curdo sia per quanto concerne il Kurdistan siriano, sia per i numerosi rifugiati curdi che i due Paesi ospitano. Richiede dunque la cessazione dei contatti con il Rojava e l’estradizione di una lista di curdi che egli ritiene terroristi. Pretende inoltre che sia revocato l’embargo di armi imposto nel 2019.
Tuttavia l’effettivo testo dell’accordo è molto più generico delle reali rivendicazioni turche, dando margine d’interpretazione agli scandinavi per cercare di soddisfare le istanze nei limiti del loro diritto interno e di quello internazionale, anche se ciò ha solo comportato ulteriori ritardi e battibecchi diplomatici fra i tre Paesi.
L’iter è ancora lontano dalla conclusione, ma nel frattempo le ripercussioni nella politica interna di Svezia e Finlandia si fanno sentire. Da un lato c’è chi è scettico che cambi qualcosa nei rapporti con i curdo-siriani, così come per i rifugiati curdi (molti dei quali sono in possesso di cittadinanza svedese). Ma la loro paura è tanta.
Inoltre, in entrambi i Paesi, molti recriminano ai Governi il fatto stesso di essersi seduti al tavolo delle trattative con un personaggio autoritario, coinvolgendo le vite di persone vulnerabili. Questo può rivelarsi un passo falso cruciale per i Socialdemocratici svedesi, proprio a un mese dalle elezioni nazionali.
Stoccata finale arriva anche dalla Norvegia, che oggi annuncia di voler accogliere i rifugiati curdi che dovranno eventualmente scappar via dai vicini scandinavi per paura di essere estradati.
Debora Russo
Immagine in evidenza: Protesta delle associazioni curde a Stoccolma, 9 Luglio 2022, Foto dell’autrice.