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COP29: il tradimento dell’Africa e la frattura della solidarietĂ  climatica

In 3 Sorsi La COP29 tenutasi lo scorso novembre a Baku ha deluso le aspettative dei Paesi africani, che hanno denunciato la carenza di finanziamenti e l’incapacitĂ  della comunitĂ  internazionale di concretizzare obiettivi reali. Il rischio è che questo non solo comprometta la resilienza dei Paesi piĂą vulnerabili, ma addirittura mini la credibilitĂ  stessa del sistema multilaterale nella lotta ai cambiamenti climatici.

1. LE VULNERABILITĂ€ DELL’AFRICA

Con meno del 4% delle emissioni globali di gas serra, l’Africa è il continente che meno contribuisce alla crisi climatica. Tuttavia, in un tragico paradosso, è anche quello che ne subisce maggiormente gli effetti. Fenomeni come la siccità persistente nel Corno d’Africa, l’intensificazione del ciclone El Niño nell’Africa meridionale e le piogge torrenziali che devastano intere città in Africa occidentale e centrale sono manifestazioni di un solo grande problema, che riflette la crescente vulnerabilità del continente africano.
Nonostante ciò, l’Africa riceve appena il 3-4% dei finanziamenti globali per il clima. Secondo stime della Banca Africana di Sviluppo, 277 sono i miliardi di dollari che i Paesi africani necessiterebbero ogni anno fino al 2030 per contrastare adeguatamente la crisi, ma attualmente ne ricevono solo 30. La United Nations Economic Commission for Africa (UNECA) calcola, infatti, che la devastazione climatica costi al continente il 5% del PIL ogni anno, una perdita che aggrava ulteriormente l’iniquità di questa emergenza globale.
Il cuore delle discussioni alla COP29 ha dunque riguardato l’individuazione di un nuovo obiettivo di contribuzione finanziaria (New Collective Quantified Goal), mirato a stabilire impegni concreti per contenere il cambiamento climatico.

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Fig. 1 – Un dibattito all’interno del padiglione dell’Africa durante la COP29 di Baku, 13 novembre 2024

2. LA FRUSTRAZIONE DEI PAESI AFRICANI

Se da un lato i Paesi del Sud Globale avevano chiesto la cifra di 1.300 miliardi di dollari, specificandone la provenienza da fonti pubbliche e modalità diverse dai prestiti, l’obiettivo di contribuzione finanziaria è stato fissato a 300 miliardi di dollari all’anno fino al 2035, e alle fonti pubbliche sono state affiancate quelle private e provenienti da banche multilaterali. Per questo motivo la reazione dei negoziatori africani post COP29 è stata di avvilimento e frustrazione: nonostante i loro sforzi per ridurre le emissioni, le decisioni prese minacciano di aggravare la drammatica condizione debitoria di molti Paesi, e impediscono loro di implementare pratiche di adattamento e mitigazione.
African Arguments ha chiesto a una serie di esperti, negoziatori, ricercatori e attivisti un commento su ciò che è avvenuto alla COP29 e sul ruolo dell’Africa. Augustine Njamnshi, cofondatore dell’Alleanza Panafricana per la Giustizia Climatica, ha descritto l’accordo di Baku come un compromesso che non serve gli interessi del continente, denunciando un ricatto in cui i Paesi africani, di fronte alla crescente influenza dell’estrema destra in Europa e all’elezione di Donald Trump, sono stati costretti ad accettare un accordo insoddisfacente. Mohamed Adow, direttore di Power Shift Africa, e Iskander Erzini Vernoit, direttore esecutivo di Imal Initiative for Climate and Development, hanno denunciato una grave mancanza di solidarietĂ  da parte del “Nord Globale” nella decisione sul nuovo obiettivo finanziario, accusandolo di non affrontare seriamente la crisi climatica, promettendo fondi che non arrivano mai. Infine, Fadhel Kaboub, presidente del Global Institute for Sustainable Prosperity, ha criticato apertamente la conferenza, sostenendo che la COP29 non riguardasse realmente il clima, ma piuttosto una gerarchia economica e geopolitica che ostacola una vera azione climatica.

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Fig. 2 – Fila per l’acqua in uno dei campi per sfollati interni di Baidoa, in Somalia, che ospita decine di migliaia di persone colpite dalla pluriennale siccitĂ  nel Corno d’Africa, settembre 2022

3. TRA DESIDERATA E REALTĂ€

Secondo gli esperti, la ragione di questo insuccesso è da ricondurre al fatto che l’azione climatica sembra ormai essere concepita in una logica di mercato, piuttosto che di solidarietĂ  globale. Gli interessi nazionali hanno prevalso ancora una volta sul bene collettivo di preservare un pianeta vivibile, arrivando ad essere definiti forme di “colonialismo climatico”. Paesi produttori di petrolio, come gli Emirati Arabi Uniti, l’Azerbaigian e l’Arabia Saudita continuano a ostacolare i progressi verso l’abbandono dei combustibili fossili, mentre le economie piĂą sviluppate, responsabili delle maggiori emissioni, sono riluttanti a sostenere finanziariamente i Paesi piĂą vulnerabili. Esperti, scienziati e leader internazionali, tra cui l’ex Segretario Generale dell’ONU Ban Ki Moon, hanno quindi evidenziato la necessitĂ  di riformare il processo delle COP, in particolare chiedendo, in una lettera aperta, l’esclusione dei Paesi esportatori di petrolio e gas dalla presidenza.
In questo contesto di insoddisfazione e divisione, si può dire che la COP29 abbia messo in luce l’inefficacia dei meccanismi attuali nel rispondere alle sfide climatiche globali. L’incapacitĂ  di raggiungere un accordo significativo sui finanziamenti e sulle politiche di adattamento non solo compromette la resilienza dei Paesi vulnerabili, ma mina anche la credibilitĂ  del sistema multilaterale per la lotta ai cambiamenti climatici. Se il processo non evolve verso un impegno piĂą equo e trasformativo, le ripercussioni rischiano di essere tanto ambientali, quanto economiche e sociali, fino a compromettere le fondamenta stesse di una cooperazione globale fondamentale per il nostro pianeta.

Beatrice Gobbi

COP29 Behind the Scenes Day 1 (cop29a6176)” by IAEA Imagebank is licensed under CC BY

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Perchè è importante

  • La COP29 si è conclusa con un accordo finanziario insufficiente e non trasformativo, deludendo i Paesi africani.
  • L’inefficacia del vertice mina la credibilitĂ  del multilateralismo climatico e aggrava la crisi nei Paesi piĂą vulnerabili, come quelli subsahariani.

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Beatrice Gobbi
Beatrice Gobbi

Nata a Milano nel 1998, si è laureata prima in Cooperazione Internazionale e in seguito in Relazioni Internazionali con un’analisi comparativa del nazionalismo curdo in Iraq e in Iran. Da sempre appassionata di mondo islamico, negli anni ha affiancato questo interesse alla geopolitica delle risorse e al peacebuilding ambientale. Di giorno si occupa di progetti di sostenibilitĂ  presso il Politecnico di Milano e di sera scopre la letteratura e la cucina africana e mediorientale.

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