Siamo nel 2019. L’Africa punta i piedi per terra e chiede di essere riconosciuta come un interlocutore internazionale privilegiato. E ci sta progressivamente riuscendo. A dicembre 2017, nel corso dell’ultimo vertice UE-Africa di Abidjan (Costa d’Avorio) sono emersi alcuni dei temi “caldi”, destinati a modellare il futuro del continente nei prossimi anni: gestione dei flussi migratori – non solo esterni, ma anche interni – e operazioni di controterrorismo. Nonostante la crescente voglia di far sentire la propria voce, o meglio, le “proprie voci”, l’Africa deve, però, fare i conti con alcune emergenze, di carattere politico quanto ambientale. La minaccia più insistente è la crescente radicalizzazione di matrice jihadista, che trova la sua massima espressione in gruppi come Al-Shabaab e Boko Haram. E che ha manifestato tutta la sua violenza distruttiva durante lo scorso anno: la strage di Mogadiscio, nell’ottobre 2017, è stata definita da più parti come il più sanguinoso attacco nella storia dopo l’11 settembre. Un ulteriore elemento di destabilizzazione, negli ultimi mesi, è stato il progressivo crollo di alcuni capisaldi della politica africana. Tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018, infatti, si sono concluse le parabole politiche di José Eduardo Dos Santos (Angola), Robert Mugabe (Zimbabwe) e Jacob Zuma (Sudafrica). Si avvicina la fine di un’epoca, quella degli eredi diretti del colonialismo, che non ha ancora conciso, però, con una presa di coscienza politica tale da riscrivere i destini dei diversi Paesi africani. Quali forme assumerà l’Africa del domani? È ancora difficile dirlo.
A cura di Beniamino Franceschini