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Ve la diamo noi la Russia

Inizia da oggi la nostra collaborazione con Lo Spazio della Politica (www.lospaziodellapolitica.com), che prevede anche lo scambio di articoli e altri contributi. Cominciamo con un'interessante intervista a Giuseppe Grimaldi, uno studente che ha avuto la possibilità di trascorrere un periodo presso il Moscow State Institute of International Relations (MGIMO). Quale modo migliore per parlare della Russia se non conoscendola dall'interno? Ecco dunque un'intervista che sfata alcuni miti ed apre delle questioni che meritano approfondimento. Buona lettura.

Qual è il settore di cui ti occupi? In che modo sei entrato in contatto con la realtà russa?

G.G.) Sono uno studente bocconiano, in particolare sono alla fine del corso di laurea in discipline economiche e sociali. Ho avuto la possibilità di vivere in Russia grazie ad un programma di Double Degree fra l’Università Bocconi e l’Università MGIMO di relazioni internazionali di Mosca. Il programma è strutturato in maniera  tale che il periodo di studio a Mosca è completamente focalizzato sullo studio del settore energetico, e in particolare sulle industrie del gas e del petrolio. La Russia oggi, e da sempre, è un paese ricco di risorse naturali e in primo luogo gas e petrolio, che anche nei tempi dell’impero sovietico rappresentavano la parte più consistente del budget statale. Questa ricchezza però si traduce spesso in scarsa flessibilità e propensione all’innovazione. Il fatto che gas e petrolio siano risorse limitate non è infatti un aspetto che interessa i russi quanto gli europei. Non esiste qui una discussione pubblica sul futuro energetico del paese, perchè la storia del paese ha sempre avuto l’odore del petrolio, e la sicurezza che questo rimarrà per almeno un altro secolo sono sufficienti a spostare l’attenzione su altre problematiche. Osservare da vicino un settore così cruciale mi ha dato quindi l’opportunità di scoprire elementi caratteristici russi, come la rigida protezione del settore energetico. Ad esempio la famosa Gazprom viene tuttora chiamata “il Ministero” dai russi, ad indicare come sia una società privata solo all’apparenza.

In che modo nella tua esperienza sei entrato in contatto con gli stereotipi legati all’immagine del tuo paese? Quanto invece hai incontrato degli ambienti davvero “globali”?

G.G.) Benchè la Guerra Fredda sia finita da più di vent’anni, in Russia si ha ancora la sensazione di trovarsi in un “altro mondo”. Del resto la cultura, la politica, la lingua e la dimensione ( 10 fusi orari diversi), della Russia sono tali da permettere che ci sia un ecosistema autosufficiente, e che i punti di riferimento siano diversi dai nostri. I russi non si sentono europei. L’ambiente qui è assolutamente internazionale, ma non nel senso occidentale del termine. In questo contesto ho notato come essere italiani assume vari significati:

1 Nell’immaginario popolare, quello del tassista immigrato moscovita, o dei giovani e meno giovani che arrivano dalle province del grande paese, l’immagine dell’Italia sembra sia ferma a qualche decennio fa. Conoscono le nostre canzoni degli anni 60, Modugno Celentano e Morandi, la FIAT 126, una delle prime macchine importate in Russia, e a sentirli parlare dell’Italia sembra quasi che ci fossero anche loro a tutte le cene dalla nonna quando si parlava dei vecchi tempi.

2 Se invece si fa una passeggiata nel centro di Mosca, magari nei grandi magazzini GUM sulla Piazza Rossa dominati dai brand italiani come il caffè Illy e i soliti vestiti, magari in compagnia di qualche studentessa dell’MGIMO (considerata la migliore università di tutta la Russia), che magari è andata a fare shopping a Milano o Roma o Parigi l’ultimo weekend, l’Italia è subito scavalcata dal Made In Italy. Il profilo del paese che non deve chiedere mai emerge subito e i santi poeti e navigatori sono oggi stilisti, calciatori e Berlusconi.

3 Molto interessante è la presenza delle imprese italiane in Russia, perchè penso sia uno specchio fedele della nostra economia. A differenza di tedeschi e francesi, molto presenti nel paese a tutti i livelli e molto organizzati, le imprese italiane sono o le grandi (leggi Eni, Finmeccanica, Fiat), oppure una miriade di piccole imprese in ordine sparso, dall’azienda familiare di Barletta a quella del bergamasco: alta qualità, piccole dimensioni, non l’ideale per un paese gigante che si affaccia adesso nell’epoca del consumismo e che, in quanto a servizi e beni reperibili è indietro praticamente su tutto, dal pollo alle calze da donna.

Effettua una comparazione tra i sistemi universitari dei due paesi sulla base della tua esperienza (preparazione, qualità docenti, ambiente, colleghi, opportunità, innovazione, legami con l’esterno e rapporti col mondo del lavoro).

G.G.) Vista da lontano, mi è stata data l’opportunità di studiare sia in una delle migliori università italiane sia nella migliore università russa. Ma come spesso accade in Russia il significato che la parola migliore assume, è profondamente diverso. Dimenticate l’efficienza e la solerzia milanese, la competizione e l’operosità dei bocconiani DOC. La migliore università della Russia è la migliore perchè ci vanno i migliori figli delle migliori famiglie. Traduci, molti studenti arrivano con l’autista personale all’università, che li aspetta paziente e immobile in macchina per tutta la durata delle lezioni. Spesso , quasi sempre, gli studenti  hanno il futuro scritto e il compito dell’università è prepararli al loro futuro. La didattica è molto diversa, esiste un rapporto molto diretto con i professori, e ogni corso più che fornire strumenti accademici come in Italia fa conoscere il punto di vista del professore su una serie di argomenti, e stimola molto la partecipazione individuale attraverso presentazioni in classe e lavori da fare a casa . Il rapporto studenti insegnante è di solito di 5:1, un livello comparabile con le migliori università americane, e proprio su questo stretto rapporto si basa la didattica, specialmente nel campo diplomatico dove è così possibile entrare in contatto con personalità molto importanti che hanno vissuto in prima persona la storia del paese. Passare dal modello italiano del tanti a uno a un rapporto diretto con i professori è stato senza dubbio una piacevole sorpresa. In effetti MGIMO è una propaggine del Ministero Degli Affari Esteri russo, e quest’aria ministeriale si respira spesso nei corridoi labirintici dell’università. C’è  un ambiente molto fertile che permette di incontrare numerosi personaggi di spicco, dal presidente Medvedev per l’inaugurazione dell’anno accademico ai corpi diplomatici europei , al segretario del partito comunista russo, alle maggiori società sia occidentali che russe che puntualmente organizzano incontri per un futuro professionale in questa università.

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Come valuti il discorso sulla riaffermazione della Russia come gigante globale e la teoria di Putin della “democrazia assistita”, spesso considerata dagli occidentali come “non-democrazia”? Quali sono per te i problemi della Russia di oggi, i lati positivi, le cose da migliorare sotto il profilo sociopolitico ed economico? Che giudizio dai delle classi dirigenti russe?

G.G.) “Molte cose ha visto la Russia nei mille anni della sua storia. L’unica cosa che in mille anni non ha mai visto è la libertà” (Vassilij Grossman). Il concetto di democrazia in Russia è un concetto lontano da quello diffuso nell’occidente, questo per vari motivi, a mio parere primi fra tutti storia e geografia della Russia. La storia ci insegna che mai in Russia si è riuscito ad imporre un sistema sinceramente democratico. Dall’impero di Kiev attraverso gli Zar per giungere alla dittatura comunista il popolo russo è sempre stato sottomesso al potere politico. D’altra parte la vastità del paese, e tutte le differenze religiose economiche e sociali richiedono una struttura del potere fortemente centralizzata, che diventa terreno fertile per un accentramento personale del potere. Per esempio esistono in Russia impressionanti spinte nazionaliste, che derivano in parte dai vecchi fasti comunisti, e in parte da nuove problematiche, come per esempio il trend demografico che vede la popolazione russa diminuire anno dopo anno, e contemporaneamente aumentare la pressione cinese ai confini siberiani. Per questo il partito di maggioranza russo si chiama Russia Unita, perchè vuole restituire un senso di fiducia nello Stato, il che favorisce anche una politica recentemente molto statalista, per un palato occidentale, in cui lo Stato si sta riappropriando di buona parte delle società russe. L’idea che supporta questo modus operandi è quella della sovereign democracy, coniata da Vladislav Surkov, considerato una importante eminenza grigia del Cremlino. Questa definizione chiarisce per esempio la differenza del concetto russo di democrazia da quello occidentale: se per Bush la democrazia era da esportare, per i russi è uno strumento di controllo inalienabile sul proprio territorio. Allo stesso tempo il termine sovrano rispecchia l’idea che il potere non debba essere messo in discussione, ma accettato senza troppe domande.

Come vedi  l’attuale enfasi dei rapporti italo-russi e l’importanza che questi si stanno ritagliando all’interno del sistema-Italia? Pensi che siano destinati a rafforzarsi ulteriormente?

G.G.) È strano considerare che l’Italia ha da sempre un rapporto privilegiato con la Russia. Prima era l’URSS che tramite il PCUS e il KGB era sempre in contatto con l’Italia e il PCI, facendo dell’Italia il paese occidentale più vicino ai sovietici. Adesso tutti i documenti del KGB rappresentano una strana minaccia per i politici italiani,e ad ogni visita di Berlusconi all’amico Putin o Lukashenko si teme che questi possano fargli qualche regalo in “dossier bollenti”. Anche se vivendo in Russia  mi sono reso conto che è sbagliata l’impressione che si ha spesso dall’Italia che Berlusconi e Putin (foto a destra) siano personaggi simili, o quantomento il loro atteggiamento pubblico si assomigli: Putin infatti rispetta a suo modo la tradizione dei leader comunisti, evita cioè l’ostentazione della ricchezza personale e mantiene sempre un basso profilo, tranne rimarcare la sua natura di eroe militare in varie occasioni, dalle gare di judo alle cavalcate siberiane. Inevitabilmente ancora una volta parlando di rapporti Italo – Russi  il perno fondamentale è l’energia, e in particolare il gas. Infatti il progetto più importante per gli approvvigionamenti europei di gas è la pipeline che porterà il gas dal medioriente all’Europa. In realtà i progetti in lizza sono due: quello filoamericano Nabucco, e il filorusso Southstream. Sintetizzando molto la questione Nabucco è più facile da realizzare dal punto di vista tecnico, meno dal punto di vista politico e quello dei finanziamenti. Southstream invece dovendo passare sotto il Mar Nero, richiede una tecnologia avanzata, compito per Saipem/Eni, e  l’appoggio politico e finanziario è compito per il Cremlino. Per capire l’importanza politica di questi progetti basta considerare il numero di nazioni coinvolte, i possibili scenari geopolitici generati, oppure vedere che l’ex premier tedesco Gerard Schroeder è direttamente coinvolto nel NorthStream, che sarebbe la pipeline per congiungere la Russia all’Europa centrale. Sembrerebbe inoltre che se Eni riuscisse a portare a termine la sua missione, il Cremlino potrebbe concederle l’opportunità di entrare nell’estrazione del petrolio in Russia, settore protetto per eccellenza e sogno nel cassetto di tutte le compagnie petrolifere. Direi che quindi i rapporti fra Russia e Italia rappresentano un ottimo esempio dell’importanza crescente dei rapporti bilaterali. Anche se dal punto di vista russo sono consuetudine, per l’Europa la questione da porsi è se avrà mai una voce comune, o quantomeno se quest’obbiettivo rientra nel futuro dei paesi europei. La Russia ha avuto fino ad oggi gioco facile a proseguire sul sentiero degli accordi bilaterali e cercando di evitare gli accordi per esempio con l’Unione Europea. Esiste comunque nell’UE una corrente di pensiero che vorrebbe più vicina la Russia all’Europa, facilitando le relazioni economiche, e in questo progetto rientra per esempio il tentativo di riforma del regime dei visti di lavoro fra Unione Europea e Russia; è da notare però che fino ad adesso la Russia non ha concesso il visto facile neanche al diplomatico dell’Unione Europea incaricato di trattare l’argomento. Al di là delle scaramucce politiche il punto dei rapporti fra Russia e Italia, e Europa in generale è che gli europei potrebbero compiere la scelta della Russia come “fornitore ufficiale del gas europeo”, ma questa dipendenza richiede assolutamente di essere controbilanciata a livello politico ed economico, e in questo campo sicuramente nei prossimi anni ci sarà molto da lavorare. (Intervista a cura di Fabio Mineo)

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25 marzo 2010

Pensieri parole azioni

La scena mediorientale è dominata da dichiarazioni e contrasti aperti. Ma esiste una differenza tra pensieri, parole e azioni.

 

IL REALE VALORE DELLE AZIONI – Partiamo dalla dichiarazione di annessione dei siti sacri nella West Bank; essa non cambia la situazione già esistente sul campo, in quanto entrambi i siti erano già circondati da insediamenti di coloni, protetti a loro volta da contingenti di soldati. Pertanto per i Palestinesi questo rendeva già difficile, se non impossibile, avvicinarvisi, come mostrato alcuni anni fa nel documentario “Land of the Settlers” di Chaim Yavin.

 

L’importanza dell’evento dunque non è la dichiarazione in sé, ma il messaggio che probabilmente si è voluto dare, ovvero che anche una rinuncia a tali luoghi non potrà avvenire senza lunghe, difficili – e nelle speranze dei nazionalisti infruttuose – trattative.

 

Analogamente l’approvazione del piano di 1600 nuove abitazioni a Gerusalemme Est (foto a destra) non si discosta da ciò che ciclicamente viene dichiarato fin dai tempi del governo Olmert (e prima ancora), tuttavia la tempistica indica ancora una volta un messaggio diretto all’amministrazione USA (nella foto in alto Barack Obama con Bibi Netanyahu): mandate i vostri inviati, ma noi non siamo disposti ad accettare qualunque vostra imposizione.

 

DICHIARAZIONI URLATE – E ora? Le dichiarazioni israeliane, le dure repliche USA, la netta presa di posizione del Quartetto con l’indicazione della creazione di uno Stato Palestinese entro due anni, la replica di Netanyahu sul proseguimento del piano di costruzioni, le dichiarazioni di Ban Ki-Moon a Gaza, sono una spirale negativa causata dal fatto che tutte le parti in gioco sono cadute nella trappola della diplomazia urlata.

 

I negoziati funzionano meglio quando i toni pubblici rimangono pacati: questo permette infatti di trattare silenziosamente senza la necessità di dichiarazioni eccessive per placare l’opinione pubblica. Quando l’onore di uno stato o l’amor proprio di una popolazione non devono essere difese, risulta più semplice impiegare toni concilianti.

 

Ora le nette posizioni USA sono state viste oltre il semplice rimprovero per dichiarazioni affrettate, rappresentando una sfida diretta all’ultra-destra israeliana. Che non può quindi tirarsi indietro dal rispondere a tono, pena la perdita di faccia e di credibilità di fronte all’intero paese.

 

Né possono ridurre le proprie richieste Washington, l’ONU o il Quartetto, perché farlo ora sarebbe visto dal mondo arabo come una resa nei confronti di Israele. Né gli USA né l’ONU possono permettersi di mostrarsi deboli ora: l’impegno dell’ANP verso una politica di protesta pacifica e lo scarso impatto della “giornata della Rabbia” proposta da Hamas (le proteste si sono rivelate limitate nell’estensione e nella durata, lontane dallo scatenare quella “terza intifada” spesso paventata dai media occidentali) sono risultati che potrebbero essere stravolti e la strada del radicalismo militante potrebbe riprendere forza.

 

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QUALI I REALI PENSIERI? – Il pensiero di tutti gli attori in gioco molto probabilmente è come uscire da tale situazione. Innanzitutto proprio la necessità di non perdere la faccia impedirà che i toni si plachino in pochi giorni.

 

Da un lato il desiderio degli USA è probabilmente escludere i due elementi più influenti ed estremi del governo Netanyahu, ovvero Avidgor Lieberman di Yisrael Beitenu e Eli Yishai dello Shas, sostituendo loro e i loro partiti con il Labor di Barak e il Kadima di Tzipi Livni. Likud, Labor e Kadima disporrebbero di 68 parlamentari, cosa che conserverebbe la maggioranza anche ipotizzando la perdita di qualche membro scontento del Likud.

 

Ma Netanyahu, che pure desidera mantenere i buoni rapporti con gli USA a causa della questione iraniana, sa che, come fa notare Bradley Burston su Haaretz, è paradossalmente più facile scontrarsi con Barack Obama piuttosto che con Rabbi Ovadia Yosef, capo spirituale dello Shas. Ciò che più spaventa Israele è uno scontro fratricida che veda contrapposti coloni e ultraortodossi – la maggioranza a Gerusalemme e dintorni – ai moderati, e l’esercito diviso tra queste due fazioni per opera dei Rabbini militanti.

 

Ecco perché Netanyahu esita a sganciarsi da quegli stessi elementi che stanno portando Israele all’isolamento internazionale. Perché per ora il mondo esterno fa meno paura di quello interno.

 

Lorenzo Nannetti

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Riconciliamo?

Dopo le tensioni degli ultimo giorni, il premier israeliano Netanyahu incontra Obama per cercare di placare i dissidi sorti e trovare nuovi accordi; la Cina è al centro delle visite e degli incontri diplomatici, mentre si complica la questione degli aiuti economici alla Grecia.

Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu incontra il Presidente Obama, negli Stati Uniti, per discutere dei dissidi sorti nella passata settimana circa i nuovi insediamenti previsti da Israele nei pressi di Gerusalemme.

Dopo che le richieste americane di congelare i nuovi insediamenti sono state respinte dagli israeliani, sarà importante osservare la reazione americana (si cercherà una via di conciliazione o gli USA manterranno una linea dura?) e la conseguente risposta israeliana. La scelta potrebbe comportare conseguenze non solo per il rapporto attuale tra i due Paesi, ma anche sul piano della politica interna, soprattutto nella coalizione di Netanyahu, che al momento ha mostrato di non voler cedere terreno alle richieste americane.

Da osservare anche quale sarà il comportamento dei Palestinesi, soprattutto dopo il lancio di razzi dei giorni passati.

La Germania si è opposta alla proposta dell’Unione Europea di prestare aiuto finanziario alla Grecia (i tedeschi sono i principali contribuenti alle casse europee), sostenendo invece la possibilità che sia il Fondo Monetario Internazionale (FMI) a fornire gli aiuti necessari in caso di emergenza.

Su pressione tedesca nessuna decisione dovrebbe esser presa al Summit UE del 25-26 marzo in merito; si attende di capire la posizione americana all’ipotesi di usare fondi del FMI, di cui sono tra i maggiori contribuenti.

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La Cina è al centro di una vorticosa serie di incontri diplomatici e di promozione economica. Il Consigliere di Stato Liu Yandong continua il proprio viaggio di promozione della lingua e della cultura cinese in Russia, mentre il Vice Presidente Xi Jinping promuoverà le relazioni bilaterali in campo finanziario, energetico, economico. Lo stesso Xi Jinping visiterà per gli stessi motivi anche Bielorussia, Finlandia e Svezia.

Sono attesi in Cina anche il Presidente Afghano Karzai, che discuterà col Presidente Hu Jintao sia di accordi bilaterali che di cooperazione regionale per la sicurezza ed i Ministri degli Esteri di Nuova Zelanda e Malta. Forse anche il leader nord coreano Kim Jong Il visiterà il Paese.

Di grande rilievo il fatto che Pechino ospiterà anche la conferenza del Gulf Cooperation Council (con Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar) per discutere di cooperazione commerciale ed investimenti, ed in viaggio in Africa (Cameroon, Namibia e Sud Africa) di Jia Qinglin, membro della Chinese Politburo Standing Committee

Altri eventi rilevanti saranno seguenti:

  • Il Ministro turco per l’Energia si recherà in Iraq per rinnovare gli accordi relativi al trasporto di petrolio attraverso l'oleodotto Kirkuk-Ceyhan.

  • Il Ministro degli Esteri paksitano, Shah Mahmood Qureshi, guiderà una delegazione a Washington per il foro di dialogo strategico USA-Pakistan; sul tavolo tutti i temi principali: cooperazione militare, assistenza allo sviluppo ed all’approvvigionamento energetico.

  • Nigeria: dopo lo scioglimento dell’esecutivo, il Presidente ad interim Goodluck Jonathan dovrebbe presentare al Senato la nuova lista di membri del Governo per l’approvazione. Intanto si terranno degli importanti incontri tra la Nigerian National Petroleum Corporation, società statale che gestisce il settore petrolifero, e tutti i principali attori del settore.

22 marzo 2010

La Redazione

Quanto conta lo Xinjiang

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Focus sulla regione autonoma cinese e sui suoi abitanti, gli Uiguri. Un luogo in cui la questione nazionale e le rivendicazioni territoriali si intrecciano con diversi tentativi di ingerenza internazionali (Usa su tutti). Con le risorse energetiche a farla da protagonista, e, anche qui, la questione iraniana sullo sfondo

MILLE ANNI DOPO –  Taklamakan. Ovvero “luogo abbandonato”, secondo la traduzione ufficiale del termine di origine araba, o “colui che vi entra non ne uscirà”, se si dà fiducia ad una antica credenza popolare dello Xinjiang, l’immensa regione autonoma del nord-ovest cinese che ne è coperta per la maggior parte del suo territorio.

Duecentosettantamila chilometri quadrati di sabbia dorata e finissima che da millenni scoraggia viaggiatori ed avventurieri a tentare la via delle sue dune. Mille anni fa il monito valeva per quei mercanti che, proveniendo dalla prospera capitale Chang’an lungo la Via della Seta, pur di aggirarlo tentavano la sorte a Nord, scavalcando la catena montuosa del Tian Shan o a Sud, prendendo la via dell’Himalaya.

Oggi nelle sue sabbie rischia di sprofondare il fronte occidentale delle politiche di sicurezza di Pechino e, quel che è peggio, la questione nazionale si intreccia pericolosamente in un nodo di questioni di ingerenza internazionale, strategie di controllo e di accesso alle risorse, guerra al terrorismo e rivendicazioni territoriali.

Basti citare i confini orografici dello Xinjiang, che da nord a sud lambisce Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan e la regione del Kashmir, per capire come questa regione costituisca una naturale direttrice di influenza storico-culturale, un ponte di sabbia che dalla Cina si allunga fino all’Iran.  

GLI UIGURI – La popolazione Uyghur, un tempo l’etnia dominante, preferisce riferirsi alla propria terra come al “Turkestan orientale” piuttosto che utilizzare il termine coniato dall’etnia Han, Xinjiang, ovvero “nuovi territori”. Quella che a noi può sembrare una disputa priva di rilievo, si inserisce a pieno titolo nel novero di quelle barriere culturali quali la lingua, la religione, i costumi e le tradizioni popolari che contribuiscono ad innalzare un vero e proprio muro tra i due gruppi etnici. Oggi un ragazzo nato a Kashgar o ad Urumqi si sente più vicino ad un fratello musulmano di Tashkent, nell’Uzbekistan, rispetto ad un connazionale di Shanghai. Ne condivide la musica, il cibo, la preghiera. Non bisogna dimenticare la continuità territoriale tra l’estremo oriente e l’altopiano iranico, rappresentata dai tagiiki di etnia e lingua persiana.

QUESTIONE IRAN – La cronaca quotidiana ci restituisce il teatro eurasiatico come il terreno chiave sul quale si giocherà il confronto tra Stati Uniti e Cina nel breve periodo. Comprendere a fondo le dinamiche, non solo economiche ma anche politiche e sociali che caratterizzano i territori compresi tra Baghdad e Urumqi, rappresenta una chiave interpretativa indispensabile.

La situazione è delicata. Stati Uniti, Russia e Cina giocano ormai a carte scoperte. Washington cerca di conquistarsi le simpatie delle ex repubbliche sovietiche allontanandole dall’influenza politica russa e in ottica anti iraniana. L’equilibrio di potenza è garantito dalla forza opposta, esercitata da Pechino a sostegno della politica di Teheran. Nel mezzo sta l’invidia storica degli Uyghur per l’autonomia conquistata dalle vicine repubbliche eurasiatiche dopo il crollo dell’Urss nel 1991.

Il veto cinese alle sanzioni proposte da USA ed Unione Europea nei confronti dell’Iran, nell’ottica di un’interruzione della rincorsa al nucleare, non ha nulla a che vedere con il legittimo diritto allo sviluppo del settore o con la strenua difesa del principio di autodeterminazione dei popoli. E’ inevitabile leggere la strategia cinese nell’ottica di una consapevole ed efficace realpolitik.  

RISORSE D'ORO (NERO) – Di fatto la Regione autonoma dello Xinjiang resta un tassello inamovibile per l'economia cinese. A partire dai 12 miliardi di metri cubi di gas che la città di Tarim Basin sforna per l'est del Paese lungo una mastodontica pipeline di 3.900 km costruita nel 2002 per il costo di 24 miliardi di dollari. Secondo una pubblicazione ufficiale risalente ad ottobre 2007, la Sinopec (China Petroleum & Chemical Corporation), gruppo petrolifero e petrolchimico integrato cinese, controllato per il 75% dal governo tramite la quasi omonima China Petrochemical Corporation, nonché la più grande azienda cinese per fatturato, avrebbe trovato immensi giacimenti di petrolio proprio nel deserto dello Xinjiang.

Le stime riferiscono che il complesso estrattivo di Tahe, situato nella regione di Tarim e scoperto nel 1998, ha fornito sino ad oggi 780 milioni di tonnellate di riserve petrolifere, con un'estrazione media che si accresce di 100 milioni di tonnellate ogni anno e che toccherà il miliardo di tonnellate entro il 2010 150. L'intera risorsa, sostiene Kang Yuzhu, ricercatore che lavora per Sinopec Exploration & Production Research Institute, dovrebbe ammontare a circa 4 miliardi di tonnellate ma non è escluso che si tratti di una stima pessimistica. Questo avvicinerebbe la capacità estrattiva della provincia autonoma cinese a quella record dei complessi estrattivi di Bahrein, Iran, Iraq e Quwait. Il rifornimento per l'inesauribile sete del gigante asiatico sarebbe assicurato per i prossimi anni.

Questo spiega di fatto l’azione cinese, che si riassume in una duplice strategia: repressione decisa delle spinte autonomiste del popolo Uyghur sul piano interno e rivendicazione della continuità culturale tra Xinjiang ed Iran sul piano internazionale. Per il Paese dell’economia socialista di mercato questa è solo un’altra sfida. 

 

Francesco Boggio Ferraris

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Intervista a Fabio Cavalera

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Fabio Cavalera, giornalista del Corriere della Sera risponde ad alcune domande del "Caffè Geopolitico" sull'attualità cinese e sul ruolo della Cina nella comunità internazionale. Intervista realizzata in occasione della presentazione del suo libro "Repubblica impopolare cinese", organizzata dal "Caffè Geopolitico" presso la sede della Scuola di formazione permanente della Fondazione Italia-Cina di Milano.

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Settimana dal 15 al 21 marzo

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Ecco la quindicesima puntata:

Turchia – Israele – Siria: è crisi USA in Medioriente?

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La politica estera di Giorgio

Il viaggio in Siria del capo di stato italiano Giorgio Napolitano prova a riportare l’Italia nel vivo dei giochi diplomatici internazionali. Dopo mesi di silenzio da parte del governo di Roma, l’Italia torna ad occuparsi di politica estera attraverso il suo massimo rappresentante il quale, nella tre giorni di Damasco, è tornato a parlare di trattative di pace, scambio di territori ed insediamenti.

LA PREOCCUPAZIONI DI NAPOLITANO – L’ultima occasione avuta dall’Italia per occuparsi della questione medio orientale si era avuta lo scorso febbraio quando l’attuale premier Silvio Berlusconi aveva prima tenuto un discorso alla Knesset (il parlamento israeliano) per poi incontrare successivamente il presidente palestinese Abu Mazen nei pressi di Betlemme. Un viaggio che però, non volendo considerare le discutibili dichiarazioni riguardanti l’operazione israeliana Cast Lead, poco aveva aggiunto alla linea italiana in politica estera. Le recenti dichiarazioni del capo dello stato Napolitano (nella foto in alto) sembrano invece aver segnato una presa di posizione se non netta, quanto meno chiara. Secondo il Corriere della Sera, il capo di stato italiano ha infatti espresso forte preoccupazione per “la costruzione di nuovi insediamenti a Gerusalemme Est e per le conseguenze che ne potrebbero scaturire” entrando altresì nel gravoso problema delle Alture del Golan (mappa in basso) le quali dovrebbero essere riconsegnate alla Siria, come “parte integrante del processo di pace”. Napolitano ha inoltre definito come l’unica soluzione possibile per la questione palestinese sia la creazione di due stati per due popoli poiché, secondo quanto riportato da La Repubblica, sussiste parimenti “il diritto dei palestinesi ad avere uno Stato indipendente e vitale e quello di Israele a vedere la propria esistenza riconosciuta vivendo in sicurezza”. Un breve ma significativo riferimento infine alla drammatica situazione umanitaria nella Striscia di Gaza definita “gravissima” dal capo di stato italiano.

SCAMBIO DI CORTESIE – Colloqui definiti calorosi tanto da Damasco quanto da Roma, proprio a voler sottolineare il clima d’intesa e la volontà comune di approfondire e rafforzare la mutua cooperazione. Al fine di suggellare quelli che Napolitano ha definito “rapporti secolari fra le parti” i due capi di stato si sono scambiate le massime onorificenze dei rispettivi paesi: al capo dello stato italiano è andata la Umayyad con la grande cintura, mentre Bashar al-Assad ha ricevuto il Cavalierato di Gran Croce. Nessuna dichiarazione di rilievo invece dal Ministro degli esteri italiano Franco Frattini, il quale durante l’intera durata della visita si è limitato a seguire la linea diplomatica tracciata dal presidente Napolitano.

SULLA SCIA DI OBAMA – Attraverso le suddette dichiarazioni, Napolitano legittima dunque pienamente la linea in materia dell’amministrazione Obama la quale proprio attraverso la normalizzazione della Siria intende imprimere una svolta decisiva per la pacificazione della regione. L’azione presidenziale, decisa, chiara e senza possibili letture alternative, prova a dare maggiore credibilità alla diplomazia italiana la quale negli ultimi anni, non solo nell’ultimo governo di centro-destra, ha probabilmente perduto molte occasioni per emergere come attore regionale di un certo calibro. Il presidente della Repubblica italiana non è del resto nuovo ad interventi riguardanti proprio la regione medio orientale e le sue problematiche. Nell’ottobre 2009 lo stesso capo di stato aveva ricevuto al Quirinale i reali di Giordania e nel corso della sua lunga carriera politica ha visitato la maggior parte degli Stati dell’area.

TUTTI IN MEDIO ORIENTE – Una visita senza eccessi e dichiarazioni per le prime pagine dei giornali, ma che ha saputo cogliere nel profondo l’essenza delle numerose e complesse tematiche medio orientali. Un incontro che perfettamente s’incastona nella serie di visite da parte di esponenti internazionali che affollano in questi giorni la regione medio orientale. Il 18 marzo è stato il giorno della visita di Catherine Ashton, Alto rappresentante per la politica Estera dell’Unione Europea, nella Striscia di Gaza, mentre nei prossimi giorni sarà la volta del Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon e dell'inviato americano George Mitchell i quali si recheranno nella regione per provare ad imprimere una svolta al processo di pace. O meglio proveranno a dare il via a trattative le quali per ora sono in piedi esclusivamente nelle buone intenzioni dei partecipanti al confronto.

Marco Di Donato

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Lula il pragmatico

Lo storico viaggio del Presidente brasiliano in Medio Oriente potrebbe essere considerato come l'esempio dell'ambigua politica estera che conduce la potenza sudamericana. In realtà, Brasilia sta solamente perseguendo i propri interessi. Il gioco, però, alla lunga potrebbe presentare alcuni rischi

LA PRIMA VOLTA – Si sa, c'è sempre per ogni cosa. In questo caso si è trattato del primo viaggio di un Capo di Stato brasiliano in Medio Oriente (ad eccezione della “comparsata” che fece Pedro II in Terra Santa nel 1876, quando il Brasile era formalmente ancora un “impero”). Il Presidente Lula da Silva nei giorni scorsi è stato il protagonista di una tournée che lo ha portato in Israele, Palestina e Giordania: un interessante “antipasto” in vista del prossimo, importante viaggio, che lo porterà a maggio in Iran.

LE TAPPE DEL VIAGGIO – Lula è stato accolto in Israele con tutti gli onori e ha parlato alla Knesset (foto a destra), il Parlamento dello Stato ebraico, dove ha tenuto un discorso improntato sull'importanza della pace, valore da raggiungere ad ogni costo nella regione martoriata dal conflitto israelo-palestinese. Lula ha anche sottolineato la propria contrarietà alle armi nucleari, evidenziando come l'America Latina sia oggi una regione che vive in pace anche in virtù dell'assenza di armi atomiche negli arsenali dei singoli Stati. Il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, ha risposto chiedendo che il Brasile si impegni affinchè l'Iran non giunga ad ottenere la “bomba”.

È stata la questione palestinese comunque a tenere maggiormente banco, sia alla Knesset che al di là del Muro eretto da Israele, ovvero a Betlemme dove Lula si è incontrato con Abu Mazen (foto in alto). Il presidente brasiliano ha criticato il muro, auspicando la sua rimozione così come lo stop alla costruzione di nuovi insediamenti e ha ribadito la necessità per israeliani e palestinesi di vivere in pace: l'unica soluzione alla quale si dovrà arrivare, secondo Da Silva. Non è mancato comunque un piccolo incidente diplomatico con il discusso Ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, che ha rifiutato di incontrare Lula perchè quest'ultimo si è recato a portare omaggio alla tomba di Yasser Arafat e non a quella di Theodor Herzl, fondatore del Sionismo moderno.

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LE IMPLICAZIONI – Il viaggio di Lula ha avuto essenzialmente due finalità. La prima è stata di natura meramente economica: con Israele è stato firmato un accordo di cooperazione commerciale nell'ambito del Mercosur, mentre con l'Autorità Palestinese sono stati siglati una serie di trattati bilaterali. Ovviamente, però, in termini assoluti i vantaggi che il Brasile potrà ottenere dall'incremento dei traffici con questi Paesi è trascurabile, viste le loro dimensioni ridotte.

La valenza politica della visita del leader ex sindacalista è invece molto superiore. Molti si sono chiesti come Lula abbia potuto entrare con tanta disinvoltura alla Knesset dopo aver abbracciato come un vecchio amico il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad appena pochi mesi fa. Cerchiobottismo? Opportunismo? Pragmatismo? Probabilmente una dose di tutti questi ingredienti, che però vanno a comporre quello che si chiama interesse nazionale. Una categoria che in Europa si tende ormai ad evitare, in quanto le si attribuisce un'accezione negativa; in realtà è alla base del comportamento quotidiano di ogni attore che si muove sulla scena internazionale. Il Brasile, in questo momento, vede la promozione della propria potenza globale come una componente fondamentale del suo interesse nazionale. Il compimento di tale strategia passa per l'adozione di una posizione autonoma, indipendente da quella “liberal” degli Stati Uniti ma anche da quella “iper-realista” della Cina. In altre parole, il Brasile si pone come mediatore nella principali aree di conflitto, in primis proprio quella mediorientale.

Il gioco, per il momento, sta funzionando. Non vanno sottovalutati però alcuni problemi che potrebbero sorgere qualora i rapporti tra Iran e Israele si facessero davvero tesi. In quel caso, Brasilia non potrebbe esimersi dal prendere una posizione netta.

Davide Tentori

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L’Africa divisa

A dispetto delle iniziative per l'unione dei popoli africani, il Presidente libico Gheddafi ha proposto lo smembramento della Nigeria. Ne è nata una forte crisi diplomatica tra due dei Paesi più importanti del continente. Perché il Colonnello agisce in tal modo?

BLACK POWER Scordatevi i proclami e le ambizioni del Colonnello Gheddafi circa un’Africa unita, una rivoluzione mondiale che vedrebbe gli Africani come nuovi protagonisti delle dinamiche geopolitiche globali e la sua Libia come il Paese guida di questo cambiamento epocale. In effetti più di una volta il Presidente libico (nella foto in alto) ha insistito sulla necessità di unire le forze di tutti i Paesi del continente africano e raggiungere finalmente un livello di auto-consapevolezza e capacità tale da poter uscire dalla morsa dello sfruttamento delle proprie risorse da parte dei Paesi esteri e diventare un attore di primo piano a livello internazionale. Ora, insieme al Sudafrica, l’unica vera realtà africana teoricamente in grado di poter affermarsi come potenza regionale, sebbene con tutte le contraddizioni che distinguono quel Paese, ancora in preda a lotte intestine e a un’amministrazione fortemente corrotta, è la Nigeria. Quasi 150 milioni di abitanti (circa un quinto della popolazione di tutta l’Africa), settori emergenti come quello del cinema, leader nel continente, immense risorse petrolifere e forte presenza di investimenti stranieri per lo sfruttamento di tali risorse, che potrebbero divenire un’opportunità di sviluppo per il Paese.

UNITI? MACCHE' – Qui arriva la stoccata di Gheddafi, che ha proposto qualche giorno fa, in risposta ai continui scontri inter-religiosi che caratterizzano la Nigeria e si sono nuovamente esacerbati nelle ultime settimane provocando decine di morti, di dividere il Paese in due. Da una parte i musulmani, dall’altra i cristiani, entrambi rappresentanti circa la metà della popolazione nigeriana (nella mappa in basso, si può vedere la Nigeria. Gheddafi propone uno Stato cristiano a Sud, con capitale Lagos, e uno musulmano nel Nord, con capitale Abuja). Nel fare la sua proposta, il Colonnello ha richiamato l’esempio dello smembramento dell’India a maggioranza indù, da cui nacque il musulmano Pakistan, nel 1947. Un attentato, seppure a parole, forte contro la sovranità di Abuja (l’attuale capitale della Nigeria), che non è di certo passato inosservato negli ambienti della politica nigeriana, anzi. Il Presidente del Senato ha definito Gheddafi un “uomo pazzo”, dichiarando che non si capacita del perché “a quest’uomo venga data la possibilità di farsi così tanta pubblicità”, mentre il governo nigeriano ha richiamato in patria il proprio ambasciatore a Tripoli, dopo la considerazione del Ministro degli Esteri nigeriano Ozo Nwobu, circa il fatto che Gheddafi “ha perso il suo status e la sua credibilità” come attore di riferimento per tutti i Paesi africani.

I PRECEDENTI: VIA LA SVIZZERA – Non è neanche la prima volta che il leader libico si lascia andare a dichiarazioni che potrebbero risultare offensive per altri Paesi e addirittura invadenti: qualche mese fa, in occasione della crisi diplomatica che ha interessato la Libia e la Svizzera (per la quale il Presidente libico si è spinto addirittura a scomodare i principi più radicali dell’Islam, invocando una sorta di Jihad contro il piccolo Stato europeo), Gheddafi di fronte alla platea dell’Assemblea Generale dell’ONU, aveva provocatoriamente lanciato l’idea di cancellare la Svizzera e smembrarla tra Italia, Francia e Germania. Pura pazzia geopolitica, chiaramente, che però fa riflettere circa la natura del Presidente della Libia, sempre pronto ad essere provocatorio e protagonista, a suo modo, della politica internazionale, spesso mettendo in imbarazzo anche gli alleati occidentali, come la stessa Italia e gli Stati Uniti, tanto per nominare due Paesi che coltivano rapporti diplomatici e strategici con Tripoli (l’Italia per motivi di forte interesse geopolitico, quale la questione dell’immigrazione e il rifornimento di petrolio per il proprio approvvigionamento energetico, mentre gli USA hanno normalizzato da poco i rapporti con la Libia, dopo averla inclusa per decenni nel novero degli “Stati canaglia”).

PETROLIO E FUTURE LEADERSHIP – Cosa potrebbe esserci dietro l’ennesima provocazione di Gheddafi, che ha causato una forte crisi diplomatica tra Nigeria e Libia? Sicuramente i due Paesi sono in competizione nell’area africana per quanto riguarda la leadership della produzione ed esportazione delle risorse petrolifere. La Libia è il primo Paese africano per riserve, con quasi 45 miliardi di barili di petrolio nel proprio sottosuolo, la Nigeria viene subito dietro al secondo posto con circa 37 miliardi di barili di petrolio di riserve. A fronte di tali numeri, però, la Nigeria è il primo produttore africano, con quasi 2,5 milioni di barili di petrolio estratti al giorno, mentre la Libia scende al terzo posto (dietro anche l’Algeria), con una produzione di 1,8 milioni di barili di petrolio al giorno. Tali dati potrebbero fornire una piccola chiave di lettura geopolitica per lo scontro in atto tra Libia e Nigeria, perché niente in diplomazia e nelle relazioni internazionali è lasciato al caso. Comunque progredirà il rapporto tra questi due importantissimi Paesi dell’Africa, è chiaro che una volta ancora le parole di Gheddafi contraddicono i fatti: da un lato si pone come unificatore dei popoli africani, dall’altra fa proclami di divisione di una delle sue più importanti realtà. Su basi religiose ed etniche, come se si tornasse ad inizio ‘900. Forse il vero problema del continente africano è proprio quello di individuare un leader che sia in grado di ragionare con parametri appartenenti al XXI° secolo.

Stefano Torelli

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Presentazione del libro

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Video del primo incontro pubblico organizzato dal "Caffè Geopolitico" incentrato sulla Cina con la presenza di Fabio Cavalera, giornalista del Corriere della Sera, ex corrispondente da Pechino, autore del libro "Repubblica impopolare cinese". L'incontro-dibattito tenuto presso la sede della Scuola di Formazione Permanente di Lingua e Cultura Cinese a Milano, è stato introdotto da Francesco Boggio Ferraris docente della scuola.

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Guardiamo alla sostanza

Focus su Gerusalemme Est. La “giornata della rabbia” di martedì non è solo conseguenza dell’annuncio di 1600 nuove abitazioni negli insediamenti israeliani: sono diversi nell’ultimo mese gli episodi che hanno aumentato enormemente il livello di tensione tra le parti. In tutto questo, la crisi diplomatica Usa-Israele, per l'annuncio dato alla presenza del Vicepresidente Usa Biden. Ridurre il tutto a questioni di forma e tempistiche, però, è decisamente troppo riduttivo

FACCIAMO IL PUNTO – Ieri a Gerusalemme Est c’era silenzio. Tanti soldati, poco traffico, strade vuote. Dopo la “giornata della rabbia” di martedì, si è respirata ieri una tranquillità quanto mai relativa e precaria. Se ne può approfittare per fare un poco di ordine. Sulla stampa è passato questo: Israeliani e Palestinesi settimana scorsa davano il via al tentativo di sedersi nuovamente – seppure in maniera indiretta – al tavolo dei negoziati. Il Vicepresidente Usa Joe Biden si reca in loco per celebrare questo nuovo inizio. Proprio nel giorno dell’arrivo di Biden, il Ministro degli Interni israeliano Eli Yishay, leader del partito ortodosso sefardita Shas, annuncia la realizzazione di 1600 nuove abitazioni nell’insediamento ebraico ortodosso di Ramat Shlomo, a Gerusalemme Est. Una dichiarazione che, da sola, affossa qualsiasi tentativo di far sedere al tavolo le due parti. E, soprattutto, viene vista da Washington come un vero e proprio oltraggio. Forma e tempistica sono inammissibili: un tale annuncio alla presenza del Vicepresidente americano è un affronto e un insulto. Il premier israeliano Netanyahu, che dapprima si scusa (dopo 43 minuti al telefono con la Clinton), in seguito comunica la decisione del Governo di non tornare indietro e proseguire nell’intenzione di costruire quelle 1600 abitazioni (“La moratoria di dieci mesi sugli insediamenti riguarda la Cisgiordania, non Gerusalemme Est”). Ne conseguono crisi diplomatica con gli Stati Uniti, rinvio del viaggio dell’inviato Usa in Medio Oriente George Mitchell per mancanza di presupposti per iniziare i negoziati, aumento della tensione con i Palestinesi, sfociato nella “giornata della rabbia” di martedì, con una serie di scontri in diversi quartieri di Gerusalemme Est e decine di arresti e feriti. Centinaia i giovani palestinesi coinvolti, a fronte dei 3000 soldati israeliani schierati.

L’ULTIMO MESE – Per avere un quadro definito della situazione, è però necessario fare qualche passo indietro. Prima della crisi con Biden, diversi episodi hanno contribuito a creare il clima di martedì.

1)     Il 21 febbraio, Netanyahu ha annunciato la volontà israeliana di inserire due dei più importanti siti religiosi ebraici, la Tomba dei patriarchi di Hebron e la Tomba di Rachele di Betlemme, nella lista dei patrimoni nazionali dello Stato ebraico. Entrambi i luoghi si trovano in Cisgiordania, in quello che dovrebbe divenire un giorno il territorio dello Stato palestinese. La decisione ha scatenato le proteste dell’Autorità Palestinese. Il Presidente Abu Mazen ha espresso la convinzione che tali siti siano poi inaccessibili per i musulmani (anche per loro tali luoghi hanno un grande valore religioso e simbolico), sottolineando il rischio che una tale decisione possa scatenare una nuova Intifada palestinese. Si sono registrati per cinque giorni consecutivi scontri a Hebron tra Palestinesi e soldati israeliani, mentre a Betlemme è stato indetto uno sciopero di tre giorni di uffici, scuole e negozi.

2)      Anche a seguito di tale decisione, il 28 febbraio e il 5 marzo vi sono stati violenti scontri sulla Spianata delle Moschee, nei quali sono rimasti feriti diverse decine di manifestanti palestinesi e poliziotti israeliani, dopo lanci incrociati di pietre e candelotti lacrimogeni. Il portavoce della polizia israeliana Shmulik Ben Rubi ha dichiarato che i poliziotti sono intervenuti dopo che i fedeli palestinesi hanno iniziato a lanciare pietre contro gli ebrei riuniti a pregare presso il sottostante Muro del Pianto.

3)     Il 7 marzo, a oltre un anno dall’interruzione di qualsiasi colloquio negoziale, il Governo palestinese comunica di accettare la proposta americana per l’avvio di nuovi negoziati indiretti, già accettata dalla controparte israeliana. Saeb Erekat, capo dei negoziatori palestinesi, annuncia: "I rapporti si sono deteriorati a tal punto che gli Stati Uniti stanno provando a salvare il processo di pace con quest'ultimo tentativo, ma ricordate le mie parole: questa sarà l'ultima chance per vedere se esiste un modo per prendere delle decisioni tra le parti”.

4)     Il giorno stesso, poche ore dopo, il Governo israeliano – nonostante la moratoria sulle costruzioni degli insediamenti annunciata lo scorso novembre – autorizza l’edificazione di 112 nuove unità abitative in Cisgiordania, nell’insediamento di Beitar Ilit, una decina di chilometri a sud-ovest di Gerusalemme. Il Ministro dell’Ambiente israeliano Erdan dichiara: “La moratoria prevedeva delle eccezioni in caso di problemi di sicurezza per le infrastrutture nei cantieri avviati in precedenza, e questo è il caso di Beitar Ilit”.

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11 E 12 MARZO – Fatte queste premesse, il quadro è un po’ più delineato. Aggiungere ad un livello di tensione già elevato l’annuncio delle 1600 abitazioni dentro Gerusalemme Est non poteva non provocare conseguenze serie. Al di là dell’annuncio di Abu Mazen di non poter tornare al tavolo negoziale con simili condizioni, la tensione sul territorio è cresciuta enormemente. Anche perché Ramat Shlomo è a pochi passi da Shua’fat e Bet Hanina, due quartieri palestinesi già chiusi dalla parte opposta dai due grandi insediamenti israeliani di Pisgat Zeev e Neve Yakov. L’ampliamento di Ramat Shlomo circonderebbe e isolerebbe completamente dunque i due quartieri palestinesi. Venerdì scorso, il Ministro della Difesa Israeliano Barak  (che ha manifestato grande irritazione per l'annuncio relativo alle 1600 abitazioni) ha chiuso con una misura eccezionale di sicurezza i valichi con la Cisgiordania, riaprendoli solo ieri, motivando la decisione con il pericolo di attentati. Anche la preghiera dei musulmani ha subito limitazioni: ammessi sulla Spianata delle Moschee solo gli uomini oltre i 50 anni e in possesso di un documento israeliano, dalla cittadinanza alla residenza a Gerusalemme. Le limitazioni alla Spianata sono proseguite nei giorni seguenti (fino a ieri), fatto che ha provocato ulteriori tensioni. L’inaugurazione della storica sinagoga Hurva all’interno della città vecchia di Gerusalemme è stata giudicata come l’ultima provocazione: da qui è nata la giornata della rabbia di martedì.

IL RUOLO USA: FORMA E SOSTANZA – Veniamo ora alla reazione americana relativa a questa vicenda. Premesso che è ormai evidente che Obama e Netanyahu non si piacciano affatto (con quest’ultimo convinto che il Presidente Usa “trami” per sostituire il suo Governo con uno centrista più malleabile e meno ossessionato dall’Iran), occorre sottolineare che scatena un sorriso assai amaro il fatto che agli Israeliani venga imputato un errore di forma e non di sostanza. “La peggiore crisi diplomatica degli ultimi 35 anni” tra Usa e Israele, così come è stato definito l’episodio dall’ambasciatore israeliano a Washington Michael Oren, non è data affatto dall’annuncio delle 1600 abitazioni, ma dal fatto che esso fosse avvenuto alla presenza di Joe Biden. Se fosse avvenuto due giorni dopo, questa reazione non si sarebbe avuta. Il messaggio, nemmeno troppo nascosto, è questo: passi la sostanza (ovvero: la costruzione di nuovi insediamenti), ma non potete scivolare sulla forma e la tempistica. Passi il contenuto del messaggio, non le sue modalità. Eppure, non è possibile non considerare la sostanza. E la sostanza dice chiaramente che la possibilità di tornare al tavolo negoziale è ogni giorno più lontana, anche per annunci come questo. La sostanza dice che è un’evidenza che questo Governo israeliano non abbia mostrato una effettiva volontà di tornare al tavolo dei negoziati, e che la controparte palestinese sia sempre più sfiduciata relativamente a tale opportunità. E, infine, la sostanza è che dopo quanto avvenuto, l’amministrazione Obama non può essere considerata un intermediario credibile tra le parti, se non riesce neanche a evitare simili annunci sugli insediamenti durante una visita diplomatica. E questa ormai appare un’evidenza non solo agli occhi palestinesi. L’ultima dimostrazione? Washington per rimediare all’incidente ha chiesto tre condizioni: il ritiro del via libera alle 1600 abitazioni, un gesto concreto di apertura nei confronti dei Palestinesi, l’inclusione dello status di Gerusalemme tra le tematiche da affrontare nei futuri negoziati. La risposta israeliana non si è fatta attendere: no. Obama annuncia che non vi è vera crisi tra le parti, ma intanto il New York Times parla di un nuovo annuncio (finora non confermato) di 309 abitazioni nel quartiere di Neve Yaakov, nell'area nord orientale di Gerusalemme. Avanti così, come se niente fosse. E il processo di pace? Sempre, sempre più lontano.

Alberto Rossi [email protected]

Foto 1: Reuters. Foto 2: Afp.

Mosca e New Delhi: nuova special relationship?

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Il 12 marzo scorso, durante la visita del Primo Ministro russo Vladimir Putin in India, sono stati firmati importanti accordi di cooperazione militare ed energetica tra i due paesi, patti che rimettono in primo piano il ruolo della Russia nei confronti di New Delhi, sia come principale fornitore militare, sia come partner strategico nel settore del nucleare civile.

LE RELAZIONI INDO-RUSSE– All’origine della visita di Putin in India (foto in alto) c’era la volontà della leadership russa di cementificare la partnership strategica tra i due paesi e di promuovere la presenza della Russia in importanti mercati, quali quello militare e quello energetico. Le basi degli accordi erano già state preparate durante la visita del Primo Ministro Manmohan Singh a Mosca a dicembre e soprattutto durante l’incontro di metà febbraio tra il vice Primo Ministro russo Sergei Sobyanin e il Ministro degli Esteri indiano S.M. Krishna e il consigliere del Primo Ministro per la sicurezza nazionale S. Menon. Dopo un raffreddamento nei loro rapporti, seguito all’avvicinamento dell’India agli Stati Uniti durante l’amministrazione Bush, questi accordi sembrano affermare l’intenzione di entrambi i paesi di ridare vigore alle loro relazioni. Durante gli anni della guerra fredda, infatti, Russia e India, nonostante il non-allineamento indiano, hanno sempre avuto un rapporto privilegiato, sia dal punto di vista commerciale, che dal punto di vista militare. Risalgono agli anni sessanta i primi accordi per ampie forniture militari da Mosca a New Delhi e al 1971 l’architrave delle loro relazioni, il “Trattato di pace, amicizia e cooperazione reciproca”.

COOPERAZIONE MILITARE– Attualmente l’India è uno dei principali importatori di armi, delle quali il 70% è di origine russa, e il suo budget dedicato alla difesa è il quarto più grande al mondo. L’annuncio di un ulteriore aumento di queste risorse per far fronte al proprio ruolo di potenza regionale sempre più importante, che raggiungeranno i 32 milioni di dollari nel 2010-2011, non può che mettere in luce il potenziale del mercato indiano. Il governo di New Delhi ha dichiarato più volte che la situazione geopolitica del paese e le minacce che vengono dai paesi vicini rendono necessari ampi investimenti volti a modernizzare il proprio esercito e il proprio arsenale militare. Da ciò l’interesse di Mosca che, dopo il crollo economico subito negli ultimi anni, potrebbe puntare anche sull’industria della difesa per risollevare la propria economia. Nel 2009 il suo Prodotto Interno Lordo è diminuito del 7,5%, dato discordante con quanto successo agli altri stati che formano il gruppo dei BRIC: secondo il Fondo Monetario Internazionale in India è cresciuto del 5,6%, in Cina dell’8,5% e in Brasile è diminuito dello 0,7%. In questa cornice si inserisce l’accordo da 1,5 miliardi di dollari per la fornitura di 29 MiG-29K,  (foto a destra) caccia che viaggiano sulle portaerei. A ciò si aggiungono la stipula di un contratto di 2,3 miliardi di dollari per i lavori sulla portaerei sovietica Ammiraglio Gorshkov, che doveva essere consegnata nel 2004, ma che probabilmente sarà pronta nel 2012, e la promozione dello sviluppo congiunto di jet da combattimento di nuova generazione.

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NUCLEARE CIVILE– Gli accordi più rilevanti firmati a New Delhi, però riguardano il settore energetico, e in particolare quello nucleare. La crescita economica che l’India ha attraversato negli ultimi anni ha aumentato esponenzialmente la sua domanda di fonti energetiche. Attualmente più del 50% dell’energia utilizzata dipende dal carbone, ma il contributo del nucleare al sostegno del suo sviluppo economico è destinato a crescere nei prossimi anni. Da ciò l’interesse da parte della Russia, che è già impegnata nella costruzione di due reattori a Kudankulam nello stato del Tamil Nadu. I patti siglati da Putin e Singh aprono la strada alla costruzione, con il sostegno di Rosatom (l’agenzia nucleare della Federazione russa), di almeno un’altra dozzina di reattori in territorio indiano, probabilmente in tre zone del paese. Anche in questo settore, come quello dei rifornimenti militari, la concorrenza con gli Stati Uniti e la Francia è particolarmente forte, intensificatasi soprattutto dopo la firma nel 2008 dell’accordo sul nucleare civile con gli Stati Uniti, che ha messo fine all’isolamento indiano a livello nucleare.

A ciò si sono aggiunti alcuni accordi sulla cooperazione in progetti spaziali, sulla produzione di sistemi di navigazione satellitare e sulla promozione del commercio bilaterale, che attualmente raggiunte gli 8 miliardi dollari. Putin e Singh, inoltre, hanno discusso della situazione regionale e il Primo Ministro russo ha dimostrato il proprio sostegno a New Delhi per quel che riguarda il terrorismo, la situazione in Afghanistan e Pakistan e le conseguenze per la stabilità della regione.

Valentina Origoni

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