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L’urna di Pasqua

Una vittoria inattesa, forse solo sperata. L’affermazione della lista capeggiata dall’ex primo ministro Iyad Allawi sorprende l’Iraq e le diplomazie occidentali gettando più di un’ombra sul futuro del paese. I vinti si riconosceranno tali? Ci sarà bisogno di un governo di unità nazionale? Il nuovo capo di stato saprà rispondere alle numerose sfide che gli si porranno dinanzi? Cerchiamo di fare luce su una situazione politica quanto mai complicata, ma importante da conoscere per comprendere le prospettive irachene

QUALE GOVERNO? – 91 contro 89, solo due seggi. È questo il minimo scarto con cui la coalizione di Iyaq Allawi, al-Iraqiya, ha vinto le elezioni presidenziali irachene di inizio marzo. Numeri che evidentemente non gli garantiscono la maggioranza (163 seggi su 325) in parlamento e che lo costringeranno a cercare alleanze con le altri fazioni politiche.

Ma chi sarà disposto a dialogare con Allawi? La risposta non è certo semplice. Infatti, anche qualora tutte le forze laiche volessero provare a formare un governo autonomo, non avrebbero i numeri per farlo: i 91 seggi di al-Iraqiya più i 43 dell’Alleanza kurda, aggiunti agli 8 della coalizione del Cambiamento kurda ed ai 6 di Uniti per l’Iraq non garantiscono infatti una cifra utile per raggiungere la maggioranza in parlamento. Il dialogo con le forze religiose sciite più che un atto volontario appare a questo punto una condizione necessaria anche perché la partecipazione curda ad un eventuale governo appare tutt’altro che scontata. Non si devono infatti dimenticare le forti spinte indipendentiste del Kurdistan il quale, proprio approfittando di un governo centrale debole, potrebbe assumere un atteggiamento sempre più autonomo e separatista.

RICONTIAMO – Lo sconfitto, il premier in carica Nuri al-Maliki, ha già dichiarato di non avere alcuna intenzione di aprire un confronto con Allawi. (nella foto sotto, i due contendenti) Anzi, il leader della colazione per lo Stato di Diritto ha chiesto a gran voce la riconta delle schede a causa di manifesti brogli elettorali. Gravi infrazioni sarebbero state rilevate da uomini vicini ad al-Maliki in molte sezioni di Baghdad e Mossul.

Le accuse di al-Maliki non sono state però raccolte dal mondo occidentale. USA, UE ed ONU si sono immediatamente affrettati a sottolineare la trasparenza del voto e l’inviato europeo Ad Merktel ha dichiarato che nessuna delle suddette millantate infrazioni è stata rilevata dagli osservatori internazionali.

Ma i problemi per Allawi non finiscono qui. Il numero di candidati eletti nelle liste del leader laico potrebbe infatti presto diminuire. Il comitato per l’epurazione degli ex baathisti (membri del regime di Saddam) ha raccomandato l’esclusione di sei deputati eletti nella lista vincente guidata da Ayad Allawi e di altri 46 candidati. Già nei mesi precedenti alle elezioni, la stessa commissione aveva proceduto all’esclusione di circa 500 nomi a causa della loro eccessiva vicinanza al vecchio regime di Saddam. Anche in Iraq politica e magistratura non vanno poi così d’accordo.

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INCROCI E COALIZIONI – La vittoria di Allawi non va allora a delinearsi realmente come tale. Nonostante abbia ottenuto il maggior numero di seggi, al-Iraqiya rischia seriamente di non riuscire a governare il Paese. E nel frattempo al-Maliki si organizza. Una volta appurata l’attuale non disponibilità al dialogo con la controparte sunnita, l’attuale premier sciita ha infatti nuovamente aperto alle milizie di Moqtada al-Sadr: la reale sorpresa di quest’ultima tornata elettorale.

Gli uomini del leader spirituale sciita Al Sadr hanno infatti visto raddoppiare i loro seggi in parlamento: da 24 a 40 in un sol colpo. Le milizie sciite radicali fanno attualmente parte dell’INA (Iraq National Alliance) ossia quella coalizione che raccoglie la maggior parte delle forze di matrice sciita presenti attualmente in Iraq. Se al-Maliki riuscisse realmente ad unirsi con l’INA, terzo partito con 70 seggi conquistati, entrambi raggiungerebbero quota 159: ad un passo dalla maggioranza.

Resta però da vedere se al-Sadr accetterà o meno il ramoscello di ulivo offertogli dal vecchio alleato. L’appoggio dll’imam sciita non è affatto scontato visto il duro confronto militare che si ebbe nel 2008, quando proprio il premier al-Maliki ordinò alle truppe governative di attaccare il quartiere Sadr City di Baghdad, quartier generale di al-Sadr. La sconfitta di due anni fa è ancora viva nei ricordi del giovane imam e questo rende la situazione oltremodo incerta. Ultimissime indiscrezioni di stampa rivelano come al-Sadr abbia negato il suo assenso ad una formazione di governo che non includesse proprio il vincitore Allawi. Lo stesso al-Sadr pare abbia invocato un referendum popolare per scegliere chi dovrà ricoprire la carica di primo ministro. Paradossalmente proprio l’uomo considerato fino a un mese fa il principale propugnatore delle violenze del paese chiama alla calma ambo le fazioni proponendosi come mediatore fra le parti.

Le violenze sembrano però non voler conoscere fine. Il 28 marzo quattro bombe sono state fatte esplodere nella provincia di Anbar contro la casa di un membro della coalizione elettorale facente capo ad Allawi: 6 morti e 15 feriti. Il giorno successivo a Mossul un ordigno, parte di un fallito attentato contro una chiesa locale, ha causato la morte di un bambino di soli tre anni. Nella stessa giornata del 29 marzo tre autobombe sono deflagrate a Kerbala causando in serie 12 morti ed oltre 50 feriti. L’Iraq non sembra conoscere pace.

Marco Di Donato [email protected]

Nuovo Planetario Italiano

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Da oggi il Caffè diventa anche un po' più letterario, con la partenza di una nuova rubrica, Il Mondo dei Mondi, dedicata alla letteratura -e, di riflesso, alla realtà vera e propria- di mondi diversi, con il filo conduttore del tema della migrazione. Una rubrica che ci aprirà gli occhi sull'”Altro” e ci darà nuovi punti di vista. Attraverso la riflessione sulle parole e sulle azioni che le fanno scaturire e che da esse scaturiscono.

Nuovo Planetario Italiano è un’”antologia ragionata di letteratura migrante”, con l’aspetto tipico di quei tomi manualistici accademici che separano il letterario dalla realtà. Eppure il sottotitolo ce lo lascia dirompere: “Geografia e antologia della letteratura della migrazione in Italia e in Europa”. E’ un lavoro che ragiona la via di “creolizzazione” culturale, soprattutto italiana, nel nuovo millennio e la propone all’Italia di Rosarno, degli Alì dagli occhi azzurri, delle classi scolastiche con il tetto massimo per gli “stranieri”. La via proposta mira a raccontare e quindi a far conoscere l’altro sotto un’ottica positiva, a svelare lo stereotipo xenofobo con gli occhi della sua vittima, a farci capire perché quel fenomeno che altrove ha trovato termini di definizione positivi come “Grande Migrazione” (“Die Grosse Wanderung”, secondo il poeta e critico tedesco H.M.Ezensberger, che affermava come nel Dna dell’uomo non ci fossero le radici, ma il movimento, la perenne migrazione, ndr), qui nel Sud Europa sia sempre stato osservato sotto l’ottica culturale dell’emergenza.

Eppure esiste tutto un campo accademico e culturale che a quello che sarà il futuro della letteratura -e che nei vari mondi è già talvolta tradizione consolidata- ha già dedicato e continua a dedicare il lavoro del proprio ingegno, attraverso iniziative, ricerche comparatistiche e opere di notevole spessore. Armando Gnisci, docente di Letteratura Comparata nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma La Sapienza, è il curatore di quest’opera e, come spiega egli stesso, insieme a un gruppo di co-autori(Franca Sinopoli, Maria Cristina Mauceri, Amara Lakhous, Gianluca Iaconis, Ali Mumin Ahad, Mia Lecomte, Silvia Camillotti, Davide Bregola, Immacolata Amodeo, Luisa Carrer, Pierangela Di Lucchio, Jean Jacques Marchand, Angela Gregorini, Marie Josè Hoyet e Sonia Sabelli) vuole porre al centro del dibattito “una riflessione complessiva e utile, non accademicamente erudita, quanto piuttosto criticamente pedagogica, di tutto quello che è successo in questi anni in Italia, con una serie di confronti con le altre realtà europee”.

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I tre saggi introduttivi aprono la panoramica sulla questione migratoria e su come le sue dinamiche siano confluite nelle scritture diasporiche ed esuli, nonché sulle modalità della critica letteraria di porle all’interno del canone occidentale; su come per questa “tipologia” di autori abbia trovato “una patria comune e priva di confini: la letteratura”. Inoltre approfondisce l’interesse e il lavoro dell’editoria e il proliferarsi di nuove iniziative, come quella della casa editrice Sinnos, nata all’interno del carcere romano di Rebibbia inizialmente come offerta lavorativa per soggetti svantaggiati nell’ambito dei servizi editoriali e che da subito si pose come opportunità di conoscenza di nuove culture, con il contatto generatosi tra detenuti italiani e stranieri. E anche con l’istituzione di premi letterari specifici, come il premio Concorso letterario per scrittori immigrati indetto da Eks&Tra e Fara Editore. Senza dimenticare, per quel che riguarda il Paese cui chi scrive appartiene per nascita, il passato migrante che ha caratterizzato i primi secoli della sua “unione” e gli anni del sogno coloniale fascista: anni rimossi, omessi e velati dal mito degli “italiani brava gente”, che fanno del nuovo planetario italiano un dittico.

La parte prima, “Il Planetario”, divide in otto capitoli i migranti verso l’Italia in base al paese di provenienza. L’Italia al centro del Mediterraneo che concentra in sé gli europei dei Balcani e del socialismo reale, insieme a una parte consistente del continente africano –Maghreb, l’ex impero coloniale del Corno d’Africa, l’Africa nera- fino a raggiungere il Vicino Oriente, l’Asia mediterranea e riflussi cinesi e indiani, unite al principe dei popoli dimenticati: quello romanì. Opere narrative e poetiche, che con la volontà di far risaltare la comunanza di tematiche, ci risucchiano all’interno della loro esperienza generativa, plasmando, quasi per contrappunto, un osservatore con un’identità “nuova” e talvolta terribile.

La seconda parte illustra la situazione dell’Europa occidentale, quella tedesca, inglese e quella della francofonia in esilio. Sono migrazioni e letterature che riguardano il popolo italiano -la prima su tutte-, nonché i due immensi imperi coloniali e i loro “dannati della terra”. L’ultima parte è relativa a progetti musicali, teatrali e cinematografici, sempre più prolifici e interessanti, mantenendo l’ottica italiana ed europea. Il confronto con una realtà che ci viene narrata come consolidata e che sembra invisibile al Paese spiazza e annichilisce. Rivivere le esperienze, i processi di integrazione e le emozioni attraverso la scrittura è l’ermeneutica necessaria per entrare fisicamente ed empaticamente in contatto con la nostra -di tutti- realtà in continuo mutamento e con l’ “Altro”, nel suo significato più nobile e antico. Se il cammino si fa camminando, è attraverso opere formidabili di critica e antologia come questa che le sfere di percezione, tutte coinvolte nella corretta ricezione, comprendono la strada da scegliere. Sono i libri a scegliere i lettori, attraverso il percorso ragionato nello spazio e nel tempo della stagione “presente e viva”.

A.P.

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Doppio colpo

Dopo circa sei anni di relativa calma, torna prepotentemente alla ribalta la minaccia del terrorismo in Russia. Due attentati hanno colpito la metropolitana di Mosca e la tumultuosa regione del Daghestan: una grave minaccia per Putin?

 Gli attacchi

Le cronache hanno già raccontato i dettagli: lunedì la metropolitana di Mosca è stata colpita da un duplice attacco, due attentatori suicidi (probabilmente donne) hanno causato la morte di almeno 41 persone, ferendone oltre 100.

Duplice attacco anche in Daghestan, nella città di Kizlyar, ai confini del Caucaso russo, con 12 morti e circa 30 feriti.

Come immediatamente ipotizzato, la pista più accreditata porta ai gruppi estremisti di matrice islamica che operano in Caucaso, che da circa due decenni sono in continua lotta contro il potere centrale e che già molte volte hanno colpito sia in Caucaso che nel cuore del Paese.

Sia il Primo Ministro russo Putin, che il Presidente del Daghestan, Magomedsalam Magomedov, hanno dichiarato che dietro ai due attacchi di questi giorni c'è, verosimilmente, la medesima organizzazione.

Perchè?

Ancora Cecenia dunque, ma non solo. Inguscezia, Daghestan, Cabardino Balcaria, Karachevo Circassia: questi i focolai che, apparentemente domati da Putin, soprattutto dal 2004 ad oggi, sembrano adesso accendersi nuovamente (vedi mappa).

Inoltre, a voler leggere con attenzione la scelta dei luoghi degli attacchi, il messaggio è chiaro e fortemente simbolico: gli attacchi sono stati condotti in Daghestan, ai confini estremi del Caucaso culla dei movimenti separatisti, e nel cuore di Mosca, ad una stazione delle metropolitana appena sotto il quartier generale dello FSB, il servizio segreto russo.

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Cosa farà Putin?

I successi di Putin, ai tempi del suo primo mandato da Presidente, si sono anche basati sulle sue scelte risolute in tema di terrorismo e separatismo; egli si è circondato di veterani dei servizi di sicurezza ed ha motivato le decisioni in materia di limitazione delle libertà personali e di accentramento di poteri anche sulla base di gravi necessità di sicurezza.

Questi nuovi gravi attacchi, dopo diversi anni di relativa calma, possono rappresentare per Putin il concretizzarsi di uno dei suoi peggiori timori, soprattutto in un momento in cui la sua popolarità è in calo e si risvegliano i malumori di piazza (negli ultimi mesi ci sono state infatti contestazioni e manifestazioni pubbliche in diverse città russe): diventare attaccabile su un baluardo della propria politica, cioè la sicurezza della popolazione sul suolo russo.

I detrattori punteranno su questo e quindi è probabile che la responsabilità per la mancata prevenzione di questi gravi attacchi dovrà ricadere su degli alti funzionari o ufficiali, altrimenti la credibilità della “linea dura” adottata da Putin e dal Presidente Medvedev potrebbe essere minata.

Intanto, le prime misure e proposte non si sono fatte attendere: Putin ha ordinato al Ministro degli Interni Rashid Nurgaliyev di rafforzare la presenza della polizia nel nord Caucaso, ed in particolare nelle aree più popolate e di maggiore importanza strategica del Daghestan.

La questione critica da comprendere è se le violenze saranno limitate a questi attacchi, o se queste rappresentano l'inizio di una nuova e prolungata lotta tra il centro del potere moscovita e la periferia del Paese.

Pietro Costanzo

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Settimana dal 22 al 28 marzo

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Ascoltate il podcast della trasmissione "Il Caffè Geopolitico"!

La sedicesima puntata:

Stati Uniti – "Come cambia l'America"

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Tutto archiviato?

Chi si aspettava una nuova intifada è per ora rimasto deluso. Chi prevedeva una rivolta nei territori occupati è stato accontentato solo in parte dalla cosiddetta “giornata della rabbia”. Solo chi si preoccupava per una possibile escalation di violenza nella striscia di Gaza, sebbene non si sia arrivati e molto difficilmente si arriverà ad una seconda Cast Lead, ha visto confermare i suoi, fondati, sospetti.

I NUOVI SCONTRI – Alcune settimane fa si pensava che Israele non volesse ulteriormente alimentare il clima di tensione potenzialmente esplosivo che si respirava nei territori palestinesi. In seguito all’uccisione del lavoratore thailandese nella cittadina di Sderot in effetti la rappresaglia israeliana si era limitata a sporadici raid aerei sulla zona del valico di Rafah. Nulla portava a pensare che avremmo rivisto una seconda Cast Lead la quale avrebbe avuto il solo effetto di provocare altre centinaia di morti palestinesi e decine di militari israeliani. Poi, come spessissimo succede nella regione medio orientale, gli eventi collassano quasi inaspettatamente e noi ci ritroviamo qui a raccontare la cronaca degli scontri di venerdì scorso fra miliziani palestinesi (Brigate Izz al-Din al-Qassam, Jihad Islamico e Taliban Filastin) e militari israeliani in quello che la Reuters ha definito il più sanguinoso scontro fra le parti da circa un anno.

LA RISPOSTA ISRAELIANA – Il tutto sembra essere nato dalla deflagrazione di un ordigno, secondo testimoni di al-Jazeera un razzo anti-carro sparato dalla vicina città palestinese di Khan Younis, il quale ha colpito una pattuglia di stanza al confine. Alcune fonti di stampa avevano inizialmente riportato come fossero stati alcuni miliziani di Hamas a tendere un’imboscata alle forze israeliane per rapire dei soldati, ma questa versione è stata poi nettamente smentita dagli organi di stampa internazionale. Dopo esser penetrati per circa mezzo chilometro hanno incontrato la resistenza armata della guerriglia palestinese. Il conseguente conflitto a fuoco ha provocato la morte di due militari israeliani (il maggiore Eliraz Peretz, 31 anni da Kiryat Arba ed il sergente Ilan Sviatkovsky, anni 21 da Rishon Letzion.) e di alcuni miliziani locali. Da qui sarebbe poi partita la repressione israeliana e la conseguente penetrazione con i mezzi blindati nel cuore della Striscia. Due bulldozer blindati e cinque carri armati israeliani sono entrati nella striscia di Gaza dirigendosi verso Khan Yunis in un’azione di rappresaglia per quanto accaduto nella mattinata.

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QUANDO I COLLOQUI SI BLOCCANO…Il Ministro della Difesa Eduh Barak ha affermato che Hamas pagherà a caro prezzo la morte dei due soldati israeliani che hanno perso la vita in uno scontro nella Striscia di Gaza. A queste parole fanno eco quelle dei leader del movimento islamico, i quali hanno dichiarato che “entrare a Gaza non è come andare a fare un picnic” e che risponderanno duramente “a qualsiasi tentativo sionista di attaccare la striscia”. Le violenze fra le parti sembrano dunque la logica conseguenza di una situazione, quella della striscia di Gaza, sempre più disperata. Storicamente i vari momenti di impasse del processo di pace hanno portato ad un riacutizzarsi delle tensioni: anche questo preciso istante storico non fa eccezione.

LA CRISI DEI RAPPORTI USA-ISRAELE – La situazione sul fronte internazionale sebbene incandescente vive in fondo un momento di stallo. La recente visita alla Casa Bianca fra il premier israeliano Netanyahu ed il presidente Usa Barack Obama (nella foto) non ha certo portato i frutti sperati. Anzi. Nir Hefez, portavoce del primo ministro israeliano, ha parlato di una serie di incomprensioni fra le parti, ma in realtà la situazione è molto più grave di quanto si voglia far credere. Obama aveva chiesto impegni scritti al collega israeliano ricevendo però una serie di rifiuti che lo avrebbero non poco irritato. Secondo l’AGI, Obama avrebbe chiesto a Netanyahu tre gesti di buona volontà da offrire ai palestinesi senza chiedere contropartite: l’estensione fino a settembre della moratoria parziale di 10 mesi sulle nuove costruzioni nelle colonie in Cisgiordania, il ritiro dell'esercito israeliano alle posizioni precedenti alla seconda Intifada (quella del 2000) e la liberazione di un numero, compreso tra cento e mille, di detenuti palestinesi. In base alle indiscrezioni riportate da Yedioth Ahronoth, Obama avrebbe anche chiesto ad Israele di trasferire sotto il controllo dell’Autorità Palestinese l’intera area di Abu-Dis. Alle vaghe risposte di Netanyahu, fra i due si sarebbe sviluppata una tensione palpabile tanto che il presidente americano avrebbe piantato il Primo Ministro israeliano nel bel mezzo dell’incontro per andare a mangiare con moglie e figlie rincontrandolo solo a cena ormai terminata. A parte questi dettagli la situazione è davvero al limite ed una crisi fra le parti appare come uno scenario sempre più convincente. Lo scenario si complica assumendo sfumature impreviste e dalla difficile lettura. Un solo elemento appare al momento certo: nulla è finito, nulla è archiviato, nè da una parte nè dall’altra.

Marco Di Donato

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Misteri Coreani

Nessuna luce ancora sull’affondamento della nave militare sud-coreana di qualche giorno fa: nei prossimi giorni la questione dovrebbe però parzialmente chiarirsi e svelare possibili crisi e ruoli. Stati Uniti ed Israele continuano il tira e molla sui nuovi insediamenti a Gerusalemme est. Intanto in Sudan si decide se si terranno davvero le prime elezioni libere dal 1986.

Pochi giorni fa la nave militare sud-coreana Cheonan è affondata nel Mar Giallo in circostanze ancora misteriose. Le dichiarazioni ufficiali, rare e frammentate, non hanno sinora permesso di ricostruire l’accaduto e il silenzio delle parti interessate, soprattutto della Corea del Nord, lascia aperti diversi scenari. Sebbene sinora l’ipotesi di uno scontro a fuoco tra imbarcazioni del sud e del nord della Corea sia la meno probabile, rimane da capire quali siano le reali cause di questo grave incidente (che ha comunque causato la morte di un numero non ancora precisato di membri dell’equipaggio) e, soprattutto, quali saranno toni ed eventuali ripercussioni sul teso dialogo tra le due Coree (ed i loro alleati).

La questione delle nuove costruzioni progettate dal Governo israeliano nella zona est di Gerusalemme tiene ancora banco ed è al centro di una accesa discussione tra Israele e Stati Uniti. Sinora nessun risvolto concreto sembra derivare dalle dichiarazioni di reciproca chiusura delle due parti e non è detto ci saranno delle reali conseguenze nei rapporti tra i due Paesi: in settimana potrebbero quindi giungere nuove dichiarazioni sullo stesso tenore di quelle sinora udite, altisonanti ma poco concrete. Meno probabili sembrano essere invece iniziative dai risvolti pratici.

Il 30 marzo in Sudan si terrà un meeting tra il Presidente Omar al Bashir ed il Primo vice Presidente Salva Kiir, che discuteranno della possibilità di un ulteriore rinvio delle elezioni presidenziali e politiche. Se davvero le elezioni si terranno, saranno le prime elezioni aperte, multi-partito, dal 1986 ad oggi. Il clima è diventato sempre più teso nei giorni scorsi, anche per via dello scontro tra il Presidente e diverse organizzazioni straniere di osservatori elettorali presenti in Sudan: al Bashir ha minacciato di espellere gli elettori, i quali hanno più volte sottolineato le pessime condizioni di sicurezza attuali e le presunte pressioni sui partiti di opposizione, suggerendo uno spostamento delle elezioni. Dopo le critiche durissime a questi interventi, ritenuti un’ingerenza nella politica del Paese, al Bashir sembra invece considerare il rinvio. Inoltre, scade giorno 2 aprile anche il termine per la firma dell’accordo di pace per il Darfur.

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Altri appuntamenti da osservare:

  • Cina: attesa la sentenza sul caso di spionaggio Rio Tinto, che vede coinvolto un cittadino australiano e che potrebbe incidere sulle relazioni tra Cina ed Australia.
  • Una delegazione cinese discuterà in Svezia i dettagli per l’acquisizione della casa automobilistica Volvo da parte della cinese Geely, per un affare da oltre 1,8 miliardi di dollari.
  • Russia: dopo le clamorose manifestazioni anti governative della settimana scorsa, che probabilmente si ripeteranno anche nei prossimi giorni, si terranno a Mosca delle manifestazioni a favore del Cremlino, con circa 5000 persone attese. Le manifestazioni di piazza sono parecchi infrequenti nella Russia contemporanea, sarà importante osservarne la gestione da parte del Cremlino.
  • Il Presidente turco Abdullah Gul si recherà in Pakistan per incontrare il Primo Ministro Yousaf Raza Gilani, il capo della Lega Musulmana Nawaz ed il Primo Ministro del Punjab, Shahbaz Sharif.
  • Iniziano in Sud Africa i pattugliamenti speciali dei confini del Paese da parte dell’esercito; dopo i timori espressi a livello internazionale circa l’effettività dei controlli della polizia alle frontiere, il Governo sud africano vuole dimostrare di poter garantire in pieno la sicurezza per gli ormai prossimi Campionati del Mondo di calcio.

29 Marzo 2010

La Redazione

I nostri contenuti speciali

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Guerra di frontiera

Gli Stati Uniti sembrano intenzionati a tornare in campo e a sostenere il governo messicano nella lotta contro il narcotraffico. L’assassinio di poche settimane fa a Ciudad Juárez di tre persone legate al Consolato statunitense ha rimesso in primo piano anche in questo paese la gravità della situazione che caratterizza le aree di frontiera.

LA GUERRA DI CALDERÓN – Dall’inizio del suo mandato nel 2006, il presidente Calderón ha fatto della lotta contro il narcotraffico e contro il crimine organizzato uno degli obiettivi principali della sua presidenza. E per vincerla ha scelto di mettere in campo l’esercito: nei nove stati maggiormente colpiti dagli episodi di violenza sono stati dispiegati 36mila soldati che, occupati nello sradicamento delle colture, nella raccolta di informazioni, nell'interrogazione dei sospetti e nel sequestro delle merci di contrabbando, avrebbero dovuto aumentare la sicurezza dei cittadini. Sono passati tre anni e la situazione resta grave; a Ciudad Juárez, la città di 1,5 milioni di abitanti situata sul confine con gli Stati Uniti protagonista del maggior numero di episodi di violenza, solo nel 2008 gli omicidi sono stati 2600 e nel 2009 2650. All’origine della scelta di Calderón la necessità di un aumento drastico della presenza dello stato e, soprattutto, la crescente connivenza tra le forze di polizia locale, statale e federale e i narcotrafficanti, limite insuperabile per un miglioramento reale della situazione. A ciò si aggiunge il rispetto e la fiducia verso l’esercito da parte dei cittadini messicani, dovuto alla sua tradizionale distanza dalla politica.

LE CRITICHE – Durante l’ultima visita del presidente Calderón a Ciudad Juárez, però, non sono mancate le proteste da parte dei cittadini della città che lo accusano di inefficienza nel gestire la situazione; secondo i critici, dall’arrivo dei soldati la violenza sarebbe solo aumentata e ai problemi legati al crimine organizzato si sarebbe aggiunta la questione degli abusi dei militari, denunciati dai cittadini e negati dal governo. Organizzazioni internazionali quali Human Rights Watch e Amnesty International, hanno in più occasioni denunciato le gravi violazioni dei diritti umani di cui si sarebbero resi colpevoli i soldati durante le operazioni (sparizioni forzate, omicidi, torture, violenze sessuali e detenzioni arbitrarie) e hanno messo in evidenza come l'impunità dei responsabili potrebbe contribuire al fallimento delle strategie del governo per combattere la diffusione della violenza. L’origine di questi episodi è da ricercarsi nell'impiego delle forze dell’esercito per una guerra asimmetrica come quella contro i narcotrafficanti, nella quale il confine tra i civili e i criminali non può essere ben definito.

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QUALE INTERVENTO DEGLI USA? – L’assassinio di un'impiegata del Consolato degli Stati Uniti e del marito, entrambi cittadini statunitensi, e il marito di una funzionaria messicana ha rimesso in primo piano anche a Washington la questione della violenza e dei traffici che caratterizzano il confine tra i due stati. Come conseguenza il segretario di Stato Hillary Clinton (a destra con il Presidente Obama) ha incontrato in Messico il presidente Calderón e ha partecipato alla riunione del Grupo Consultivo de Alto Nivel Estados Unidos-México. Il vertice si è concluso con un accordo che apre un nuovo capitolo nella cooperazione tra i due paesi; le iniziative del governo statunitense sembrano rappresentare il riconoscimento di una responsabilità condivisa dei due paesi. Il ruolo degli Stati Uniti risulta particolarmente centrale per quel che riguarda la lotta al contrabbando di armi attraverso il confine (più del 90% delle armi che viene trafficato illegalmente in Messico proviene dagli Stati Uniti) e il controllo del consumo di droga sul mercato statunitense. Nonostante le dichiarazioni dell’amministrazione statunitense solo nei prossimi mesi si potrà capire quale ruolo intendano giocare gli Stati Uniti, se si limiteranno ad iniziative per far fronte a queste questioni sul proprio territorio, oppure opteranno per un intervento più invasivo, sulla falsariga del Plan Colombia, che potrebbe non escludere anche la partecipazione attiva delle forze armate.

Valentina Origoni

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Mc Mafia

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Perchè la globalizzazione non muove solo hamburger e banane, ma anche cocaina, armi, donne e soprattutto soldi, soldi, soldi.            

Durante lo scorso weekend si è svolta a Milano un’imponente manifestazione contro la mafia organizzata dall’Associazione Libera. Giovani, anziani, uomini e donne di tutta Italia si sono trovati nella capitale finanziaria del paese per gridare la propria contrarietà alle organizzazioni criminali in tutte le loro forme. Nel nostro paese quello della criminalità organizzata è un problema vasto e, ahinoi, endemico, ma i coraggiosi esponenti dell’associazione antimafia sanno bene come sia sempre più importante affrontare questo problema da una prospettiva sovranazionale. Sia perché i gruppi criminali hanno allargato i loro traffici oltre i confini delle nazioni d’origine, sia perché si sono create forti alleanze tra le organizzazioni di diversi paesi. Per questo alla manifestazione di Milano erano presenti rappresentati di associazioni di diversi paesi impegnate nella lotta contro il crimine organizzato.

 

Per combattere il nemico è necessario conoscerlo, il ruolo dell’informazione è fondamentale quindi, sia per portare avanti le grandi battaglie civili per la legalità, sia per aprire gli occhi su quanto le dinamiche criminali influiscano nella vita di tutti i giorni. Misha Glenny, giornalista della BBC, ha raccolto nel suo libro “McMafia” un impressionante sforzo investigativo (giornalistico, è il caso di specificare) per cercare di raccontare la realtà del crimine organizzato da un punto di vista globale. Nelle 400 e passa pagine del volume edito da Mondatori, Glenny ci accompagna in un viaggio attraverso le reti criminali che stringono, in maniera più o meno visibile, la moderna comunità globalizzata: dalla Russia post comunista, passando da Balcani, India, la tranquilla Dubai, Sudamerica, Giappone, fino all’inevitabile nuova frontiera, la Cina.

Il modello che viene subito in mente nella lettura di questo viaggio allucinante è evidentemente quello di Roberto Saviano e infatti lo stile dell’opera ricorda molto quello di Gomorra: un taglio giornalistico-narrativo (sul modello del migliore new journalism), una prosa semplice e accattivante, che favorisce una lettura scorrevole, in un continuo rimando dal particolare al generale. Come “Gomorra”, l’opera di Glenny, presta quindi il fianco alle possibili critiche di un approccio non sempre rigoroso dal punto di vista scientifico: la scorrevolezza della lettura è anche garantita dalla pressoché totale assenza di note. Il lettore deve quindi fare affidamento unicamente sulla testimonianza dell’autore e sulla sua buona fede nel riportare le parole dei molti personaggi intervistati in giro per il mondo. Per il lettore critico il dubbio che l’autore stia “colorando” alcune parti a fini narrativi è sempre dietro l’angolo.

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Fatte le dovute premesse, qui non si intende discutere se con “McMafia” ci troviamo di fronte a un’opera di fiction o di giornalismo (le critiche di questo tipo rivolte a “Gomorra”, su cui non ho niente da obbiettare in linea di principio, non influiscono a mio parere sull’importanza e la bellezza dell’opera di denuncia Saviano), ognuno si farà la propria idea in proposito, piuttosto accennare ad alcune idee contenute nel libro. Innanzi tutto quello che colpisce di McMafia è il modo con cui Glenny dimostra come “tutto si tiene insieme”, come quella criminale è una vera e propria economia “ombra” che collega Delhi a Dubai, Shenzen a Los Angeles, Tel Aviv a Mosca, parallelamente all’economia globale “ufficiale”. Questo ci porta direttamente al concetto che permea tutto il libro: la criminalità organizzata è una diretta conseguenza della società capitalistica e la sua forma globalizzata non è altro che la conseguenza diretta dell’internazionalizzazione dei flussi di capitali e merci. Mentre l’economia si liberava dei vincoli nazionali negli anni ’80, contemporaneamente si sviluppavano i rapporti criminali internazionali. Quelle organizzazioni che spesso erano state fino allora erroneamente catalogate come il frutto di retaggi culturali locali, diventavano apripista di nuovi rapporti economico-finanziari globali. N’drangheta docet. Forse, Glenny non ne parla in quanto la Mafia con la “M” maiuscola, il più grande prodotto d’esportazione del made in italy, non rientra nella sua indagine, esempi importanti della forte vocazione imprenditoriale alla base della nascita dei grandi organismi criminali possono essere trovati più in là nel tempo. E’ un dato storico assodato il fatto che le famiglie mafiose italo-americane abbiano giocato un ruolo molto importante nel periodo del boom economico degli anni ’40-’50 della nazione capitalista per antonomasia, gli Stati Uniti: basti fare l’esempio di Las Vegas, che è stata praticamente fondata dai due gangster ebrei Bugsy Siegel e Meyer Lansky in società con Lucky Luciano e le famiglie della mafia italo-americana, oppure del ruolo delle stesse organizzazioni malavitose nei sindacati di autotrasportatori e portuali e di conseguenza sul commercio degli Stati Uniti all’interno e all’esterno.

 

Tornando a periodi più recenti l’economia liberista imposta come modello di sviluppo vincente si fonda sulla riduzione della regolamentazione del mercato, Glenny sottolinea come la deregulation, oltre ad aprire le porte a merci e capitali, ha configurato un ambiente ideale per il proliferare delle mafie internazionali, costituzionalmente decisamente allergiche alle leggi. La deregulation ha permesso anche di creare una “zona grigia” in cui sono fioriti imponenti legami tra il mondo sommerso del potere criminale e quello alla luce del sole dei grandi gruppi economici.

Si può essere d’accordo o meno con le conclusioni del giornalista, sicuramente esistono studi più approfonditi e scientifici sulle singole situazioni da lui affrontate, non di meno la sua “lettura d’insieme” risulta convincente. Ha inoltre il pregio di essere avvincente, cosa non da poco, visto che un’opera di diffusione dell’informazione su questi temi appare necessaria, alla luce del fatto che un grande potere di incidere sulle dinamiche criminali internazionali risiede nel ruolo di ognuno di noi come consumatore. Il grande pubblico è affezionato alla figura del grande criminale affiliato a un organizzazione rappresentato come un eroe romantico al negativo, eccessivo, alle prese con sparatorie e sempre in fuga dalla polizia. In verità questa immagine è sempre meno rispondente alla realtà dei boss in doppiopetto, manager navigati, perfettamente inseriti negli ambienti in cui operano grazie a stretti rapporti con l’elitè economiche e politiche, cosiddette “rispettabili”.

 

Jacopo Marazia

Hugo mette il bavaglio

Si inasprisce la repressione in Venezuela. Negli ultimi giorni ne hanno fatto le spese un esponente dell'opposizione e il presidente di un importante canale televisivo, che sono stati arrestati con l'accusa di aver “offeso” Chávez. Un clima sempre più teso in vista delle elezioni legislative previste per settembre.

MI HAI OFFESO! – Con questa motivazione Hugo Chávez, presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, ha fatto arrestare il 25 marzo Guillermo Zuloaga (nella foto in basso a destra), imprenditore titolare del canale televisivo Globovisión, che nel Paese rappresenta la principale voce di opposizione mediatica al regime chavista. Zuloaga si era infatti reso “colpevole” di avere criticato pubblicamente i provvedimenti restrittivi nei confronti dei mezzi di comunicazione presi con sempre maggior frequenza dal Governo. Non ci è voluto molto perchè agenti del Servizio di Intelligence militare venezuelana lo arrestassero e lo tenessero in stato di fermo alcune ore con l'accusa di “aver offeso il Presidente”, prima di rilasciarlo con l'obbligo di non lasciare il Paese.

L'episodio è giunto a pochissima distanza dal comunicato emesso lo stesso giorno dalla Commissione Interamericana per i Diritti dell'Uomo (che ha sede a Washington), la quale aveva condannato un altro fatto analogo accaduto in Venezuela pochi giorni prima. L'8 marzo, infatti, un trattamento simile era stato riservato a Oswaldo Álvarez Paz, politico di spicco tra le fila dell'opposizione ed ex governatore della ricca provincia petrolifera di Zulia. Paz, infatti, aveva accusato Chávez di connivenza con i guerriglieri colombiani delle FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias Colombianas) e di aver fatto del Venezuela uno dei principali snodi del narcotraffico globale. Non l'avesse mai detto: è stato arrestato con l'accusa di “cospirazione contro la nazione”.

NON E' LA PRIMA VOLTA – Le misure repressive contro l'opposizione interna stanno ormai diventando una pratica abituale in Venezuela. Da circa ormai tre anni il Governo ha intrapreso una dura campagna contro l'emittente Globovisión e a più riprese ha tentato di chiuderla con numerose verifiche di carattere burocratico che hanno comportato in alcuni casi l'oscuramento delle trasmissioni per alcuni giorni. Negli ultimi mesi, inoltre, il regime di Chávez ha deciso la chiusura di decine di emittenti radio private attraverso la revoca della licenza di utilizzo delle frequenze con il pretesto della mancanza di adempimenti di natura formale.

Si tratta di un'operazione graduale e dai tratti non violenti, ma che sta assumendo i contorni di una repressione sempre più ampia e diffusa di tutte le voci contrarie al Governo. Tale operazione è facilitata anche dal particolare quadro politico che vige attualmente in Venezuela: l'Assemblea Nazionale, infatti, è totalmente controllata dal PSUV (Partido Socialista Unido de Venezuela). In più, i partiti contrari a Hugo Chávez non sono ancora riusciti a costituire un fronte compatto e unitario e la frammentazione non può che giocare a favore del Presidente.

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INTERNET SPINA NEL FIANCO? – Non ci sono solo televisioni e radio: oggi il principale mezzo di comunicazione è indubbiamente il web. E così è interessante notare che in Venezuela sono più di duecentomila gli utenti di Twitter, la piattaforma di “microblogging” che permette di pubblicare brevi messaggi di testo. Twitter è uno dei mezzi più usati negli ultimi tempi dai venezuelani che vogliono far circolare idee e notizie contrarie da quelle che vengono divulgate dal Palazzo di Miraflores, sede del Governo di Caracas. Non a caso Chávez sostiene che da Internet sta arrivando una nuova “guerra” nei confronti del regime, una “corrente cospirativa paragonabile all'effetto di un fucile o di un cannone”.

Cosa c'è da attendersi dunque? Non va dimenticato che a settembre si terranno le elezioni legislative per il rinnovo dell'Assemblea Nazionale. L'opposizione, oltre a dover superare lo scoglio delle intimidazioni e della censura da parte del regime, dovrà prima di tutto fare i conti con la propria debolezza e frammentazione. In tale contesto, è ipotizzabile che il caudillo venezuelano possa ancora avere buon gioco nel mantenere le redini del potere. Tuttavia il malcontento nella popolazione è sempre più diffuso: il 62% dei cittadini, secondo un recente sondaggio, non approva più l'operato del Governo. La crisi economica si sta facendo sentire pesantemente in Venezuela, colpito da un'inflazione galoppante e da una paradossale carenza di energia elettrica (le autorità hanno dovuto fare ricorso più volte a black-out per razionare la luce). Chávez ha attuato a gennaio la svalutazione del bolívar, la moneta locale, per consentire alla Banca Centrale di stampare più moneta e di finanziare un'ulteriore espansione della spesa pubblica. Il gioco, però, è molto pericoloso, e le rendite petrolifere potrebbero non bastare più per consentire al Presidente bolivarista di rimanere agevolmente in sella. La tenuta del regime dipenderà in larga parte dall'evoluzione della situazione interna: i prossimi mesi saranno cruciali in tal senso.

Davide Tentori

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Press Start

La revisione degli accordi tra Washington e Mosca sulla limitazione delle testate nucleari rappresenta un passo avanti verso l’obiettivo di Obama per la dismissione degli armamenti atomici. Tra le incognite sul tappeto, però, rimane la ratifica da parte del Senato statunitense

UN ANNO DOPO – La data ed il luogo della firma sembrano avere per la Casa Bianca un alto valore simbolico, oltre che pratico. Il 5 aprile di un anno fa, proprio a Praga (foto a destra), Barack Obama annunciò di voler lavorare affinchè il mondo fosse libero dall’incubo della distruzione nucleare. Avendo posto successivamente tra le priorità della sua agenda la dismissione degli armamenti atomici, il presidente statunitense potrebbe presto annunciare che un primo, fondamentale, passo avanti è stato fatto. La sfida lanciata ha segnato ieri una grande vittoria: Usa e Russia ridurranno di 1550 unità il numero delle testate in loro possesso (una diminuzione del 74% rispetto all'accordo START del 1991), oltre a 800 vettori in meno capaci di trasportare ordigni nucleari (un dimezzamento rispetto al vecchio START scaduto nel dicembre scorso). L'intesa prevede inoltre la creazione di un organo esecutivo denominato commissione bilaterale consultiva destinata a favorire la realizzazione degli obiettivi e dei punti del nuovo accordo

IL TRATTATO E LA CONFERENZA – Per Barack Obama la firma del trattato sarà un successo personale di non poco conto, un segnale forte ai suoi detrattori: la pragmaticità finora dimostrata nell’approccio alle questioni di politica internazionale può portare frutti importanti. Fu proprio il presidente statunitense, infatti, ad intavolare il primo confronto sul rinnovo del Trattato START con il leader russo Medvedev nel vertice di Mosca nel luglio del 2009, trovando un’intesa di massima sulla portata della riduzione degli armamenti nucleari dei due paesi. La scelta dell’8 aprile, giorno della firma del trattato a Praga (capitale di un Paese che faceva parte del Patto di Varsavia ed ora è membro della Nato), è strategica anche per ovvi motivi di opportunità politica. Il 12 aprile si aprirà infatti a Washington la Conferenza sul nucleare: quale miglior palcoscenico, in un momento in cui il presidente ha un disperato bisogno di rilanciare il proprio appeal sul fronte della politica interna, per presentare un accordo così importante, esibendo così fatti e non solo parole? Un punto in più, dunque, anche in vista del difficile obiettivo di rilanciare a maggio il trattato di non proliferazione nucleare.

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OCCHIO ALLO SCUDO – Rimane comunque da chiarire il riflesso di questo accordo nei confronti dello scudo anti-missile. Da Mosca si è sottolineato che l'accordo include un collegamento "legalmente vincolante" tra armi strategiche di attacco (come appunto i missili) e quelle di difesa (come lo scudo antimissile). Queste le parole dell’ufficio stampa del Cremlino: “È previsto che tutti gli armamenti strategici offensivi saranno dislocati esclusivamente nel territorio nazionale di ciascuna delle parti”. Una interpretazione respinta dalla Casa Bianca, che sostiene come l'accordo non contenga vincoli allo sviluppo dello scudo anti-missili. Alla radice della divergenza c'é il fatto che sia Obama che Medvedev devono ottenere la ratifica dei rispettivi parlamenti prima che il trattato possa entrare in vigore. Obama ha bisogno del voto favorevole di 67 senatori su 100, e deve convincere quindi anche almeno una decina di senatori repubblicani a votare per l'accordo. Ma per arrivare a questo risultato occorre che l'accordo non minacci lo scudo e le difese anti-balistiche americane, strumenti sostenuti con forza proprio dai repubblicani.

RISCHIO PROLIFERAZIONE – Va inoltre sottolineato come tale accordo lanci un monito a nazioni come Iran e Corea del Nord sulla determinazione dei due Paesi nella lotta alla proliferazione nucleare. L’obiettivo è impedire una proliferazione atomica che parta da Teheran e che renda vane le limitazioni decise, ritenendo che questo accordo possa permettere di alzare ulteriormente la voce contro chi ora minaccia di avere l’atomica. In ogni caso, è ben difficile che l’Iran si faccia intimorire o condizionare dall’accordo Usa-Russia. Ed è chiaro che se l’Iran avesse l’atomica, un nuovo processo di proliferazione nucleare sarebbe assolutamente prevedibile.

Alberto Rossi

Simone Comi

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Allarme coreano

Una nave militare della Corea del Sud, impegnata in operazioni di pattugliamento dei confini marittimi con la Corea del Nord è affondata oggi a seguito di una esplosione. Sebbene le circostanze non siano chiare e non ci siano ancora dichiarazioni ufficiali a riguardo, si teme l’ennesimo scontro con unità marine della Corea del Nord.

L'AFFONDAMENTO – La nave militare Cheonan, con a bordo un equipaggio composto da 104 persone, è affondata poche ore fa vicino al confine marittimo tra le due Coree, nei pressi dell’isola di Baengnyeong (come illustrato nella mappa).

Al momento buona parte dell’equipaggio pare esser stato tratto in salvo, ma il timore per la morte di diversi membri è concreto.

Le notizie diffuse dalla stampa coreana, raccolte sia sul campo che attraverso le poche dichiarazioni rilasciate dall’esercito sud coreano, parlano di un iniziale coinvolgimento della Cheonan in uno scontro con una imbarcazione non identificata, che avrebbe portato la nave sud coreana a far fuoco in direzione nord.

E’ stato quindi riportato che una esplosione avrebbe causato l’affondamento della nave, anche se non vi sono informazioni a conferma del sospetto che a causare l’esplosione sia stato un siluro, e quindi l'attacco da parte di un'altra imbarcazione.

Attualmente il Governo sud coreano sembra aver convocato un meeting d’urgenza tra i Ministri interessati.

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TENSIONI COSTANTI – L’escalation di tensioni tra la Corea del Nord e la Corea del Sud è stata costante negli ultimi anni, con un preoccupante aumento delle minacce nord-coreane rispetto al possibile uso della forza per difendere il proprio confine: vi sono infatti dispute sui confini marittimi nel Mar Giallo alla base delle più recenti schermaglie tra le due Coree.

Scontri navali, anche con l’esplosione di colpi e con concreti rischi di affondamenti, non rappresentano certo una novità in quest’area, ma sinora non si è mai giunti a livelli di conflitto tali da portare al diretto affondamento di una imbarcazione.

Se, dunque, proprio questo fosse accaduto, si sarebbe di fronte ad un pericoloso evento, capace di scatenare reazioni ben più concrete e dirette di quelle osservate fino ad oggi.

Sinora infatti si è assistito ad un aumento del confronto militare indiretto tra Nord e Sud, con i militari di Pyongyang che hanno più volto condotto esercitazioni nei pressi del confine conteso, sparando in acque sud coreane, anche in risposta alle recentissime esercitazioni congiunte condotte dalla Corea del Sud con la Marina Militare Americana.

Sebbene un conflitto vero e proprio non sia attualmente l’opzione più probabile, la Corea del Nord potrebbe comunque decidere di dare una prova di forza, a sostegno della costante retorica sugli attacchi stranieri alla stabilità del regime di Kim Yong Il e della necessità di sviluppare il proprio programma nucleare.

Pietro Costanzo [email protected]