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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Il cammino interrotto

Una storia africana, un Paese di cui non si parla mai ma che è emblematico delle problematiche che affliggono buona parte del continente. Dalle promesse mancate alle speranze per il futuro

L’ACCORDO MANCATO – Se si guarda oggi alla drammatica situazione in cui versa la Repubblica Centrafricana (RCA), non si può fare a meno di sentirsi attraversati da un unico, grande interrogativo: che ne è stato degli accordi di pace del dicembre 2008? O meglio, dove è finita la buona volontà che aveva animato il cosiddetto Inclusive Political Dialogue (IPD)? Quando il generale François Bozizé depose con un colpo di stato il governo civile retto da Patassé (nel 2003), il gigante centrafricano precipitò in una spirale di violenza apparentemente priva di vie d’uscita. Eppure fu proprio lo stesso Bozizé (confermatosi alla guida del paese in seguito alle elezioni del 2005) ad escogitare un’eccellente way out. L’IPD sembrò un piano pieno di speranza, dal quale nessuno sarebbe stato escluso. La fazione sostenitrice del Presidente, l’opposizione capeggiata da Patassé, i ribelli delle province nord-orientali e svariati gruppi di attivisti della società civile furono chiamati a lavorare insieme per ridefinire i delicati equilibri politici del paese. Tutto ciò accadeva nel 2007. Dopo una breve fase di stallo, i diversi interlocutori divennero meno rigidi, abbandonando pretese di dominio e volgendosi piuttosto alla via del compromesso. Nel giro di un anno si giunse ad un accordo che prometteva a ciascun gruppo una fetta di potere e responsabilità in RCA: Bozizé si rese protagonista di una storica apertura all’opposizione e i ribelli acconsentirono a far tacere le armi in cambio di incarichi all’interno delle istituzioni nazionali.Sulla carta, la RCA appariva allora come fulgido esempio di una riconciliazione nazionale possibile, come modello da esportare nei disastrati paesi confinanti (Sudan, Ciad, Repubblica Democratica del Congo). Fin quando qualcosa si ruppe. Oggi non possiamo che constatare che l’IPD è stato un accordo mancato. Alla luce dell’instabilità politica che ha segnato tutto il 2009, il traguardo dell’organizzazione di elezioni presidenziali nel 2010 pare ormai distante anni luce. Governo e opposizione si sono aggrediti senza sosta nel corso dei lavori per la creazione di una Commissione Elettorale Indipendente, rendendo impossibile qualsiasi passo in avanti. A ciò deve aggiungersi il fatto che i ribelli hanno imbracciato nuovamente le armi, scagliandosi contro le truppe governative e creando malintesi di carattere territoriale che hanno addirittura risvegliato antiche rivalità tribali nelle regioni nordorientali.

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UN ARGINE ALLA CRISI – Per evitare che un documento prezioso come l’IPD diventi lettera morta, è necessario un impegno coordinato del governo centrafricano e della comunità internazionale. Sul fronte sicurezza, i nuovi gruppi ribelli e tribali sorti nel corso dello scorso anno devono essere inquadrati nel framework dell’IPD, evitando così che le loro voci inascoltate generino altra violenza. In secondo luogo, il governo dovrebbe beneficiare dell’expertise di UNDP (agenzia ONU che coordina i programmi di sviluppo) per accelerare i tempi di disarmo e reintegrazione degli ex combattenti nella vita civile del paese. Ad esempio, molti di essi potrebbero rivelarsi una risorsa per l’esercito e le forze di polizia nazionali. Sul fronte umanitario, la RCA potrebbe diventare il banco di prova della Peacebuilding Commission delle Nazioni Unite. Quest’ultima potrebbe fungere da arbitro imparziale per i problemi di coordinamento che attualmente rendono impossibile una gestione fluida degli aiuti internazionali. La situazione è grave, poiché la cattiva amministrazione dei fondi donati alla RCA ha creato immense sacche di corruzione.Solo dopo aver sanato queste ferite sarà possibile parlare di elezioni free and fair a Bangui. Magari non avranno luogo nell’aprile 2010, come annunciato, ma forse sarà meglio così.  

Anna Bulzomi 3 febbraio 2010 [email protected]

Il ritorno di Osama

Lo scorso venerdì Bin Laden ha cambiato argomenti: ambiente prima di tutto. Cosa c’è dietro tale strategia? E gli Stati Uniti sono gli unici destinatari del messaggio di accuse?

L’AUDIO DEL 29 GENNAIO – L’ultimo audio-messaggio attribuito a Osama Bin Laden, ammesso che si tratti proprio di lui e ammesso che sia ancora vivo chissà dove, lascia intendere un’attenzione molto acuta all’interesse di alcune fette di popolazione e di società civile, che segna il passo dell’invettiva anti-statunitense fondata sui grandi temi della geopolitica futura: ambiente e finanza. Il leader di al-Qaeda, o di quella nebulosa che ne rimane dopo gli attacchi dell’11 settembre e la successiva guerra globale al terrorismo iniziata in seguito, si concentra infatti proprio su queste due tematiche per portare l’attenzione internazionale ai presunti crimini statunitensi. 

 

BIN LADEN ECOLOGISTA – Prima di tutto l’ambiente. Un Osama Bin Laden improvvisatosi portatore e difensore dei diritti ambientali e dell’ecologismo, ha duramente attaccato Washington in quanto responsabile, insieme alle altre “grandi nazioni”, dei cambiamenti climatici che stanno sconvolgendo il nostro pianeta e potrebbero causare gravi danni a livello socio-economico, così come vere e proprie aree di crisi e conflitto. In particolare, secondo le accuse di Bin Laden gli Stati Uniti, soprattutto l’ex Presidente George W. Bush, porterebbero su di loro il peso di non aver ratificato l’accordo contro i cambiamenti climatici di Kyoto. Cosa vuol dire questo? Per la maggior parte degli ascoltatori occidentali dell’audio-messaggio ben poco. Suscita quasi ilarità e, allo stesso temo appare un tentativo piuttosto goffo, quello di Bin Laden, nella speranza di poter portare qualche adepto in più alla propria causa. In realtà, però, non è tutto così scontato per le persone cui probabilmente questo messaggio è davvero rivolto. Siamo sicuri che tra i deserti della penisola araba distrutti dalla siccità e in cui le informazioni arrivano con il contagocce, oppure nelle periferie del mondo dove la qualità della vita è sempre più bassa anche a causa dell’inquinamento e dl surriscaldamento del pianeta, queste parole non riescano a produrre un minimo effetto? Bin Laden sembra dunque arrampicarsi sugli specchi, improvvisandosi “verde”, ma la realtà è ben diversa: potrebbero esservi persone direttamente coinvolte già adesso dai cambiamenti climatici, che avrebbero voglia di vendicarsi contro il “nemico” statunitense, sotto la spinta dei messaggi di incitazione del leader qaedista. Una strategia ben mirata, dunque e opportunistica al punto giusto, nella misura in cui mira a far breccia nei cuori e nelle menti di chi potrebbe non avere elementi a sufficienza per poter giudicare da solo la verità o, se non altro, la reale funzionalità del messaggio.

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CHOMSKY E LA FINE DEL DOLLARO – E poi vi è il secondo attacco agli Stati Uniti, stavolta mirato a colpire il sistema monetario internazionale, quindi la base stessa dell’attuale sistema capitalistico mondiale: la preminenza del dollaro come moneta negli scambi internazionali. Secondo le parole attribuite a Bin Laden dall’emittente qatarina al-Jazeera, “[…]Aveva ragione Chomsky quando ha sottolineato la somiglianza tra le politiche americane e l'approccio delle gang della mafia. Sono loro i veri terroristi e per questo dobbiamo smettere di commerciare in dollari e sbarazzarcene. So che ci sarebbero ripercussioni enormi, ma è il solo mezzo per liberare l'umanità dello schiavismo dell'America e dei suoi alleati “. Ecco dunque che, dopo essere sceso nel campo dell’ecologismo, Bin Laden si scaglia contro il dollaro, auspicando una rivoluzione finanziaria e monetaria che possa estromettere gli Stati Uniti dal sistema mondiale. Anche qui, risultano interessanti almeno due particolari: uno è che, a differenza di altri movimenti terroristici e anti-statunitensi, il capo di al-Qaeda non critichi esplicitamente il sistema capitalistico in quanto tale, ma semplicemente il suo monopolio da parte della moneta statunitense. Come dire: basta cambiare attori, ma non la trama. Del resto, senza i trasferimenti di flussi di denaro a livello transnazionale e senza la libera circolazione del capitale e i frutti degli investimenti, la stessa al-Qaeda non avrebbe mai potuto esistere. Secondo aspetto: per criticare il modo di condurre gli affari statunitense, Bin Laden cita addirittura il noto linguista e sociologo statunitense Noam Chomsky: vero e proprio punto di riferimento del mondo “disobbediente” e di certi ambienti radicali della sinistra non solo statunitense, ma mondiale. Perché? Anche qui, probabilmente ad uso interno, per i propri possibili seguaci. In altre parole, il fatto che uno stesso intellettuale statunitense, rispettato professore al MIT di Boston, critichi così duramente il proprio governo, aggiungerebbe legittimità e veridicità alle accuse di al-Qaeda. Per niente stupido o ingenuo, dunque. 

 

E LA CINA? – Ciò che resta da chiedersi è: ma siamo sicuri che Bin Laden non abbia sbagliato bersaglio? In un mondo non più unipolare, ma in cui potrebbe ridefinirsi una sorta di duopolio (il famoso G-2) con la Cina da un lato e gli Stati Uniti dall’altro, sembra proprio Pechino destinata a sostituire Washington nella leadership dei “mali mondiali”, come definiti da Bin Laden. La Cina, soprattutto in prospettiva, è sicuramente un Paese molto più inquinante degli USA e, per ciò che concerne la finanza globale, il suo potere deriva proprio dal fatto di possedere più titoli del tesoro statunitensi (dunque, riserve di dollari), di qualsiasi altro Paese al mondo. A Pechino non sarebbero ben viste, e anzi ne ostacolerebbero di molto il progresso attuale, né la riduzione dell’emissione di gas serra, né tantomeno la fine del dollaro come moneta internazionale per eccellenza. Che Osama debba aggiustare il tiro, nel prossimo messaggio? 

One year later

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L’appeal e il mito appaiono sbiaditi. Ma al di là dell’immagine, economia, riforma sanitaria, Afghanistan sono partite cruciali su cui il primo anniversario di Obama segna già una sorta di spartiacque. Ecco il punto sull’anno trascorso, e sull’anno che verrà

IERI – Era il 20 gennaio di un anno fa, il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti d’America giurava davanti al Congresso e i milioni di elettori che lo avevano scelto guardavano quelle immagini trasmesse in mondovisione con fiducia. Con quella sensazione di gioia che può portare nel cuore colui che vede avvicinarsi il momento di un cambiamento radicale, capace di avviare un intero paese verso un futuro migliore dopo anni di difficoltà e lutti. Speravano nel cambiamento, che quel Senatore dell’Illinois, così giovane eppur così convincente, aveva loro promesso durante i lunghi mesi della campagna elettorale per le presidenziali. Speravano che ora, divenuto infine presidente, si sarebbe rivelato in grado di risollevare le sorti di un paese messo in ginocchio da una crisi economica profonda, un paese impegnato a combattere contro terroristi e fanatici praticamente in tutto il mondo.

 

OGGI – A trecentosessantacinque giorni da quella mattina, Barack Obama sembra aver perso gran parte dell’appeal presso gli elettori che lo hanno sostenuto. Quegli indecisi che hanno scelto di tornare a votare per le elezioni presidenziali dopo anni di astensionismo, o di iscriversi alle liste elettorali per la prima volta nella loro vita. La loro rabbia traspare dai sondaggi, dalle critiche all’azione del presidente che ogni giorno invadono i blog, dai risultati per il rinnovo del Congresso alle elezioni di mid-term. Il Partito Democratico ha perso in Senato il seggio “blindato” del Massachusetts, occupato per 46 anni da Ted Kennedy e conquistato ora da un Repubblicano che potrebbe bloccare la riforma sanitaria, rendendo inutili gli sforzi affrontati finora dalla Casa Bianca. La rabbia traspare dalle parole di coloro che, intervistati dai maggiori quotidiani, chiedono al presidente di creare le possibilità, affinché possano trovare un lavoro. Perché la riforma sanitaria è inutile se non si ha di che campare, per non dover pensare di arruolarsi e magari di dover partire in missione. Di trovarsi a combattere a fianco di quei 100.000 soldati statunitensi già schierati in Iraq o di quei 70,000, che diverranno 100.000 entro l’estate, impegnati in Afghanistan.

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DOMANI – Gli Stati Uniti restano l’unica vera potenza militare globale. Oltre alle truppe impegnate in Iraq ed Afghanistan l’esercito statunitense è presente in Europa, 80.000 unità, nella regione del Pacifico, più di 70.000 unità, e nell’area africana-mediorientale, con circa 12.000 unità. Nella regione dove si concentra maggiormente lo sforzo statunitense, la tattica della Casa Bianca è apparsa chiara: rinforzare la componente militare della lotta in Afghanistan ma incrementare le attività in Pakistan, nei cui cieli i droni hanno effettuato 53 missioni nel 2009 rispetto alle 36 dell’anno precedente. Proseguire la lotta al terrorismo ha però dei costi: la spesa per il Pentagono crescerà nel prossimo biennio fino a superare la soglia dei 700 miliardi di dollari, una cifra che forse l’elettore medio non riesce neanche ad immaginarsi.

Così come astronomico era l’ammontare di aiuti contenuti nel pacchetto legislativo a sostegno dell’economia, che andrà ad allargare ancor di più quel buco nero che sembra essere il debito pubblico a stelle e strisce. Come spiegare a quell’ex elettore indeciso, ora divenuto elettore infuriato, che l’estenuante lavoro fatto finora alla Casa Bianca inizierà a dare risultati nel medio periodo? Come far capire a quella classe media colpita duramente dalla crisi che ci vorrà del tempo per vedere i dati economici tornare a migliorare? Come spiegare l’urgenza di una riforma sanitaria che in molti considerano inutile, se non dannosa, perché distrae la Casa Bianca da quelli che sono considerati i veri problemi? Queste le domande a cui Obama dovrà rispondere con una certa urgenza, perché in molti si recheranno ai seggi elettorali nei prossimi mesi e, da quel voto, potrebbe dipendere il futuro alla Casa Bianca del Senatore afroamericano che ha conquistato gli elettori statunitensi dicendo loro: “Change, we can”.

 

Simone Comi

22 gennaio 2010

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Riforma sanitaria e politica economica di Obama

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Il Presidente USA è ormai al potere da un anno: è possibile trarre un primo bilancio del suo operato. Vediamo che ne pensa Moreno Bertoldi, della Direzione Generale Affari Economici e Finanziari dell’UE

LA SITUAZIONE USA – Mercoledì 16 dicembre, in un incontro organizzato dall’associazione “Libertà Eguale”, Moreno Bertoldi, Capo Unità alla Commissione Europea – Direzione Generale degli Affari Economici e Finanziari -, ha tracciato un personale bilancio sulla politica economica di Obama nel suo primo anno di presidenza. Le valutazioni dell’economista muovono da alcune considerazioni riguardanti la drammatica congiuntura economica che Obama si è trovato suo malgrado ad affrontare, avendo assunto la carica solo tre mesi dopo lo scoppio della crisi del subprime, crisi che Bertoldi non fatica a definire: “la più grande crisi dalla grande depressione”. In una situazione così difficile Obama si è trovato obbligato ad  approntare “una svolta drammatica rispetto alla politica economica degli Stati Uniti degli ultimi otto anni, ma anche rispetto a Clinton, e se si vuole, un cambio completo del paradigma che si è affermato dai tempi di Reagan”. Un paradigma che si fondava su concetti quali la deregolamentazione (secondo il motto reaganiano per cui “lo stato non è la soluzione, è il problema”), la concorrenza, l’innovazione, la globalizzazione. Questo modello ha garantito agli Usa tassi di crescita dell’economia tra i più alti al mondo: “l’economia americana era quella che, nonostante fosse la prima al mondo, riusciva ancora per il dinamismo a crescere più di Unione Europea e Giappone e a condurre il mondo a una crescita, probabilmente con il tasso più alto della storia, + 5% a livello mondiale tra il 2004-2006. E questo aveva condotto all’uscita dalla povertà centinaia di migliaia di persone, particolarmente in India e in Cina. (…) il modello americano sembrava il modello vincente.”

LUCI MA ANCHE OMBRE – Come poi la crisi ha dimostrato, la grande dinamicità del sistema economico americano era basato però su alcuni squilibri, che Bertoldi ha individuato in particolare in questi elementi: un contratto sociale basato sul debito, un tasso di risparmio vicino allo zero, un’eccessiva facilità dell’erogazione dei prestiti che serviva a sostenere i consumi in particolar modo nel settore immobiliare, cosa che poi ha portato alla crescita e successiva esplosione delle bolle speculative in questo settore, un deficit pubblico in costante crescita (qui l’esperto ha fatto notare come sarebbe importante per valutare efficacemente questo indice considerare non solo il debito pubblico federale, come in America si tende a fare, ma anche quello degli stati  e delle municipalità, che risultano i veri responsabili di questo importante deficit). Inoltre questo sistema ha favorito una certa disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Bertoldi ha sottolineato in particolare come “il rapporto tra la ricchezza media di una famiglia bianca e di una afroamericana è circa di 9 a 1.” La recente crisi ha mostrato impietosamente le debolezze del sistema economico statunitense. Si aggiunga che un tasso di disoccupazione del 10% ha per una nazione con un welfare poco sviluppato come gli Stati Uniti un effetto devastante, a confronto con gli stati europei in cui vige un sistema di sussidi alla disoccupazione e in generale di sostegno economico dello stato. Obama si trova quindi a dover affrontare una situazione economica assai difficile.

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CHE FA BARACK? – Tra le prime mosse di Obama, Bertoldi giudica in maniera positiva lo stimolo fiscale, che incomincia ora a dare i suoi frutti, e prevede che presto ne sarà varato un altro. L’economista sottolinea l’importanza del progetto obamiano di riforma sanitaria, oltre che da un punto di vista sociale, da quello economico. Facendo riferimento a una serie molto significativa di dati forniti da diversi organismi internazionali, Bertoldi evidenzia come l’attuale sistema sanitario divori letteralmente una parte consistente delle risorse economiche del paese: “il tasso di crescita delle spese mediche ogni anno è superiore a quello del Pil (…) e in una proiezione, senza gli effetti della crisi, si vede come la crescita della spesa sanitaria rischi di assorbire tutto l’aumento del reddito delle famiglie americane nei prossimi trent’anni.” Una riforma dell’inefficiente (in termini pro capite la spesa sanitaria americana è il doppio della media OCSE, mentre la speranza di vita è inferiore a quella dei principali paesi avanzati) sistema sanitario rappresenta quindi un passo fondamentale per uscire dal momento difficile dell’economia americana, nonché il principale banco di prova per la nuova amministrazione in vista delle elezioni di mid-term del prossimo anno. Tuttavia, come noto, il progetto di riforma sta incontrando notevoli resistenze da parte delle lobbies dei medici, delle assicurazioni, oltre a una opposizione ideologica da parte soprattutto repubblicana (ma non solo). Se si pensa che per la riforma il presidente ha bisogno in Senato di una maggioranza qualificata (60 voti) che risulta al momento alquanto traballante, si capisce come questa battaglia politica stia impegnando una buona parte delle risorse politiche dell’attuale amministrazione. La strategia del presidente su questo punto è molto più conciliante e pronta al compromesso, rispetto ad esempio a quella tratteggiata  in campagna elettorale da Hillary Clinton, come dimostra il comportamento tenuto nei confronti dei medici a cui è stato garantito che non ci saranno interventi sul costo delle loro prestazioni. Questo per assicurarsi l’appoggio della categoria, nonostante quella dei costi delle prestazioni sia un capitolo molto sostanzioso nelle ingenti spese sanitarie degli Usa. In questo modo evidentemente Obama rischia sì di portare a casa una riforma sanitaria, cosa fondamentale in termini elettorali, ma all’acqua di rose. Già l’opzione pubblica in ambito assicurativo è stata sacrificata sull’altare della convenienza politica, suscitando una forte delusione tra gli obamiani della prima ora.

UN PO'DI PAZIENZA – Tenendo conto dell’importanza di una riforma radicale al fine di riavviare un sistema economico in affanno e del fatto che in  questa battaglia sulla sanità Washington sta spendendo notevoli risorse politiche che potrebbero risultare utili per sostenere altre importanti e approfondite riforme economiche (come una nuova strategia per il tasso di cambio, per il consolidamento fiscale, una riforma della tassazione che favorisca il risparmio e ridimensioni i consumi, lo sviluppo di un nuovo modello di business post-crisi e di una alternativa al modello di contratto sociale basato sul debito degli ultimi vent’anni) questo modo di procedere potrebbe  risultare nel lungo periodo controproducente. Bertoldi ricorda però come sia prematuro trarre conclusioni definitive, a neanche un anno dall’insediamento di Obama alla Casa Bianca: “Ci vorrà del tempo. L’emersione di un nuovo modello di crescita non è una cosa da un anno, non è una cosa da cinque anni (…) praticamente fino ad autunno la preoccupazione principale era evitare che la casa crollasse, non c’era tempo per molto altro. Adesso si sta cominciando a pensare a cosa facciamo dopo. Quale sarà il ruolo di un sistema finanziario che ha sostenuto un modello di crescita che non sarà più così? Dovrà essere più piccolo, abbiamo ridimensionato abbastanza, o possiamo pensare che possa essere ancora uno dei pilastri del sistema? Gli elementi mancanti è inevitabile che siano mancanti, ci vorrà del tempo.” 

Jacopo Marazia 22 dicembre 2009

Colpo di grazia

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Il terribile terremoto di ieri sera è l’ennesima tragedia che colpisce uno dei Paesi più poveri del mondo. I perché del fallimento della nazione caraibica

HAITI DEVASTATA – Nel tardo pomeriggio di ieri (quando in Italia era già notte), Haiti è stata devastata da un terribile terremoto. Un sisma, o meglio uno sciame sismico (ovvero una sequenza di scosse) di forte intensità, il cui epicentro è stato registrato a pochi chilometri dalla capitale Port-au-Prince, ha provocato una vera e propria tragedia portando alla distruzione della maggior parte degli edifici (anche alcuni istituzionali, come la sede delle Nazioni Unite) e facendo rimanere sotto le macerie migliaia di persone. Gli italiani presenti sull’isola, quasi tutti impegnati in organizzazioni internazionali e umanitarie, dovrebbero essere circa un centinaio, ma al momento non è ancora possibile stabilire se siano tutti al sicuro, così come non si può effettuare un bilancio delle vittime.

 

IN FONDO ALLE CLASSIFICHE – Haiti è situato nei Caraibi e fa parte geograficamente dell’isola di Hispaniola, occupata per l’altra metà dalla Repubblica Dominicana (dove il sisma pare sia stato avvertito senza particolari conseguenze). Si tratta dell’unico Stato indipendente situato nel continente americano di lingua francofona ed è anche il più arretrato di tutto il continente. Il reddito pro capite è il più basso in America (1300 dollari annui, meno di 2 dollari al giorno, il che pone Haiti sotto la soglia di povertà e nella fascia degli LDC, i Paesi meno sviluppati al mondo), ma anche gli indicatori sociali sono tra i peggiori nelle classifiche internazionali. L’analfabetismo è al 55%, la speranza di vita non supera i 50 anni e l’unica attività economica in grado di generare entrate, ovvero la produzione agricola (concentrata essenzialmente nello sfruttamento della canna da zucchero e della pianta del caffè), è ciclicamente funestata dal passaggio delle tempeste tropicali che devastano i raccolti.

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UN PAESE SENZA SPERANZA? – Insomma, Haiti non corrisponde in nulla all’immagine stereotipata del paradiso caraibico. Non si possono però attribuire le ragioni del suo sottosviluppo alla sfortuna, ma la situazione attuale è il frutto di un percorso storico ben preciso. Non è un caso, infatti, se in epoca coloniale Haiti era uno dei luoghi più prosperi del mondo. Ex colonia francese, la sua attuale composizione etnica (il 95% della popolazione è di origine africana, mentre il restante 5% appartiene all’élite creola) è il retaggio dello schiavismo che portò dalle coste dell’Africa orientale manodopera a costo zero per lavorare nelle piantagioni. Haiti finì, come tutto il resto delle nazioni americane, sotto la “tutela” degli Stati Uniti, che all’inizio del ‘900 imposero al piccolo Paese un’assoluta apertura commerciale dopo averlo occupato. Tale strategia, tuttavia, non ha mai funzionato, in quanto non erano mai state gettate le basi per uno sviluppo reale e solido dell’economia locale, presupposto essenziale prima di eliminare barriere e restrizioni ai traffici internazionali.

L’instabilità economica ha fatto quindi il paio con un’endemica instabilità politica: il Paese, dopo essere stato in mano per decenni alla dittatura della dinastia dei Duvalier, è stato governato dall’ex sacerdote Jean Bertrand-Aristide. Nel 2004, però, in seguito ad una rivolta di militari ribelli che ha scatenato una guerra civile, il Paese è sprofondato nuovamente nel caos e da allora è attiva sull’isola la missione di pace MINUSTAH, sotto l’egida delle Nazioni Unite. Questo tuttavia non è bastato a restituire stabilità alle istituzioni, dato che si succedono esecutivi che non appaiono in grado di prendere saldamente in mano le redini del Paese. Parlare di prospettive per Haiti è francamente difficile, a maggior ragione dopo questo terremoto che si configura come un vero e proprio “colpo di grazia”. Haiti ha oggi le caratteristiche di un “failed State”, penalizzato anche a livello regionale dalla eterogeneità culturale e linguistica rispetto al resto dell’America Latina che costituisce uno dei tanti fattori di emarginazione dai progetti di integrazione. Un circolo vizioso che non sembra purtroppo offrire grosse speranze, almeno nel medio periodo, alla popolazione di questa infelice (mezza)isola caraibica.

 

Davide Tentori

13 gennaio 2010

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La guerra di Hugo

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Il leader venezuelano denuncia l’imminenza di un’aggressione da parte degli Stati Uniti proveniente dalle basi caraibiche. Cosa c’è di vero? Di sicuro, la necessità di nascondere le difficoltà interne

NATO VS VENEZUELA?L’Olanda starebbe per invadere il Venezuela. Non è una partita a Risiko, bensì è lo scenario che è stato denunciato dal presidente della Repubblica Bolivariana, Hugo Chávez. Alcuni giorni fa, infatti, il leader sudamericano ha parlato pubblicamente dell’esistenza di un piano per aggredire il proprio Paese da parte degli Stati Uniti, con la complicità dell’Olanda e della Colombia. Cosa c’entra la nazione europea in tutto ciò? È presto detto: L’Aja possiede, al pari della Francia (che detiene l’isola di Guadalupe), ancora territori oltremare nei Caraibi, retaggio del suo impero coloniale. Nel caso specifico si tratta delle isole di Curazao e di Aruba, situate a poche miglia dalle coste venezuelane e sulle quali da pochi anni sono presenti delle basi statunitensi. Secondo il Ministero della Difesa venezuelano, nei primi giorni di dicembre dei “droni” (aerei senza pilota) avrebbero invaso lo spazio aereo nazionale allo scopo di effettuare azioni di spionaggio in vista di una fantomatica invasione volta a rovesciare il regime di Chávez. Un complotto che avverrebbe in combutta non solo con l’Olanda, dal cui territorio sarebbero partite le incursioni aeree, ma anche con la Colombia, acerrima nemica che sarebbe già pronta a fornire un finto “casus belli” inscenando la presenza di un accampamento di guerriglieri ostili a Bogotá situato in territorio venezuelano.

 

RITORNO ALLA REALTA’ – Cerchiamo ora di tornare alla realtà degli eventi. È vero che le isole di Aruba e Curazao ospitano delle installazioni militari statunitensi e che da lì decollano aerei senza pilota allo scopo di monitorare le rotte del narcotraffico (Maracaibo è uno dei porti principali per lo smercio della cocaina, diretta soprattutto negli Stati Uniti ma anche in Europa), così come è vero che in un’occasione, ammessa da un portavoce del SOUTHCOM (il Comando del Dipartimento della Difesa Usa responsabile per l’America Latina), Stephen Lucas, un drone americano ha violato per errore lo spazio aereo venezuelano. Tuttavia, questa fattispecie sembra essersi verificata ben sette mesi fa, mentre degli episodi recenti non è giunta alcuna conferma né dal Pentagono, né dal Ministro della Difesa olandese, Eimert van Middelkoop. Da qui a sostenere l’imminenza di un attacco da parte degli Stati Uniti, che tra l’altro coinvolgerebbe persino un Paese europeo membro della Nato, la distanza sembra essere però ampia. Anche se Washington avesse interesse a rovesciare il regime chavista, (dopo il tentativo fallito di golpe nel 2002, nel quale pare che la CIA avesse una certa dose di responsabilità), non sembra questo il momento più indicato per farlo. Le priorità della Casa Bianca in politica estera sono ben altre, nel breve e nel medio periodo, e sono rivolte essenzialmente alla lotta contro il terrorismo internazionale, a maggior ragione dopo i recenti “grattacapi” che sono giunti per Obama dallo Yemen. Se a questo si aggiunge il pressoché totale disinteresse dell’ attuale amministrazione USA per le vicende latinoamericane – ad eccezione del maldestro tentativo di mediazione in Honduras – si può concludere che la presa di Caracas non è proprio in cima alla lista delle priorità del leader Democratico.

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IMPLICAZIONI – Queste considerazioni non devono comunque far pensare che Washington non abbia interesse a tenere sotto controllo la zona. Come già detto, per il mar dei Caraibi transitano enormi quantità di droga e potrebbero anche essere presenti traffici illeciti di materiale adatto alla produzione di energia nucleare, come l’uranio. L’alleanza sempre più stretta tra Venezuela e Iran potrebbe indurre la Casa Bianca a vigilare con maggior attenzione, così come la presenza, poco distante, di navi della Marina russa. Mosca, sempre in ragione dell’amicizia con Caracas, è da qualche tempo riapparsa in America Latina allo scopo di effettuare esercitazioni congiunte con la Marina venezuelana. È presumibile perciò ipotizzare che tra le varie potenze presenti nella regione ci siano reciprochi controlli, più o meno leciti.

Le ragioni di quest’ultima boutade di Chávez risiedono però essenzialmente nel continuare a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi che sta attraversando il Venezuela. Il Paese ha concluso il 2009 in recessione con un’inflazione al 30% e anche i primi giorni del 2010 sono stati caratterizzati da episodi di razionamento di acqua ed energia elettrica, il che sembra un paradosso in una nazione che ha nelle risorse energetiche la fonte principale della propria ricchezza.

Il caudillo sudamericano dovrebbe però agire con più lungimiranza: attaccare l’Olanda significa anche, in una certa misura, prendersela con la Nato e con l’Unione Europea. Questo potrebbe rivelarsi controproducente in vista del Vertice UE – America Latina, in programma a maggio a Madrid, nel quale si discuterà degli accordi commerciali con i Paesi della regione. A chi giova tirare troppo la corda?

 

Davide Tentori

7 gennaio 2010

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Al riparo dalle tigri

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Si sono tenute nell’isola dell’Oceano Indiano le prime elezioni libere dallo spettro dei ribelli Tamil, dopo 25 anni di guerra civile. L’esito delle urne, tuttavia, non ha rivelato grosse sorprese

CEYLON AL VOTO – Le elezioni presidenziali del 26 gennaio in Sri Lanka si sono concluse con una vittoria netta di Mahinda Rajapaksa, già presidente dal 2005, che ha ottenuto il 57,9% dei voti contro il 40% del suo rivale, l’ex comandante dell’esercito in pensione Sarath Fonseka. Un risultato che non sorprende, nonostante l’inaspettato margine di vittoria. 

Alla vigilia dell’appuntamento elettorale, il primo che si svolge senza lo sfondo della guerra civile tra l’esercito e i ribelli delle Tigri Tamil (LTTE), la vittoria sembrava dipendere proprio dal voto della minoranza tamil. L’elettorato singalese, infatti, appariva diviso tra i due candidati che, essendo stati entrambi protagonisti dell’offensiva finale del 2009 contro i ribelli, condividevano il merito di aver messo fino alla guerra civile che sconvolgeva il paese da più di trent’anni. Proprio tale successo aveva spinto il presidente ad anticipare le elezioni convinto di poter sfruttare la propria popolarità per governare altri sei anni. La stessa logica all’origine della candidatura del generale Fonseka.

 

CHE HANNO FATTO I TAMIL? – L’elettorato Tamil, quindi, ha dovuto scegliere, paradossalmente, tra due candidati i cui nomi sono associati alle migliaia di vittime civili tamil delle ultime fasi della guerra. Il sostegno dimostrato a Fonseka da parte di Sampahthan, leader dell’Alleanza Nazionale Tamil (TNA), formazione considerata braccio politico degli indipendentisti del LTTE, sembrava spostare l’ago della bilancia verso il generale. Le promesse fatte da Fonseka per porre fine alla marginalizzazione della minoranza ha spinto la TNA a preferirlo all’ex-presidente. Oltre alla carta Tamil, a favore del generale sembrava giocare la volontà di cambiamento, tanto della minoranza, quanto di quella parte della maggioranza stanca delle posizioni ultranazionaliste di Rajapaksa.

Le cose, però, sono andate diversamente e l’ex presidente ha vinto con un ampio margine sul generale Fonseka. Tale risultato si spiega in primo luogo con la decisione dei Tamil di disertare le urne; secondo alcuni sondaggi, infatti, avrebbe votato solo il 30% della minoranza. Le promesse di Fonseka non sono state sufficienti a convincere l’elettorato Tamil del suo reale impegno e della sua credibilità. A ciò si è aggiunta la confusione causata dalla campagna lanciata dalla TV di stato contro il generale lo stesso giorno delle elezioni. Secondo i media, la candidatura di Fonseka non era legittima perché era non era risultato iscritto alle liste elettorali, accuse poi smentite dalla Commissione Elettorale.

 

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I PROBLEMI RIMANGONO – Nonostante le denuncie di Fonseka di brogli e irregolarità del suo avversario durante la campagna elettorale, il successo di Rajapaksa appare legittimo. Secondo gli osservatori, fatta eccezione per alcuni incidenti nel nord del paese, le elezioni si sono svolte in modo regolare. La sua vittoria, però, non è stata ottenuta né grazie al voto Tamil, né grazie a quello musulmano. La società rimane profondamente divisa e il presidente non potrà evitare di portare avanti il processo di riconciliazione nazionale. Il ritorno alla stabilità politica e l’instaurarsi di una reale pace interna, infatti, sono i prerequisiti essenziali per la ripresa dello sviluppo economico del paese. Per raggiungere tale obiettivo tra gli impegni post-guerra più urgenti appaiono il ricollocamento dei Tamil, la ricostruzione del nord del paese e la questione degli abusi e delle violazioni dei diritti umani avvenuti durante gli scontri. Il coinvolgimento delle minoranze in tale processo potrebbe permettere al paese di avviarsi verso la ricostruzione. Le prospettive economiche e sociali dei prossimi mesi dipenderanno dall’impegno e dalle scelte del nuovo presidente, anche in vista delle elezioni parlamentari di aprile.

                                                  

Valentina Origoni

29 gennaio 2010

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Gazprom nation- parte 1

Uno sguardo verso la Russia, che cerca di riproporsi come potenza geopolitica, grazie soprattutto alla sua immensa dotazione di gas naturale Ecco, nella prima parte dell’intervista al giornalista Stefano Grazioli, le implicazioni di questo fenomeno

Stefano Grazioli è nato a Sondrio nel 1969. Ha studiato a Berlino e Milano, ha lavorato in Germania per media italiani e tedeschi (Deutsche Welle), prima di trasferirsi in Austria. A Vienna ha diretto tra l'altro la redazione online del quotidiano Kurier fino al 2002. Dal 2003 vive tra Bonn, Sondrio e Mosca lavorando come autore freelance per testate svizzere e italiane, occupandosi soprattutto di Russia e Asia Centrale. Recentemente ha dato alle stampe “Gazprom nation”, in cui racconta in maniera approfondita e rigorosa la Russia di Putin e l’asia centrale post sovietica del nuovo “great game”, attraverso la sua esperienza di corrispondente e le parole dei protagonisti.

Al “Caffè Geopolitico” Stefano ha concesso una luna intervista. Nella prima parte il giornalista risponde ad alcune domande sulla situazione interna della Russia di oggi.

A distanza di un anno e mezzo dall’elezione di Medvedev e dal passaggio di Putin al ruolo di primo ministro, cosa si può concludere rispetto al nuovo equilibrio di potere in Russia?

 

Medvedev è al Cremlino perché ce l’ha messo Putin. Fanno parte della stessa squadra e si dividono benissimo i ruoli di good and bad cop sulla scena interna e quella internazionale. Naturalmente ognuno ha i suoi favoriti e i suoi sponsor di riferimento, ma in definitiva si tratta di gruppi destinati a trovare compromessi, non a distruggersi a vicenda. La torta basta per tutti.”

 

Nel suo libro si fa spesso riferimento ai doppi standard, concetto che usa per definire l’atteggiamento dell’occidente nei confronti della Russia, può spiegarne il senso? E’ possibile in Russia un sistema democratico in linea con gli standard occidentali o la spartizione del potere tra civiliki (uomini di potere scelti da Medvedev tra gli ex compagni dell'università di S.Pietroburgo diventati poi dirigenti di Gazprom e delle sue filiali) e siloviki (uomini di potere cooptati da Putin dalle file del KGB) costituisce il modello più efficiente possibile?

 

“Si prendano gli esempi della crisi del gas con l’Ucraina o le vicende nel Caucaso. Per il primo il problema non è quello dell’affidabilità di Mosca, ma quello dei Paesi di transito. Per il secondo: Saakashvili è stato presentato in Occidente come l’alfiere della democrazia, i risultati si sono visti, confermati addirittura dalla commissione Tagliavini. L’8 agosto 2008 il presidente georgiano era in diretta televisiva con tutto il mondo spergiurando di essere stato assalito, poi si è visto che l’attacco in grande stile a Tskhinvali l’aveva ordinato lui. In Azerbaijan il clan Aliyev passa il potere da padre in figlio, ma i predicozzi si fanno a Putin. La Russia viene da settant’anni di comunismo e dieci di anarchia eltsiniana, se nella culla della democrazia gli esempi delle famiglie Clinton e Bush (con magari Jeb fra un po’ in arrivo) potrebbero far riflettere, come si può pretendere che a Mosca regni la vera democrazia? La Russia è in una fase di transizione verso un modello particolare che dovrà conciliare esigenze diverse, pena l’implosione dello stato”.

 

Non ritiene che queste figure civiliki e siloviki  rappresentino una forma riveduta di apparaticki, tra cui la fedeltà verso il partito ha ceduto il posto alla fedeltà verso il presidente? In definitiva il modello funzionante in Russia per distribuire il potere mi appare molto simile, mi sembra anche sotto gli oligarchi, a quello dell'Urss, come forse dell'impero zarista: una specie di casta di burocrati e funzionari, chiusa e auto referenziale. Se così fosse non sarebbe questa l'immagine di una società immobile?  

 

“Certo, ma è un modello comune. Il ricambio delle élites anche nelle democrazie occidentali non mi sembra altamente dinamico. Il potere ovunque è distribuito tra pochi e quasi sempre gli stessi. Spesso la democrazia è un’illusione, un po’ come la libertà di stampa. Anche a casa nostra.”

 

La Russia per estensione e disponibilità di risorse è naturalmente portata ad occupare un ruolo predominante nell’economia globale. Come si può considerare il sistema economico russo in termini di efficienza?

 

“È un sistema ancora troppo legato alle risorse naturali, che necessita di ammodernamento e innovazione. Al Cremlino ne sono consapevoli. Ma non bastano dieci anni per ricostruire e rendere efficiente un sistema nazionale in un mondo globalizzato. Rispetto al periodo di Eltsin si è fatto molto, ma molto deve essere ancora fatto”.

 

Dopo i turbolenti anni seguiti al crollo dell’Urss e alla guerra tra oligarchi e Putin si è sviluppata in Russia una classe imprenditoriale moderna non direttamente collegabile al potere politico?

 

“Nel 1995 Anders Aslund, uno dei consiglieri americani di Eltsin, ha scritto un libro intitolato “Come la Russia è diventata un’economia di mercato” che ha annunciato tempi che non sono ancora arrivati, quasi tre lustri dopo. Il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz ha sottolineato gli errori del Fmi nel gestire la crisi russa degli anni Novanta. Ecco, se l’Occidente si fosse preoccupato con maggior cura della Russia nel passato, invece di descrivere meraviglie democratiche e progressi che non esistevano, allora la situazione sarebbe forse diversa. La realtà è che potere politico e potere economico sono strettamente legati. Ma non conosco Paese dove essi non lo siano. Certo, vi sono forme diverse, ma in Russia, come in tutto lo spazio postsovietico le forme di collegamento sono visibili a tutti, nel senso che gli oligarchi o come dir si voglia siedono direttamente nei parlamenti e gestiscono le cose politiche in maniera molto diretta. Altrove, in Occidente, il compito dei poteri economici di influire sulla politica è gestito dalle lobbie. Il turbocapitalismo degli anni Novanta ha creato in Russia, Ucraina e via dicendo, un sistema senza questa mediazione”.

 

E’ un dato di fatto che buona parte della crescita economica della Russia negli ultimi anni sia stata sostenuta dal mercato energetico globale. Si è verificata parallelamente la crescita di un mercato interno?

 

“Undici anni fa la classe media che si stava formando e poteva costituire la base per alimentare il mercato interno è stata spazzata via dal default. Sotto Putin è ritornata, si è allargata ed è ora la principale fruitrice di un mercato di servizi e commerciale slegato da quello delle risorse energetiche. La piccola e la media industria stanno crescendo (bastonate dalla crisi, come ovunque), ma il trend è chiaro. E soprattutto necessario, nel senso che se la Russia vuole sopravvivere ha bisogno di diversificare la propria economia. I segnali sono positivi”.

 

In una congiuntura per molti versi favorevole a Mosca, la Russia ha un problema non trascurabile: una costante decrescita della popolazione. Secondo l’Osce la Russia tra i paesi facenti parte dell’organizzazione è quella con il trend maggiormente negativo. Come sta reagendo l’establishment russo?

 

“Insieme con la corruzione, il problema demografico è la grande piaga della Russia d’oggi. La politica non sta facendo molto, se con alcuni tentativi velleitari ed estemporanei. Manca una visione sul lungo periodo. Il crollo del comunismo ha portato all’emigrazione (Israele e altrove) e soprattutto ai deficit del sistema sociale e sanitario. Insomma si muore prima e si fanno meno figli. Per il Paese più vasto del mondo questo è un vero dramma. Considerando che alle porte i cinesi spingono. Anzi, molti sono già dentro”.

 

Jacopo Marazia

11 novembre 2009

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Gazprom nation- parte 2

Nella seconda parte dell’intervista al giornalista Stefano Grazioli, in evidenza c’è il ruolo geopolitico della Russia, la cui rinnovata potenza trae le basi dalla grande ricchezza in termini di risorse energetiche

Ecco la  seconda parte dell’intervista (Cfr. Gazprom Nation) al giornalista Stefano Grazioli, autore freelance per testate svizzere e italiane, occupandosi soprattutto di Russia e Asia Centrale e che recentemente ha dato alle stampe “Gazprom nation”, in cui racconta in maniera approfondita e rigorosa la Russia di Putin e l’Asia centrale post sovietica del nuovo “great game”, attraverso la sua esperienza di corrispondente e le parole dei protagonisti. Dopo aver parlato dell’economia, ora le domande vertono sul ruolo di Mosca sulla scena internazionale.

I rapporti tra UE e Russia nel mercato energetico si basano oggi su una mutua dipendenza. Un eventuale inserimento della Cina rischierebbe di mettere in crisi questo equilibrio?

 

“Innanzitutto a molti non è chiaro che la dipendenza tra UE e Russia sia simmetrica. Bruxelles ha bisogno di Mosca e viceversa, nel senso che se l’Europa non può fare a meno del gas russo, la Russia ha bisogno della tecnologia occidentale e del mercato europeo. Al Cremlino non si possono bere il petrolio o lasciarlo in cantina a invecchiare. Messo questo in chiaro, è ovvio che la sete energetica della Cina dovrà in qualche modo essere soddisfatta: Pechino si sta già muovendo da tempo non solo verso la Russia, ma anche con i vicini dell’Asia centrale, dal Turkmenistan al Kazakistan. La sfida sulle risorse del Caspio è partita da un pezzo, anche se in Europa ce ne si sta accorgendo solo ora. Sperando che non sia troppo tardi. Personalmente sono convinto che sia intenzione del Cremlino non spostare troppo l’asse verso est, a Mosca sono molto pragmatici.” 

 

Oltre al ritiro del progetto di scudo missilistico vede altri segnali di un possibile nuovo corso nelle relazioni USA-Russia?

 

“I punti di attrito tra Washington e Mosca sono molto meno dei punti sui quali si può e si deve collaborare. La nuova guerra fredda non esiste: basta parlare di Iran, Afganistan, terrorismo internazionale, non proliferazione nucleare e si evidenziano grandi temi in cui Usa e Russia hanno interessi comuni. Molto dipende non tanto dal Cremlino, ma dalla Casa Bianca. Mosca non ha avuto e non ha molto spazio di gioco: nel decennio di Eltsin è rimasta passiva e immobile, sotto Putin ha ripreso un ruolo internazionale, ma quasi esclusivamente di reazione. Washington faceva una mossa, Mosca reagiva. In un futuro mondo multipolare, secondo la dottrina del Cremlino, gli Stati Uniti dovranno rinunciare al ruolo guida e bisognerà arrivare a una concertazione dove diversi attori agiscono se non all’unisono, almeno senza calpestarsi troppo i piedi.”  

 

I rapporti UE-Russia, oggi improntati a una realpolitik e fondati quasi esclusivamente sui reciproci interessi economici, non rischiano di minare la coesione interna dell’Unione, già di per sé labile, in particolare tra vecchi e nuovi membri?

 

“Non essendo l’UE coesa non c’è appunto nulla da minare. Piuttosto bisogna cercare le soluzioni per evitare il disfacimento: e qui l’asse trainante Berlino-Parigi ha molto da dire. L’Unione dovrà in qualche modo trasformarsi per non restare succube di se stessa e incapace di reagire alle sfide, non solo energetiche, del futuro. La via è ovviamente quella del compromesso e del pragmatismo. A soli vent’anni dalla caduta del Muro sarebbe assurdo pensare di avere un’Europa che parla a una voce sola, ma guardando quanta strada si è fatta si può capire come in realtà il nuovo cammino non sia certo più difficile del vecchio.” 

 

Gli stessi legami economici non rischiano di incrinare anche l’asse atlantico? Per fare un esempio concreto, pensiamo al caso dei recenti accordi siglati per il progetto South Stream, alternativo al progetto Nabucco, che sembra ad oggi segnare il passo.

 

“Non penso. Prendiamo il caso tedesco: la Germania è l’esempio di come si possano coltivare ottime relazioni, non solo economiche, sia con la Russia che con altri Paesi dello spazio postsovietico e restare solidi alleati degli Usa. Come si fa? Chiamiamola realpolitik, sano pragmatismo, buon senso. Si tratta insomma di trovare la via di mezzo. Su Berlino e Mosca pesavano fino a vent’anni fa le ombre del passato, oggi sono grandi partner non solo commerciali. E al Kanzleramt nessuno pensa certo di voltare le spalle alla Casa Bianca.”

 

Non crede che l’abitudine di Gazprom di assumere come sponsor per i suoi progetti importanti figure politiche occidentali come Schröder (ma risulta che anche Prodi abbia rifiutato un’offerta analoga) costituisca il tentativo di esportare un modello poco trasparente di commistione tra potere politico ed economico?

 

“Gazprom non è una filiale russa delle Dame di San Vincenzo. Fa business, vuole guadagnare e cerca le migliori connections. Mi risulta che lo stesso facciano Bp, Exxon, Eni, Gaz de France e tutti gli altri colossi energetici del mondo. Naturalmente fa rumore se l’ex cancelliere tedesco Schröder entra nel board di Northstream (che ricordo è metà russa e metà tedesca e lui ovviamente rappresenta gli interessi germanici), ma è strano che quando ad esempio Lord Robertson, ex segretario generale della Nato entra in quello di British Petroleum, nessuno dica niente. A Mosca in fatto di commistione tra potere politico ed economico non hanno inventato nulla, hanno solo preso esempio da quello che succede da altre parti. La forma è forse un po’ più grossolana, ma la sostanza è la stessa. O le varie sorelle sparse qua e là non hanno nulla a che spartire con il potere politico?” 

 

Il nuovo Great Game rende ancora più instabile una zona di per sé incandescente. Come evidenziato anche nel suo libro questa situazione è controproducente per tutte le superpotenze coinvolte, crede che questo porterà a un accordo tra esse sulla via energetica, in sostanza a un “raffreddamento” dello scontro?    

 

“È inevitabile. E andrà di pari passo con la necessità di fare ricorso in maniera sempre maggiore e ovunque a energie alternative.”

 

Negli anni precedenti si sono verificati una serie di cambi di regime sotto la spinta delle cosiddette "rivoluzioni colorate" nell'area di influenza russa. Questa spinta si è definitivamente esaurita? Cosa vuol dire questo: che lo scontro tra le sfere d'influenza americana e russa nell'area ex Urss si è risolta a favore di Mosca?

 

“Come detto prima: Mosca per una decina d’anni non ha potuto che assistere immobile all’espansione statunitense nello spazio post-sovietico. Le promesse fatte all’inizio degli anni novanta di non allargamento della Nato sono andate presto del dimenticatoio della Casa Bianca. Al Cremlino il rospo non è andato giù e dopo l’offensiva disastrosa dell’amministrazione Bush ora con Obama c’è una pausa di riflessione. La Russia con Putin è ritornata protagonista in Asia centrale, dove i legami e le vedute sono forti e comuni. La guerra nel Caucaso è stata un segnale che Washington doveva darsi una calmata. Ma la partita non è finita. Anche perché la Cina non sta certo a guardare.”

 

Jacopo Marazia

16 novembre 2009

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Se questo è un voto

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La lunga kermesse elettorale in Afghanistan si è conclusa, ma il risultato dei seggi non ha portato grandi cambiamenti: Karzai è nuovamente Presidente tra tante ambiguità, le Istituzioni rimangono deboli ed i Talebani si sono rafforzati. Tuttavia queste elezioni rappresentano una pietra miliare nella storia del Paese. Ecco perchè.

IL RISULTATO – Guardando ai dati delle elezioni da un punto di vista “occidentale”, abituato a standard democratici generalmente alti, le elezioni afghane potrebbero apparire come un fallimento degli sforzi militari e politici che la coalizione occidentale ha profuso dal 2001 ad oggi. Gli elementi che fanno sorgere dubbi sulla autorevolezza e sulla legittimità del voto non sono pochi, e non lasciano indifferenti: partecipazione popolare solo al 38%, procedure elettorali spesso poco chiare e solo parzialmente rispettate e, soprattutto, gravi frodi riscontrate a favore di un candidato, Hamid Karzai, che poi è risultato vincitore. La popolazione ha votato in un clima di violenza, che in diverse provincie del sud del Paese ha impedito il regolare svolgimento del voto ed il rapporto tra il popolo e le Istituzioni non è stato certo incentivato da un clima di costante incertezza e di debolezza decisionale.Una valutazione che si basasse solo su questi elementi non potrebbe che portare ad un risultato fortemente negativo, aumentando i dubbi circa l’efficacia della presenza occidentale nell’area.Se da una parte questo è certamente vero, lo dimostra anche la trepidazione americana e delle istituzioni internazionali nel cercare una nuova strategia per l’Afghanistan, dall’altra molti elementi portano a riflessioni di altro tenore.

ELEZIONI STORICHE? – Queste elezioni Presidenziali non saranno ricordate certo come il primo fulgido esempio di vita democratica nel Paese, e non serviranno a dimostrare che la democrazia è un valore esportabile con tutto il suo contorno istituzionale e legislativo. Restano però delle indicazioni importanti circa la possibilità che il germe democratico possa essere la scintilla per creare le basi della convivenza anche tra popoli, etnie e tradizioni profondamente diverse o divise. Ci sono infatti degli aspetti che non è possibile sottovalutare in un Paese che vive in guerra da decenni, nel quale convivono numerose etnie storicamente separate tra loro, in un’area su cui convergono gli interessi e la presenza di diverse potenze straniere, ed in cui la popolazione vive in condizioni di grave difficoltà economica.Ecco riassunti in 7 punti questi elementi.

1)       La corsa alla Presidenza, nella forma e nei fatti, non è stata una gara con un solo concorrente; Hamid Karzai, al potere dal 2001, ha dovuto affrontare un confronto difficile con più avversari. Ha vinto, tra frodi e dubbi, ma pur sfruttando una posizione di forza che ha potuto crearsi negli anni, ha dovuto competere e “concedere terreno” agli avversari.

2)       Si sono formate almeno due nuove coalizioni forti, quella di Karzai e quella di Abdullah, rappresentative di interessi diversi su tutto il territorio nazionale. Sebbene questi interessi e le personalità coinvolte nella contesa elettorale possano essere per certi aspetti censurabili, certo è stato necessario procedere a negoziati e sforzi politici e diplomatici non indifferenti.

3)       Sebbene non sia chiaro il ruolo che Abdullah e la sua coalizione potranno assumere da oggi in poi, questo gruppo può diventare una forza di opposizione politica importante, sia a livello Parlamentare che a livello sociale; una forza fino ad oggi inesistente nel Paese.

4)       Almeno un outsider è emerso dalla contesa, Ramazan Bashardost, candidato di etnia Hazara che ha raccolto circa il 13% dei voti conducendo una campagna elettorale modesta ma efficace, fatta di contatto con la popolazione e di posizioni alternative ai maggiori candidati.

5)       Nonostante il fatto incontestabile che procedure elettorali, conteggio dei voti, ufficializzazione dei risultati abbiano portato grande confusione ed incertezza, delle Istituzioni elettorali sono comunque nate ed hanno avuto un ruolo preciso nel processo elettorale. Queste istituzioni, pur fortemente supportate dagli sforzi occidentali, sono state guidate da personale afghano.

6)       Il risultato finale vede Karzai vincitore, ma con una legittimazione tutta da costruire sia agli occhi dell’Occidente che a quelli della popolazione afghana: questo porterà il neo Presidente a dover negoziare con grande attenzione sia con i partner stranieri che con alleati ed oppositori interni, in un clima che richiederà sforzi politici e diplomatici non indifferenti e che metterà sotto i riflettori tutte le decisioni più importanti del nuovo Governo.

7)       La popolazione afghana è andata a votare. Il 38% degli aventi diritto al voto ha sfidato le minacce talebane, ha messo da parte la diffidenza verso un Governo ed un contesto politico parecchio corrotti ed inefficaci, ha superato i dubbi su un meccanismo di governo di stampo occidentale, portato nel Paese anche grazie alla forza militare. Ha messo a rischio la vita per esprimersi: scelta di enorme valore.

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