martedì, 16 Dicembre 2025

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martedì, 16 Dicembre 2025

"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

Associazione di Promozione Sociale | Rivista di politica internazionale

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Stan Trek

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Se c’è un posto al mondo che mantiene intatto il fascino selvaggio della frontiera quello è sicuramente l’Asia centrale. In questo libro troverete dittatori megalomani e sanguinari, gruppi terroristi islamici, giochi politici intorno alle risorse energetiche, disastri ecologici di proporzioni inquietanti e resti di imperi antichi e moderni

VIAGGIO AL CENTRO DELL’ASIA – Che tu non ti senta ancora pronto per affrontare tutto ciò o che tu stia progettando da anni un viaggio in cerca di avventura, la lettura di questo racconto di viaggio, saggio geopolitico, fumetto, reportage fotografico sarà utile e di piacevole lettura.In questa misteriosa parte del mondo in cui i nomi dei paesi finiscono tutti con il suffisso –stan, si è riaperto in seguito al crollo del sistema sovietico, il cosiddetto “great game”, ovvero lo scontro più o meno aperto tra le grandi potenze per il controllo della regione. I protagonisti: gli Usa, la Russia e la Cina, oltre a svariati attori regionali come il Pakistan, gruppi terroristici islamici e criminali.Le motivazioni che spiegano l’importanza di questo scacchiere sono svariate. Innanzi tutto nel sottosuolo di alcuni di questi paesi giacciono alcune delle maggiori quantità di riserve di petrolio e di gas naturale del pianeta (anche l’italiana Eni ha importanti interessi nella regione avendo in concessione lo sfruttamento di alcuni pozzi in Kazakistan). Questa regione riveste evidentemente un ruolo strategico anche come via di comunicazione tra oriente e occidente: se un tempo la via della seta garantiva la prosperità dei potentati locali, oggi sono i gasdotti e gli oleodotti che garantiscono ai dittatori locali un’ampia rendita. Gli ultimi decenni hanno inoltre sancito la nascita di un nuovo canale per i flussi di risorse energetiche di questa zona, una volta appannaggio soprattutto della Russia e attraverso questa dell’Europa, in seguito all’impetuosa crescita economica di Cina e India. Anche alla luce di queste considerazioni si capisce la crescente tensione nella regione cinese dello Xinjiang, omogenea per storia, cultura, popolazione e religione alle repubbliche centroasiatiche ex sovietiche.

TENSIONI E INSTABILITA’ – Questi paesi, soprattutto l’Uzbekistan, sono state importanti basi logistiche per l’invasione Nato dell’Afghanistan ed è chiaro come la “guerra al terrore” americana passi anche dalle impervie valli del Turkestan dove il fondamentalismo islamico sembra in preoccupante ascesa.Per aggiungere un altro elemento di instabilità in una situazione già potenzialmente esplosiva, ai margini di quest’area si svolge da decenni un conflitto a bassa intensità tra Pakistan e India fatto di scontri sulle altissime quote della catena del Karakorum per il controllo del Kashmir. Ed entrambe queste nazioni sono potenze nucleari.

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IL LIBRO – Ted Rall, l’autore di questo originale ibrido di diverse forme della comunicazione, riesce a raccontarci tutto questo in maniera chiara e semplice, grazie innanzi tutto al dichiarato amore per questa sfortunata area del mondo e alla sua esperienza diretta sul campo. “Stan trek” è quindi il racconto dei diversi viaggi fatti dall’autore, ma non solo. Attraverso una parallela opera di studio e di analisi Rall ci fornisce anche una lettura geopolitica della situazione negli stati da lui visitati, aggiornandoci sullo stato del nuovo “great game”.A tutto ciò si aggiunga che il libro è corredato di dati e di una serie di informazioni pratiche per organizzare un viaggio (come ottenere un visto, come comportarsi con le insistenti richieste di denaro della polizia).Se non bastasse l’originalità dell’argomento (trovare un libro che si occupi di questa parte del mondo non è facile), l’autore ha scelto di utilizzare diversi linguaggi per mostrarci un immagine degli “stan”. La scelta del fumetto in particolare si sposa perfettamente con l’approccio di Rall all’argomento: un approccio scanzonato, politically uncorrect, che non disdegna affatto l’ironia. Un nuovo modo di avvicinarsi all’indagine geopolitica, destinato a un nuovo pubblico giovane, che in qualche modo si può trovare anche nel “Caffè Geopolitico”.

Jacopo Marazia

Le due facce della medaglia

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Il Brasile sta vivendo una crescita economica senza precedenti. Tuttavia rimane irrisolto il problema della criminalità e della violenza. Due film affrontano la questione

I SUCCESSI DI LULA – I motivi di soddisfazione per il governo Lula sono stati molti negli ultimi anni, e gli indicatori statistici della salute del paese autorizzano un deciso ottimismo per il futuro: il Pil è cresciuto nell’ultimo decennio a un ritmo stabile intorno al 4%, la popolazione è in costante crescita, l’inflazione è rimasta negli ultimi 5 anni al di sotto del 10%. Sotto il governo dell’ex sindacalista di San Paolo questa grande democrazia di 186 milioni di abitanti ha trovato in particolare anche una certa stabilità politica e economica, condizione che storicamente è sempre mancata al paese e ha costituito un costante ostacolo al pieno sviluppo del suo enorme potenziale. Tutti questi indicatori positivi, sanciti anche dal passaggio del paese dal gruppo di paesi a medio sviluppo a quello dei paesi ad alto sviluppo nella classifica di sviluppo umano stilata dall’ONU con un indice dello 0,8 (su una scala da 0 a 1) hanno fatto sì che anche il profilo internazionale di Brasilia crescesse parallelamente al suo sviluppo economico. Come già successo per la Cina, il nuovo status internazionale è stato suggellato a livello mediatico dalla vittoria di Rio de Janeiro nella competizione per l’organizzazione dell’olimpiadi del 2016. Non solo, dopo il Sud Africa i mondiali di calcio del 2014 si terranno proprio nella patria della seleçao. 

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… E I PROBLEMI – In una situazione apparentemente rosea c’è però un problema endemico che allontana Brasilia dai paesi più sviluppati e preoccupa non poco gli organizzatori delle due importanti manifestazioni sportive mondiali: gli alti tassi di violenza e criminalità del paese, particolarmente nelle enormi favelas intorno ai grandi centri urbani. E’ cronaca di questi giorni la battaglia tra polizia e gruppi criminali svoltasi nel Morros dos Macacos, una delle favelas di Rio nelle quali vivono 2 milioni di persone, che ha lasciato 12 morti sul terreno, tra cui due poliziotti che sono precipitati con il loro elicottero su un campo da calcio, abbattuti dal fuoco delle armi pesanti delle gangs. La violenza tra i gruppi criminali dediti al traffico di droga, di cui il Brasile è uno snodo fondamentale come paese di transito, è un problema endemico, unito a una massiccia diffusione della corruzione tra le forze di polizia e alla diffusione massiccia di armi da fuoco. Purtroppo i dati in questo caso non sono confortanti, ma indicano che le uccisioni da arma da fuoco, soprattutto tra la popolazione giovane (15-24 anni), sono in forte aumento: +31% tra il 1996 e il 2006. I FILM – Quello della violenza diffusa è sicuramente uno dei problemi principali che Brasilia deve affrontare nel suo cammino verso il benessere. Fino ad ora i politici si sono limitati alle dichiarazioni, ma i progressi non sono stati tangibili. La questione è evidentemente sentita anche dall’opinione pubblica, come dimostra l’esempio di due opere cinematografiche di grande successo in patria e all’estero che hanno affrontato proprio questo argomento: “Cidade de deus” di Fernando Meirelles e “Tropa de elite” di José Padilha. Queste due notevoli opere cinematografiche (il film di Padilha ha vinto l’orso d’oro a Berlino) affrontano il problema da due prospettive differenti e giungono a conclusioni altrettanto diverse, riproponendo così diverse letture della situazione interne all’opinione pubblica brasiliana. Mentre il primo adotta lo sguardo di un giovane abitante delle favelas e ne racconta la fuga dall’incubo, dove suo malgrado deve fare i conti con la violenza delle gangs e della polizia corrotta, il secondo segue le vicissitudini di una squadra del famigerato corpo d’elitè della polizia di Rio, il Bope (Batalhão de Operações Policiais Especiais). I due film offrono una lettura alquanto diversa della situazione. Il primo, nella sua crudezza, lascia spazio alla speranza nella storia edificante del protagonista che nel finale riesce a raggiungere una via di uscita dalla situazione disperata delle favelas, grazie alla sua intraprendenza e al fatto di essere riuscito a salvare la sua innocenza in un ambiente corrotto. Nel secondo film non c’è assolutamente spazio per l’innocenza, né per la speranza. Se “Cidade de deus” è un film crudo, “Tropa de elite” è invece angosciante, un pugno allo stomaco ai benpensanti. Tutto è molto semplice nel film di Padillha: la forza è l’unica legge, tutto è marcio, nessuno può permettersi il lusso dell’innocenza. A partire dai protagonisti, teste di cuoio, macchine da guerra, costantemente in lotta contro tutti: membri delle gangs, poliziotti corrotti, l’opinione pubblica borghese. Quest’ultimo film nella sua semplice brutalità ha avuto un accoglienza in patria e all’estero assai controversa, soprattutto perché è stato accusato di dipingere come eroi i superpoliziotti del “Bope”, i cui modi d’intervento sono per lo meno discutibili.   Questi due film rappresentano due modi di vedere i problemi della società brasiliana, a loro modo efficaci. Ognuno si farà la propria idea, ma la visione di queste opere e il confronto tra le due tesi esposte aiuterà sicuramente la formazione di un’opinione più meditata. A meno che uno non voglia farsi un giro per le favelas.  

Jacopo Marazia

Un pò di coraggio, Milady

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Catherine Ashton si presenta per la prima volta all’opinione pubblica internazionale… già sulla difensiva. Tutto si può dire del nuovo “ministro degli esteri dell’Unione”, tranne che il suo mandato incominci all’insegna dell’entusiasmo

UN INIZIO DIFFICILE – A molti commentatori la sua nomina è sembrato un compromesso al ribasso tra i paesi membri più importanti e la baronessa una personalità dal basso profilo internazionale (il suo incarico più importante nella comunità internazionale fino ad ora era un anno passato come commissario al commercio dell’Unione). I critici rimproverano a Catherine Ashton anche una scarsa esperienza nell’ambito della diplomazia, essendosi fino ad ora occupata di welfare e commercio, e suggeriscono che la sua nomina sia dovuta più che alle reali capacità di mediatrice nel dialogo tra le nazioni, alla volontà del suo padrino politico, il premier britannico Gordon Brown. A poco più di un mese la Ashton si trova già ad affrontare il primo fallimento dell’Unione nel dare una risposta efficace e coordinata al disastro di Haiti. Di fronte alle domande del quotidiano francese Le Figaro l’Alto responsabile per la politica estera dell’Unione  ha alzato la guardia, incassato, e provato a ribattere alle critiche sul suo operato e dell’Unione.

L’INTERVISTA A “LE FIGARO” – La Ashton ha dovuto in primis spiegare il motivo per cui non si sia recata sul posto per coordinare l’attività internazionale ad Haiti. La baronessa britannica si è giustificata dicendo che gli era stato chiesto dai rappresentanti ONU di non venire per non intralciare il lavoro dei soccorritori, che non è né un medico né un pompiere e che quindi non sarebbe stata di nessuna utilità. Viene comunque da pensare che ciò che si chiede al ministro degli esteri europeo non è certo di essere d’aiuto dal punto di vista pratico (non le si chiede di scavare a mani nude tra le macerie, nè di suturare ferite), quanto di svolgere un lavoro politico di coordinamento e di organizzazione della grande macchina dei soccorsi (coordinamento che, come ormai è noto anche all’opinione pubblica italiana grazie alla polemica transatlantica tra il capo della protezione civile Bertolaso  e il segretario di Stato Usa Clinton, è totalmente mancato) e che per fare questo una maggiore vicinanza fisica della Ashton sarebbe stata utile, oltre a costituire un’evidente simbolo della volontà dell’Unione di agire di concerto di fronte a queste tragedie. La Ashton si mostra consapevole del fallimento europeo e il messaggio di miss Pesc suona un po’ tristemente come: “caspita, stavolta abbiamo toppato, ma la prossima andrà meglio!” Quando il giornalista le chiede se “non pensa che la solidarietà europea avrebbe dovuto essere più visibile?” la Ashton risponde candidamente: “Sicuramente trarremo una lezione da questo evento. Come migliorare la nostra azione? Avremmo potuto intervenire più rapidamente?” Chissà come risponderebbero alle questioni che tormentano il politico europeo, gli haitiani, che forse contavano proprio sull’efficacia degli aiuti dei paesi ricchi per non sprofondare ulteriormente nella disperazione. Le risposte della baronetta di Upholland alle critiche sulla gestione dell’emergenza non sembrano aver fugato i dubbi sulla preparazione della britannica a svolgere l’importante ruolo istituzionale, ma nell’intervista la Ashton ha affrontato anche questioni di più lungo corso. Per quanto riguarda l’Afghanistan la Ashton ha annunciato la nomina di un inviato speciale che gestisca con una sola voce i rapporti della Commissione e del Consiglio Europeo con la NATO e l’ONU. 

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POLITICA ESTERA UE? – La ministra degli esteri ha anche delineato gli ambiti verso cui si indirizzerà la nuova politica estera comune della UE: “Voglio che il nuovo servizio (di relazioni esterne, ndr) sia distintamente europeo. Non si tratta di raddoppiare o riprodurre ciò che gli stati europei fanno già tanto bene. Si tratta di vedere dove l’Europa può apportare un valore aggiunto rispetto a quello dei ventisette membri. (…) Per esempio vogliamo sostenere la sicurezza economica nel mondo. Il nostro sostegno allo sviluppo, al commercio, allo stato di diritto e alla giustizia, tutto questo aiuta a consolidare gli Stati, dà più sicurezza a loro e a noi. Lo stesso per i cambiamenti climatici per i quali c’è una grande domanda di assistenza. Questi sono ambiti in cui l’Europa unita può aggiungere qualcosa a quello che fanno i singoli Stati.” Anche di fronte a questi vaghi (per forza di cose, visto che la Ashton si è insediata a novembre nella funzione che ricoprirà per i prossimi cinque anni) obiettivi sorge qualche dubbio rispetto al peso politico che l’inglese potrà conferire alla nuova figura del ministro degli esteri dell’Unione. Nel programma si fa unicamente riferimento a sicurezza economica, ambientale, dei commerci, ma non si parla direttamente di una politica europea di difesa comune, che, nelle intenzioni dei padri dell’Unione era una parte fondamentale del secondo pilastro del Trattato di Maastricht quello della Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC), ma ha sempre segnato il passo nel progetto di integrazione europea.

CONCLUSIONI – E’ sicuramente presto per trarre conclusioni sull’operato del nuovo Alto Rappresentante, ma l’inizio non sembra proprio esaltante. Di fronte al momento di crisi del progetto comunitario e alle diffuse critiche che hanno accompagnato la sua elezione, forse Lady Ashton avrebbe dovuto presentarsi in maniera più decisa. Il rischio è quello di alimentare le convinzioni di chi pensa che l’Europa comune sia un progetto fallimentare, che lei sia stata eletta proprio per il suo basso profilo, in modo da non togliere spazio di manovra ai governi degli Stati membri in materie delicate come i rapporti internazionali e la difesa (e primi fra tutti proprio gli Inglesi che negli ultimi anni si sono smarcati non poco rispetto agli altri Stati membri in politica internazionale  e di sicurezza). Il lavoro è innegabilmente difficile, ma Catherine Margaret Ashton, Baronessa di Upholland ha cinque anni per zittire i critici. E l’Unione ha assolutamente bisogno che lei ci riesca.   

Jacopo Marazia

L’inferno prima del terremoto

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Il terremoto ha proiettato l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sulla nazione caraibica, dove la vita era però già drammatica. Che fare adesso per dare adesso per dare maggiore efficacia agli aiuti internazionali?

L’ULTIMA GOCCIA – E’ da ormai una settimana che la tragedia di Haiti entra quotidianamente nelle nostre case attraverso giornali e telegiornali: si passa dalle scene funeree dei cadaveri ammassati ai bordi delle strade alle miracolose immagini di superstiti estratti vivi dalle macerie a distanza di giorni dal sisma, dalle istantanee dei saccheggi e dei linciaggi alle fotografie dei volontari stranieri accorsi a Port-au-Prince immediatamente dopo la tragedia. In particolare, i reporter italiani e stranieri presenti sulla (metà) isola caraibica hanno usato e abusato di una parola: INFERNO.  Effettivamente, in questi giorni i nostri schermi ci hanno presentato immagini degne di un girone dantesco ma, a ben guardare, ad Haiti l’inferno c’era già.  Unico paese francofono delle Americhe, Haiti occupa la metà occidentale dell’isola di Hispaniola ed era, già prima del sisma, il paese più povero del continente. Nel suo Human Development Report 2009, l’ONU mette Haiti al posto 149 (su 182) del ranking dell’Indice di Sviluppo Umano: per intenderci tra la Papua Nuova Guinea e la Tanzania e ben più in basso di, per esempio, Botswana, Swaziland e Bangladesh. Inoltre, secondo l’Indice della Corruzione Percepita di Transparency International, Haiti occupa la posizione 176 su 180. Se a ciò si aggiungono l’alta mortalità infantile, la bassa speranza di vita alla nascita e il disboscamento del 98% del territorio nazionale la frittata è fatta. Inoltre La situazione Haitiana contrasta in maniera stridente con quella del suo vicino, la Repubblica Dominicana, che la sopravanza di ben 60 posizioni nel ranking del’ONU.

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STORIA E PROSPETTIVE – Le ragioni di questa differenza sono, in parte, storiche. Lo sfruttamento della metà Francese di Hispaniola è stato ben più forte di quello perpetrato dagli spagnoli nell’altra metà dell’isola, avendo preferito questi ultimi dedicarsi a depredare le ricchezze delle civiltà della terraferma. L’indipendenza ottenuta nel 1804 (Haiti fu il primo stato libero d’America dopo gli USA) per mezzo di una ribellione degli schiavi e il conseguente isolamento internazionale hanno tarpato le ali dello sviluppo della giovane nazione e contribuito a peggiorarne la situazione economica, una serie infinita di governi corrotti hanno poi completato il quadro.  E ora? Che succederà quando i riflettori su Haiti saranno spenti? Come assicurarsi che gli aiuti internazionali continuino nel tempo e, soprattutto, che arrivino effettivamente alla popolazione senza fermarsi delle tasche dei funzionari governativi. In un interessante articolo pubblicato del “Miami Herald”, l’opinionista politico Andres Oppenheimer suggerisce la creazione di una commissione internazionale che vigili sull’efficiente utilizzo degli aiuti internazionali sulla base di quella creata in Nicaragua dopo l’uragano Mitch nel 1998. Non sarebbe una cattiva idea. 

Vincenzo Placco

Arabi vs. Arabi

Non si placano gli scontri tra Egiziani ed Algerini a seguito dello spareggio infinito tra le rispettive nazionali di calcio per i Mondiali in Sudafrica. I retroscena di una battaglia. La geopolitica dietro al calcio. E Mubarak può esultare

IL CAFFE’ C’ERA – Purtroppo era tutto scritto, noi l’avevamo preannunciato soltanto una settimana fa dalle colonne del nostro Caffè. Ci dispiace fare il ruolo della Cassandra, quello di chi dice “io l’avevo detto”, a margine di eventi paventati che, poi, risultano accadere davvero. Eventi spiacevoli, si intende, irrazionali. In ogni caso, è quanto accaduto, e in parte sta ancora accadendo, nelle strade del Cairo, a seguito dell’incontro di calcio tra Egitto ed Algeria valido per le qualificazioni alle fasi finali dei Mondiali di calcio di Sudafrica 2010.

LA MADRE DI TUTTI GLI SPAREGGI  – In realtà, nel resoconto dato qualche giorno fa, alla vigilia dell’ultima partita del girone di qualificazione, un’eventualità non l’avevamo ricordata: quella che l’Egitto vincesse con due gol di scarto (ci eravamo limitati a dire che l’Egitto, per superare il girone e, quindi, l’Algeria in classifica, avrebbe dovuto vincere con almeno tre gol di scarto). In tale eventualità, dal momento che le due squadre sarebbero andate in una situazione di perfetta parità, sia dal punto di vista dei punti in classifica, che da quello della differenza reti, si sarebbe dovuto giocare uno spareggio finale, nella città di Khartoum (o meglio, nella sua “gemella” Omdurman, dall’altra parte del Nilo). E così è andata. La settimana scorsa vittoria dell’Egitto al terzo minuto di recupero ed entrambe le squadre in Sudan per lo spareggio di mercoledì scorso, quello che è stato definito “la madre di tutti gli spareggi”. Per la geopolitica del calcio, l’Egitto, la nazione africana e araba più popolosa, avendo molta più influenza politica della cugina Algeria, aveva ottenuto che si giocasse in Sudan, Paese sensibile al soft power egiziano, per entrare nel quale gli egiziani non hanno bisogno neanche del visto, a differenza degli algerini. Questi ultimi avrebbero voluto che si giocasse a Tunisi, ma la Federazione africana ha deciso per il Sudan, di fatto facendo un piacere al Cairo. Anche questo piccolo retroscena aveva fatto presagire una facile vittoria per l’Egitto, che giocava quasi in casa.

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CRISI DIPLOMATICA – La partita si è giocata e l’Algeria ha vinto, a sorpresa, 1-0. Algerini in Sudafrica ed Egiziani a guardare anche questo Mondiale, l’ennesimo (dal 1990 l’Egitto non partecipa ai Mondiali di calcio), dalle poltrone di casa al Cairo. E la guerriglia divampa nuovamente. Niente ha potuto fermare la rabbia dei tifosi, probabilmente in parte rabbia sociale repressa per tanto tempo e sfociata in questo modo. Prima era stata la volta della rabbia algerina, all’indomani della vittoria beffa del Cairo: ad Algeri la sede dell’Orascom (gigante delle telecomunicazioni egiziana) è stata presa d’assalto e i dipendenti egiziani dell’azienda sono stati rimpatriati per motivi di sicurezza, insieme ad altri 200 connazionali presenti in Algeria. Poi, dopo la vittoria definitiva di mercoledì scorso, è stata la volta della rabbia egiziana: per due giorni di seguito la folla inferocita ha marciato verso l’Ambasciata algerina al Cairo, provocando disordini e scontri con la polizia. Nel frattempo, l’Egitto ha addirittura richiamato il proprio Ambasciatore in Algeria Abdelkader Hajar ed il Presidente Mubarak ha dichiarato guerra a chi “tenta di umiliare gli Egiziani fuori dell’Egitto”. Ad Algeri, intanto, 18 persone sono morte per i “festeggiamenti” e, secondo agenzie di stampa locali, 145 persone hanno avuto un attacco cardiaco a seguito della vittoria della propria nazionale. Follia pura.

GEOPOLITICA, NON SOLO CALCIOE la geopolitica? C’entra eccome. L’Algeria è un Paese in cui è ancora presente una forte tendenza alla radicalizzazione ed in cui la presenza di “al-Qaeda nel Maghreb” (filiale di al-Qaeda nella regione Nord-africana) è molto forte. Ne sono testimonianza i molti attentati terroristici che, nel silenzio della stampa occidentale, continuano a colpire obiettivi governativi e di polizia nel Paese, causando decine di vittime. Un retaggio della guerra civile degli anni ’90, in cui i fondamentalisti islamici del Fronte Islamico di Salvezza (FIS) vinsero le elezioni ma non furono riconosciuti, facendo sì che si creasse una situazione di lotta intestina non dissimile da quella che vede testimoni oggi i Palestinesi, da quando Hamas non è stato riconosciuto dalla Comunità Internazionale come il legittimo vincitore delle ultime elezioni del 2006 ed ha scelto la via della lotta armata contro i fratelli di Fatah. Algeria ancora canalizzatrice di fondamentalismo islamico e, dall’altro lato, Egitto che viene accusato di appoggiare le politiche israeliane in Palestina. Il mix è micidiale. L’Egitto, insieme alla Giordania, è l’unico Paese arabo ad intrattenere rapporti diplomatici con Israele e, in un clima in cui la Palestina è assurta a battaglia madre e simbolo di tutti gli arabi e musulmani, è facile capire come gli animi possano scaldarsi. La geopolitica continua a farla da padrona: l’Algeria è la più grande produttrice ed esportatrice di gas naturale nell’area e l’Egitto comincia a fungere da competitore, nella misura in cui alimenta l’Arab Gas Pipeline, rete di distribuzione di gas naturale in Medio Oriente, e incrementa le infrastrutture dedite all’esportazione di GNL (Gas Naturale Liquefatto). E Mubarak, nel frattempo, gongola: i suoi concittadini sono distratti dal calcio e non pensano ai reali problemi sociali dell’Egitto. Ecco gli interessi reali, altro che panarabismo. Il panarabismo muore sotto le macerie di una partita di calcio e la competizione tra i “fratelli arabi” si fa sempre più forte. Benvenuto calcio, nel mondo della geopolitica.

Stefano Torelli

Terror football

Sabato le squadre di Egitto ed Algeria sono chiamate a contendersi un unico posto disponibile per i Mondiali di calcio del Sudafrica, previsti per la prossima estate. Una partita che nasconde attriti che vanno ben oltre il calcio e rischiano di creare tensioni diplomatiche

NON SOLO CALCIONon è una novità che il calcio diventi politica, come abbiamo già detto in precedenza a proposito dell’Argentina di Maratona (Cfr. Pallone e potere). Capita, in un mondo dove lo sport più popolare (e il più ricco) di tutti muove miliardi di euro; succede soprattutto in Paesi come quelli del continente africano e sudamericano, in cui spesso la gloria data da importanti risultati ottenuti sui campi calcistici, a fronte di situazioni politico-economiche critiche, può fungere da motivo di orgoglio e rivalsa nazionale. Se poi aggiungiamo a tutto ciò vecchie rivalità già esistenti tra nazioni vicine, il mix rischia di diventare pericoloso e micidiale, per quanto possa essere affascinante un incontro di calcio carico di motivazioni e il cui risultato è destinato a segnare, nel bene o nel male, la storia -calcistica, si intende- delle due squadre coinvolte.

L’EGITTO RISCHIA – E’ questo il caso dell’incontro valido per le qualificazioni ai prossimi Mondiali di calcio del Sudafrica 2010 (i primi della storia, tra l’altro, a tenersi nel continente nero) che vedrà opporsi Algeria ed Egitto sabato prossimo, il 14 novembre, allo stadio del Cairo. Vi sono tutte le caratteristiche affinchè la partita diventi un vero e proprio evento per ogni algerino ed egiziano. L’Egitto, vincitore negli ultimi due anni di seguito della Coppa d’Africa e vera rivelazione del calcio africano degli ultimi anni (insieme alla Costa d’Avorio ed al Ghana, dopo l’exploit di Camerun e Nigeria negli anni ’90), rischia seriamente di restare fuori dalla competizione sportiva probabilmente più importante del pianeta. Proprio a spese della squadra algerina. Nel Gruppo C delle qualificazioni africane, infatti, l’Algeria attualmente comanda la classifica con 13 punti, davanti all’Egitto con 10 punti. Nella partita di sabato prossimo al Cairo, l’Egitto dovrà vincere con tre gol di scarto per superare l’Algeria in classifica, altrimenti saranno proprio gli algerini a fare le valige per il Sudafrica, lasciando a casa ai blasonati vicini egiziani.

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  ALGERIA vs. EGITTO: GLI SCONTRI – In questo clima, la tensione sta salendo giorno dopo giorno e si temono degli scontri e dei disordini a margine dell’incontro di calcio. Sulla rete, da Facebook a Twitter a Youtube, spopolano video e commenti di Algerini ed Egiziani che si accusano reciprocamente e si promettono battaglie all’ultimo sangue. La retorica usata va ben oltre le motivazioni calcistiche ed entra a gamba tesa su questioni politiche e sociali. Sono lontani i tempi in cui, tra la seconda metà degli anni ’50 e la prima degli anni ’60, l’allora Presidente egiziano Nasser, leader indiscusso del nazionalismo arabo e della rivalsa dei popoli del terzo mondo, sosteneva economicamente e militarmente (oltre che ideologicamente, tramite la sua retorica della liberazione dei popoli arabi) l’Algeria che stava per liberarsi dal giogo francese, in quella che divenne una delle guerre di liberazione più lunghe e sanguinose del secondo dopo-guerra e che portò, tra il 1954 edil 1962, all’indipendenza dell’Algeria dalla Francia. Anzi, proprio sulla base di quegli episodi storici, oggi gli egiziani rivendicano quel ruolo di “liberatori” dell’Algeria, ricordando nei vari siti internet come abbiano “sollevato gli Algerini dalla condizione di schiavitù rispetto alla Francia”. Le accuse vanno avanti e non finiscono qui e i toni sono sempre più accesi, man mano che ci si avvicina al giorno fatidico dell’incontro al Cairo. Le autorità politiche algerine ed egiziane hanno dovuto richiamare ufficialmente i tifosi delle proprie nazionalità alla calma, dopo che persino il capitano della squadra egiziana, Ahmed Hassan, ha promesso di far diventare lo stadio del Cairo uno “stadio dell’orrore”. Il portavoce del Ministro degli Affari Esteri egiziano, Hossam Zaki, è dovuto intervenire per riportare un clima più cordiale tra le due nazioni e ha fatto appello soprattutto ai media, affinché non contribuiscano ad esasperare troppo i toni di quella che, in fondo, dovrebbe essere soltanto una partita di calcio (per quanto importante e ricca di significato per entrambi i popoli). Ed ecco, dunque, che all’arrivo al Cairo del bus della nazionale algerina, un fitto lancio di pietre da parte di circa 200 tifosi egiziani ha colpito i giocatori dell’Algeria. Il fatto è stato reputato gravissimo dal Ministro degli Affari Esteri algerino, Mourad Medelci. A questo punto, non bastano più le parole del portavoce del Ministero degli Esteri egiziano, ma lo stesso Ahmed Abul Gheit, il Ministro in persona, dovrà intervenire per condannare l’episodio e garantire tutte le necessarie misure di sicurezza. Gli scontri rischiano di creare una vera e propria crisi diplomatica tra Algeri e Il Cairo, quattro giocatori algerini sarebbero stati feriti dall’assalto a colpi di pietra e la partita rischia addirittura di saltare. 

LA DERIVA DEL CALCIO – Questo è diventato il calcio oggi. In una congiuntura internazionale in cui i problemi sociali sembrano essere sempre più pressanti sulle popolazioni non solo africane o del Sud del mondo, ma anche occidentali, il calcio continua a catalizzare più attenzione di altri problemi reali. Proprio come accade anche nel nostro Belpaese, in cui non si scende in piazza per la disoccupazione, ma si scatenano guerriglie intorno agli stadi di calcio e si assiste passivamente a giovani ventenni che guadagnano milioni di euro l’anno, mentre la soglia di povertà sale sempre di più. In questa cornice alimentiamo il business del calcio, comprando abbonamenti pay-per-view e seguendo sui rotocalchi le avventure amorose dei gladiatori del XX secolo. La partita tra Algeria ed Egitto dimostra nuovamente che, non solo in Italia, il calcio è potere. Potere di distrarre le masse rispetto ai problemi sociali che attanagliano le popolazioni, potere di attirare più investimenti di quanto possa fare uno Stato, potere di rendere due popolazioni nemiche, come se fossero in guerra. Il caso dell’ex milanista George Weah, liberiano e star nazionale, Pallone d’oro nel 1995, che riesce a candidarsi per le elezioni presidenziali nel proprio Paese, come è accaduto nel 2005, ne è un’ennesima riprova. Ma nel momento in cui lui, star del calcio in un Paese africano, perde la competizione elettorale contro una donna, Ellen Johnson Sirleaf, che diventerà la prima donna eletta come Capo di Stato in Africa e la prima donna di colore al mondo a ricoprire quella posizione, qualche speranza dovrà pur esserci.        

Stefano Torelli

Vera ripresa?

Gli effetti più devastanti della crisi economica sembrano alle spalle. Ma in Europa, per molti Stati tra cui l’Italia, la ripresa stenta a decollare

        La crisi economica ha fatto sentire un po’dappertutto i suoi effetti e la maggior parte dei Paesi occidentali hanno affrontato nel 2009 una pesante recessione. Ora si attende la ripresa, ma nella zona Euro quest’ultima stenta a decollare. Le performance di Italia e Germania nell’ultimo trimestre dell’anno scorso potrebbero infatti essere state meno positive del previsto e “frenare” la ripresa continentale. Venerdì 12 saranno rivelate le statistiche riferite a questo periodo, ma il presidente della BCE Jean-Claude Trichet ha già avvertito che il 2010 sarà un anno modesto per la crescita. Chi sembra stare peggio di tutti tra i principali membri UE è la Spagna, ancora immersa nella recessione per via di altissimi tassi di disoccupazione.

 

        Si sono incontrati oggi, lunedì 8 febbraio, il ministro degli Esteri Franco Frattini e il Segretario USA alla Difesa Robert Gates.  L’incontro è avvenuto alla Farnesina, dove i due ministri hanno discusso i principali temi riguardanti la sicurezza internazionale, dall’Iran all’Afghanistan, al Corno d’Africa. Sull’Iran è stata sottolineata l’urgente necessità di un ampio raccordo internazionale, così come di ulteriori pressioni per impedire la prospettiva destabilizzante di un Iran potenza nucleare. L’Italia ha ingenti interessi economici in Iran, essendo il principale partner commerciale europeo; un’azione di mediazione del nostro Paese potrebbe essere auspicabile, anche se Roma è stata esclusa dai negoziati sul nucleare del cosiddetto Gruppo “5+1”.  Sull’Afghanistan i due ministri hanno sottolineato il comune impegno e l’esigenza di un più efficace raccordo tra aspetti civili e militari della strategia internazionale. In relazione al Corno d’Africa, infine, il ministro Frattini ha illustrato a Gates l’idea italiana per una Conferenza internazionale, da tenersi sotto l’egida delle Nazioni Unite, che abbia come obiettivo richiamare l’attenzione internazionale sulla stabilizzazione della regione.

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        In America Latina la notizia principale è quella della vittoria di un’altra donna in un’elezione presidenziale. È Laura Chinchilla, vincente in Costa Rica per il Partido de Liberación Nacional, già al Governo con Oscar Arias. Il Costa Rica è uno degli Stati più tranquilli e prosperi dell’America Centrale, in controtendenza con il resto della regione. C’è attesa inoltre in Cile, dove il neoeletto presidente Sebastián Piñera renderà nota in questa settimana la lista dei suoi ministri: si parla di un Governo trasversale, che conterrà anche esponenti della Concertación (coalizione passata all’opposizione), in quanto il centrodestra non è riuscito ad ottenere la maggioranza in entrambe le Camere.

 

8 febbraio 2010

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Accordi “polverizzati”?

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Da un paio di settimane alle Nazioni Unite arrivano strane lettere firmate “Al Qaeda” contro gli accordi sul clima in vista del vertice di Copenhagen. Ultima destinataria della missiva sembra essere stata la delegazione italiana

ANTRACE ALL’ONU? – Una lettera contenente antrace giunta alla delegazione italiana presso le Nazioni Unite? La missiva, secondo fonti certe, sembra essere stata recapitata ieri all’ufficio diplomatico della nostra nazione. Per circa un’ora si sono vissuti momenti di vera tensione, dal momento che è dovuta intervenire la Polizia Scientifica americana per verificare che dalla busta non uscisse materiale infetto dall’antrace. Fortunatamente la minaccia è stata scongiurata: nessun pericolo, nonostante nella lettera fossero scritti degli avvertimenti contro il vertice sul clima che si svolgerà a Copenhagen tra pochi giorni. Unico indizio: la lettera proviene dal Texas

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NON L’UNICO EPISODIO –  La notizia non è trapelata in Italia e finora non è stata data da nessun organo di informazione. La veridicità di quanto scriviamo però è avvalorata dal fatto che nelle scorse settimane si sono registrati almeno altri cinque casi analoghi a quello che vede coinvolta la delegazione italiana. Le notizie sono state riportate in maniera sbrigativa dal New York Times (http://www.nytimes.com/2009/11/10/nyregion/10powder.html?_r=2&scp=1&sq=un%20mission%20antrax&st=cse e http://www.nytimes.com/aponline/2009/11/10/us/AP-US-Suspicious-Powder.html?scp=4&sq=un%20mission%20antrax&st=cse ): almeno altre cinque lettere contenenti polvere sospetta sono state inviate alle delegazioni britannica, tedesca, francese, austriaca e uzbeka. Tutte le lettere, dopo essere state esaminate con cura, hanno rivelato contenere soltanto farina. Tutte provenivano dal Texas e su almeno tre di esse c’era la firma di Al Qaeda. Non è chiaro se anche in quella diretta alla delegazione italiana fossero presenti riferimenti all’organizzazione terroristica islamica. Certo è che qualcuno sta giocando ad instaurare un nuovo clima di instabilità e prova ad instillare paura in vista del prossimo importante vertice internazionale sull’ambiente.Lettere (con vero antrace all’interno) erano già circolate nelle settimane successive agli attentati dell’11 settembre. Nonostante il marchio fosse di Al Qaeda, su quegli strani episodi c’è ancora un velo di mistero. Le lettere di oggi non sembrano equiparabili a quella minaccia, ma sono un segnale da non sottovalutare. 

25 novembre 2009 [email protected]

Tutto da rifare

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L’accordo raggiunto tra Zelaya e Micheletti con la mediazione degli USA non è stato applicato. A dieci giorni dalle elezioni, lo scontro rischia di diventare sempre più duro

IL VOTO SLITTA – Il 17 novembre il Congresso hondureño ha stabilito che si riunirà il prossimo 2 dicembre per decidere sulla restituzione della presidenza al deposto Manuel Zelaya, come stabilito nel patto firmato sotto l’auspicio americano lo scorso ottobre. La riunione, prevista inizialmente per il 5 novembre, è slittata fino al voto odierno in attesa dei pareri non vincolanti del Procuratore, della Corte Suprema, della Commissione Nazionale dei Diritti Umani, del Pubblico Ministero, che finiranno di essere presentati nella prossima settimana. La decisione sulla restituzione della Presidenza a Zelaya avverrá tre giorni dopo le elezioni generali del prossimo 29 novembre dove 4 milioni di hondureñi voteranno il nuovo Presidente che dovrebbe governare il paese per i prossimi 5 anni.  Comunque vada, il provvedimento avrà un significato essenzialmente formale, dal momento che dal punto di vista pratico Zelaya, se reintegrato, non potrà che attendere la naturale conclusione del suo mandato.  

VIOLENZE E ARRESTI – Tuttavia ad oggi a Tegucigalpa non pare esserci un clima ideale per lo svolgimento di elezioni democratiche. All’inizio di novembre varie ONG hanno denunciato alla Commissione Interamericana dei Diritti dell’Uomo  la esistenza documentata di centinaia di casi di tortura e trattamenti inumani, 9 morti in manifestazioni e un centinaio di persone arrestate in maniera illegittima. Mentre è notizia dell’altro giorno che vari giudici hondureñi sono indagati da parte dei loro superiori per aver manifestato contro il colpo di stato. Il giudice Ramòn Barrios per aver tenuto una conferenza dal titolo “Non fu una successione presidenziale”, dove censurava le decisione della Corte Suprema in un ricorso presentato contro il presidente Zelaya. Un altro giudice è indagato per aver partecipato a una manifestazione duramente repressa dai militari, dove rimase ferito Anche la campagna presidenziale ha visto l’abbandono progressivo di vari concorrenti alla Presidenza i quali, a causa del clima di intimidazione e violenza esistente (in vari comizi vi sono stati 14 feriti) hanno deciso di ritirare la propria candidatura. Nel paese negli ultimi 45 giorni di sospensione delle garanzie costituzionali sono state arrestate più di 1200 persone, delle quali 619 minorenni, e 120 sono sotto processo per essere scesa in piazza a manifestare. 

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MEDIAZIONE DEGLI USA? – Non è chiara la posizione ufficiale dell’amministrazione Obama, che proprio in questi giorni sta tentando un’ultima mediazione tra le parti. Il sottosegretario aggiunto per l’America Latina, Craig Kelly, è giunto ieri in Honduras per cercare di ricomporre il contrasto. È possibile che gli USA riconoscano l’esito delle elezioni del 29 novembre, anche se questo potrebbe andare contro l’orientamento della comunità internazionale. Il reintegro di Zelaya nei tempi “supplementari” potrebbe fornire la base di legittimità dell’esito che uscirà dalle urne. Ma “Mel” pare non abbia intenzione di partecipare ancora al dialogo e di non riconoscere nessuna decisione che dovesse essere presa. In questo caso, la situazione si polarizzerebbe ulteriormente e la questione diventerebbe ancora più intricata.  

Andrea Cerami 18 novembre 2009 [email protected]

 

L’inferno prima del terremoto

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l terremoto ha proiettato l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sulla nazione caraibica, dove la vita era però già drammatica. Che fare adesso per dare maggiore efficacia agli aiuti internazionali?

L’ULTIMA GOCCIA – E’ da ormai una settimana che la tragedia di Haiti entra quotidianamente nelle nostre case attraverso giornali e telegiornali: si passa dalle scene funeree dei cadaveri ammassati ai bordi delle strade alle miracolose immagini di superstiti estratti vivi dalle macerie a distanza di giorni dal sisma, dalle istantanee dei saccheggi e dei linciaggi alle fotografie dei volontari stranieri accorsi a Port-au-Prince immediatamente dopo la tragedia. In particolare, i reporter italiani e stranieri presenti sulla (metà) isola caraibica hanno usato e abusato di una parola: INFERNO.  Effettivamente, in questi giorni i nostri schermi ci hanno presentato immagini degne di un girone dantesco ma, a ben guardare, ad Haiti l’inferno c’era già.  Unico paese francofono delle Americhe, Haiti occupa la metà occidentale dell’isola di Hispaniola ed era, già prima del sisma, il paese più povero del continente. Nel suo Human Development Report 2009, l’ONU mette Haiti al posto 149 (su 182) del ranking dell’Indice di Sviluppo Umano: per intenderci tra la Papua Nuova Guinea e la Tanzania e ben più in basso di, per esempio, Botswana, Swaziland e Bangladesh. Inoltre, secondo l’Indice della Corruzione Percepita di Transparency International, Haiti occupa la posizione 176 su 180. Se a ciò si aggiungono l’alta mortalità infantile, la bassa speranza di vita alla nascita e il disboscamento del 98% del territorio nazionale la frittata è fatta. Inoltre La situazione Haitiana contrasta in maniera stridente con quella del suo vicino, la Repubblica Dominicana, che la sopravanza di ben 60 posizioni nel ranking del’ONU.

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STORIA E PROSPETTIVE – Le ragioni di questa differenza sono, in parte, storiche. Lo sfruttamento della metà Francese di Hispaniola è stato ben più forte di quello perpetrato dagli spagnoli nell’altra metà dell’isola, avendo preferito questi ultimi dedicarsi a depredare le ricchezze delle civiltà della terraferma. L’indipendenza ottenuta nel 1804 (Haiti fu il primo stato libero d’America dopo gli USA) per mezzo di una ribellione degli schiavi e il conseguente isolamento internazionale hanno tarpato le ali dello sviluppo della giovane nazione e contribuito a peggiorarne la situazione economica, una serie infinita di governi corrotti hanno poi completato il quadro.  E ora? Che succederà quando i riflettori su Haiti saranno spenti? Come assicurarsi che gli aiuti internazionali continuino nel tempo e, soprattutto, che arrivino effettivamente alla popolazione senza fermarsi delle tasche dei funzionari governativi. In un interessante articolo pubblicato del “Miami Herald”, l’opinionista politico Andres Oppenheimer suggerisce la creazione di una commissione internazionale che vigili sull’efficiente utilizzo degli aiuti internazionali sulla base di quella creata in Nicaragua dopo l’uragano Mitch nel 1998. Non sarebbe una cattiva idea.  

Vincenzo Placco 21 gennaio 2010 [email protected]

Ed ora viene il bello

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È Porfirio Lobo il vincitore delle elezioni in Honduras. Il voto, che rispecchia i sondaggi, si è svolto in un clima tranquillo e con una buona affluenza. I problemi, però, vengono adesso

LOBO PRESIDENTE – Come c’era da aspettarsi, il candidato del Partido Nacional (centrodestra) Porfirio “Pepe” Lobo sará il nuovo presidente dell’Honduras, con un risultato elettorale che va oltre il 51% dei voti. Ben distaccato, attorno al 34%, l’altro candidato forte, il leader del Partido Liberal (centrosinistra) Elvin Santos. Gli altri candidati, alla guida di partiti minori non sono andati oltre il 2-3%. I dati trasmessi durante la notte dal Tribunal Supremo Electoral non faranno che confermare questi risultati, segnalando un distacco ancora piú netto tra i due candidati.Ampiamente rispettate, quindi, le previsioni della vigilia: Santos ha pagato la lotta intestina ai liberali tra i fedeli al presidente deposto Mel Zelaya e la corrente che ha invece appoggiato il golpe di Roberto Micheletti. Il candidato de los colorados, che solo a maggio era dato dai sondaggi vincente con un distacco del 17% rispetto al suo avversario, ha cosí dilapidato in pochi mesi un vantaggio che aveva faticosamente costruito presentando una immagine allo stesso tempo giovanile e decisa. Pepe Lobo si é invece trovato nel posto giusto al momento giusto, e ha potuto sfruttare gli effetti di un colpo di stato che lui e i suoi hanno sempre derubricato come una lotta intestina tra i liberali.Il processo elettorale si é svolto abbastanza tranquillamente sotto l’occhio vigile di diversi osservatori internazionali. Solo nella città di San Pedro Sula, la capitale industriale del Paese, si sono registrasti lievi scontri tra polizia e membri della Resistencia, il gruppo costituitosi al fine di riportare al potere Manuel Zelaya, nel corso di una manifestazione organizzata da questi ultimi per protestare contro “le elezioni golpiste”.

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ED ORA? – Ora la palla passa alla comunità internazionale, spetta a quest’ultima la decisione circa il riconoscimento del processo elettorale e del governo che si insedierà il prossimo gennaio. Alcuni Paesi, soprattutto quelli dell’ALBA, ma anche il Brasile, si sono già espressi contro tale riconoscimento; altri, per esempio Panama, Colombia e Israele, hanno invece già comunicato che riconosceranno il nuovo esecutivo. Tutto dipenderà, ancora una volta, dalla posizione che gli Stati Uniti prenderanno e che potrebbe fungere da traino per le altre democrazie mondiali. La situazione, che avrebbe un rilievo marginale in rapporto ad altre questioni, può invece rivelarsi cruciale per il proseguimento dei rapporti tra USA e America Latina. Il riconoscimento dell’esito elettorale, come preannunciato dalla Casa Bianca, potrebbe infatti riportare alla luce gli attriti tra Washington e il resto del continente. 

Vincenzo Placco 30 novembre 2009 [email protected]

Dieci anni dopo

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A 14 anni dagli accordi di Dayton che misero fine alla guerra in Bosnia e di 10 anni da quelli di Rambouillet sul Kosovo, uno sguardo sui turbolenti vicini balcanici dell’Italia

KOSOVO E BOSNIA – Alcune delle realtà nazionali dell’ex Jugoslavia hanno un’architettura istituzionale alquanto instabile; è il caso del Kosovo e della Bosnia. Il primo è uno stato per modo di dire, non ritenuto legittimo da importanti nazioni quali Russia, Spagna, Grecia, Cina, oltre evidentemente alla Serbia, e la cui dichiarata indipendenza si basa soprattutto sull’appoggio americano. La minoranza serba nel paese continua a rimanere esclusa dal processo democratico e dalla vita civile e nell’ultimo periodo è stata proposta come soluzione al problema della convivenza uno scambio di territori tra Belgrado e Pristina. Cioè il riconoscimento dell’impossibilità della convivenza, lo stesso che motiva la pulizia etnica.  La Bosnia nel frattempo sta cercando, fino ad ora con scarsi risultati, di trovare un accordo tra le diverse componenti etniche per riformare la costituzione. L’incastro istituzionale uscito da Dayton infatti non fa altro che ufficializzare la divisione interna alla nazione tra federazione di Bosnia-Erzegovina, Repubblica Srpska (cioè la repubblica serbo-bosniaca, fondata da Radovan Karadzic durante la guerra) e distretto di Brcko (un’area contesa tra le altre due entità e sotto supervisione internazionale). In sostanza l’accordo ha sancito la divisione territoriale e etnica del paese stabilita dalla guerra. In questi giorni i rappresentanti politici di croati, serbi e bosgnacchi (mussulmani di Bosnia) si sono ritrovati insieme per elaborare un nuovo sistema istituzionale che riformi la costituzione di Dayton. Al sistema stabilito da questo accordo, che concede ai diversi gruppi etnici eccessivo potere di veto,  si imputa infatti il mancato sviluppo e stabilizzazione dell’entità statale.In entrambe queste situazioni la comunità internazionale è largamente coinvolta, in particolare attraverso le principali organizzazioni come la Nato, l’Unione Europea e l’Onu,  come promotrice e garante dello status quo nei Balcani. E’ evidente che un fallimento del processo di stabilizzazione dei balcani metterebbe in luce l’incapacità, già ampiamente dimostrata durante la guerra, delle organizzazioni che dovrebbero regolare le “controversie internazionali”.

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ANCORA LA “POLVERIERA” BALCANICA? – Bosnia e Kosovo sono solo i luoghi dove i problemi appaiono in maniera più evidente, ma anche la situazione nel resto dei balcani non autorizza grande ottimismo.La Serbia sebbene abbia scelto una leadership decisamente europeista nella persona del presidente Boris Tadic, deve ancora fare del tutto i conti con il suo recente passato e con i problemi derivanti dal particolare mix etnico di questa zona dell’Europa. Lo scontro politico si è fatto molto acceso riguardo al progettato nuovo statuto che garantisce alla regione della Voijvodina, abitata per metà da cittadini di origine ungherese, una più ampia autonomia da Belgrado. Contro questa ipotesi si sono scagliate le forze radicali e nazionaliste del paese, che purtroppo influiscono ancora in maniera sostanziale sulla vita politica della repubblica. Per rendersi conto di come ancora pesi il passato di guerra nel panorama politico interno serbo, basti pensare che il secondo partito nel paese, per lunghi periodi il primo, il Partito Radicale Serbo si rifà ampiamente agli ideali nazionalisti della grande Serbia e il suo attuale presidente, Vojislav Šešelj, si trova in prigione all’Aja per crimini commessi durante la guerra.D’altronde in Serbia è ampiamente diffuso un certo risentimento verso gli Stati Uniti e l’Europa per le vicende della guerra. Infatti, guardando il risultato degli scontri armati in cui il paese è stato coinvolto negli anni ’90 praticamente in maniera continuativa, è evidente come la Serbia ne sia uscita come la grande sconfitta. Una volta centro di una grande repubblica federale, la Serbia ha visto prima l’indipendenza delle repubbliche federate di Slovenia, Croazia, Macedonia e ultimamente Montenegro, ha subito una serie di sconfitte militari da parte di sloveni, croati, e dalla Nato e infine ha visto anche il Kosovo, regione tradizionalmente molto importante per i serbi, in quanto culla della chiesa ortodossa nazionale e teatro di una battaglia contro i turchi che viene celebrata dai nazionalisti come atto fondativo dello stato serbo, rendersi indipendente. Su questo sentimento di rivalsa nei confronti delle supposte ingiustizie perpetrate dalla comunità internazionale nei confronti di un popolo fiero come quello serbo ha avuto buon gioco il movimento nazionalista, che ha governato a Belgrado nei difficili anni ’90 in una pericolosa congiunzione con ambienti criminali paramilitari, come dimostra la parabola di  Željko Ražnatovic, il famoso Arkan. In questo periodo la morsa soffocante di imponenti intrecci di potere politico, criminale, economico ha governato de facto la Serbia, attraverso anche l’eliminazione fisica dei propri avversari, come il premier liberale Zoran Ðindic.Anche in questo caso le mosse dell’Unione Europea avranno un influsso determinante sulle vicende interne della Serbia. Se il processo di avvicinamento alla Ue, sostenuto in particolare dall’Italia, come dichiarato da Berlusconi in occasione della recente visita di Tadic a Roma, riuscirà a superare lo scoglio della contrarietà di Olanda e Germania, forse questo porterà una svolta in senso moderato dell’ambiente politico serbo.  

SERVE LA COMUNITA’ INTERNAZIONALE – La contrarietà dell’Olanda dipende soprattutto dalla mancata consegna al Tribunale internazionale dell’Aja del generale serbo Ratko Mladic. E’ quella dei criminali di guerra un’altra questione spinosa che mina i rapporti tra i paesi balcanici (non solo la Serbia) e l’Europa. Nel frattempo la Slovenia, unica ex repubblica Jugoslavia entrata nell'Unione, sta bloccando il processo di adesione croato per una controversia di confine.Sembra opportuno che l’Unione e più in generale la comunità internazionale si prendano le loro responsabilità in una situazione incerta che hanno contribuito ad creare e individuino un corso d’azione più chiaro per il processo di avvicinamento di queste nazioni alla comunità europea. In alternativa, il rischio è quello di esasperare i popoli di questa regione che ancora non sono riusciti a uscire da un lungo dopoguerra, che dura ormai da un decennio.

Jacopo Marazia 25 novembre 2009