In occasione del 40° anniversario del colpo di Stato contro il Governo di Salvador Allende, il presidente cileno Sebastian Piñera ha lanciato un’iniziativa di riconciliazione nazionale. Per l’esecutivo e i gruppi più conservatori, l’intenzione è voltare pagina, ma il Paese, ancora oggi, è profondamente diviso e molti sono insoddisfatti dell’orientamento neoliberale del Cile moderno. Per i più scettici, soprattutto per l’attivo movimento studentesco, con la parola ‘riconciliazione’ il Governo, in realtà, cerca di legittimare la continuità delle politiche neoliberali introdotte negli ultimi vent’anni
CILE CONTRO CILE? – Il prossimo 11 settembre ricorrerà il 40° anniversario del colpo di Stato in Cile, che pose fine al Governo legittimo di Salvador Allende, il primo esempio di socialismo democratico al potere nell’emisfero occidentale ai tempi della Guerra Fredda, e che portò alla dittatura di Augusto Pinochet.
Per tali ragioni, la ricorrenza sta caratterizzando l’attualità politica nel Paese andino. Il tema che anima il dibattito è la possibilità di una riconciliazione nazionale, un fatto che non sorprende, considerando che l’esperienza del partito Unità Popolare di Allende, al Governo tra il 1970 e il 1973, con le sue iniziative a sfondo socialista (nazionalizzazione delle risorse naturali, delle banche e delle principali imprese, riforma agraria…) già iniziate dai predecessori, e il successivo periodo della dittatura militare del generale Augusto Pinochet, contrassegnato da gravi violazioni dei diritti umani e una virata in senso liberale dell’economia, contraddistinguono il dibattito sociale e politico cileno in una forma quasi permanente.
La ricorrenza dei quarant’anni dal golpe spinge alcune frange conservatrici, in particolare coloro che oggi gestiscono il Paese politicamente ed economicamente, a promuovere l’idea di una riconciliazione nazionale. Un atto pubblico in questa direzione è stato programmato dal Governo del conservatore Sebastian Piñera per il 9 settembre. La volontà sarebbe superare le divisioni che caratterizzano la società cilena, fortemente polarizzata attorno ai tempi del colpo di Stato e della dittatura, pur riconoscendo che esiste un dovere di memoria da conservare.
IL DIBATTITO POLITICO – «Il rovesciamento di Allende era necessario», affermano alcuni. «Però illegittimo e incostituzionale», rispondono altri. «La dittatura è stata un male minore». «Ma le sofferenze e i crimini una cruda realtà». Queste le linee principali della divisione: per tali ragioni, è davvero possibile una riconciliazione in Cile?
L’anniversario simbolico del colpo di Stato ha provocato quest’anno un certo cambiamento nel dibattito politico, caratterizzato solitamente da neutralità nelle dichiarazioni, dovuta alla sensibilità del tema. Hanno fatto scalpore infatti le parole del senatore Hernán Larraín, uno dei capifila del settore più conservatore della politica cilena, il partito dell’Unione Democratica Independente, sostenitore del regime di Pinochet, che recentemente ha chiesto perdono per il suo ruolo durante la dittatura. All’iniziativa di Larrain si è unito il ministro dell’Interno, Andrés Chadwick, che ha dichiarato di sentirsi pentito di aver supportato un Governo colpevole delle gravi violazioni ai diritti dell’uomo che gli vengono imputate.
Il presidente Sebastian Piñera, che promuove l’azione di riconciliazione nazionale si è ugualmente espresso al riguardo. Piñera chiama a riconoscere le responsabilità di entrambe le parti: «Così come le forze politiche usarono la violenza e indebolirono la democrazia, le Autorità militari (successive) sapevano, o dovevano sapere, delle violazioni ai diritti umani».
Quest’azione intrapresa dal Governo e dai settori conservatori, i cui principali esponenti sono stati prossimi al regime pinochetista, non riceve però il consenso di coloro che tuttora chiedono giustizia e verità per quanto accaduto in quel periodo. Durante la dittatura, secondo fonti ufficiali, 3.200 cileni sono morti per mano di agenti statali: di questi, 1.192 figurano come «detenidos desaparecidos». Altri 33mila sono stati incarcerati e hanno sofferto violenze, mentre 200mila optarono per l’esilio.
LA TRANSIZIONE INFINITA – La società civile è particolarmente attiva. I partiti considerati più progressisti, che hanno preso le redini del Paese dopo la caduta del regime nel 1990 (i partiti Socialista e della Democrazia Cristiana), non hanno, infatti, mai mosso una critica reale al regime, ma si sono limitati ad assumere un’opinione neutrale. Un’attitudine dettata dalla prudenza, che ha motivato analisti e studiosi della politica cilena a coniare il termine «transizione incompiuta» o «infinita», per riferirsi al fatto che la nuova classe dirigente non ha cambiato le regole del gioco stabilite dal regime, in particolare quelle relative alla gestione dell’economia, dei diritti sociali o, ancora, delle Istituzioni democratiche e delle norme che rimangono saldamente inscritte nella Costituzione cilena, redatta proprio durante la dittatura militare. Il Paese si caratterizza infatti per un’economia fra le più aperte e liberalizzate al mondo, uno Stato sociale ridotto (con servizi di base come l’educazione, la sanità e le pensioni delegati a enti privati) e da un sistema elettorale che non favorisce la partecipazione. I protagonisti della transizione non hanno cercato con la forza e la convinzione sufficienti di stabilire le responsabilità o identificare i colpevoli dei crimini commessi, tant’è che solamente settanta persone sono state incriminate e meno di venti effettivamente giudicate colpevoli. Un fattore che ha contribuito a rendere difficile l’emergere della verità è il regime speciale e protetto di cui godono ancora i membri dell’Esercito, che possono contare su un tribunale speciale, oltre che su sistemi di sanità e pensionistici privilegiati. Questo trattamento eccezionale riservato alle Forze Armate fa parte di alcune norme che sono state chiamate «enclavi istituzionali», eredità del passato che sono rimaste ancorate al sistema politico, alle leggi, agli organismi cileni, influenzandone il funzionamento. Detto del sistema giudiziario particolare che favorisce i militari, un altro esempio è che il 10% dei benefici ricavati dalla vendita del rame, la principale ricchezza del Paese, da parte della compagnia mineraria nazionale, vengano destinati a finanziare l’Esercito.
CRESCITA E DISUGUAGLIANZA – Juan Pablo Cardenas è un riconosciuto giornalista cileno, acerrimo oppositore della dittatura militare. Egli sostiene che l’iniziativa di riconciliazione promossa dal Governo nasconde l’interesse della classe dirigente cilena di continuare con le politiche neoliberali che sono state introdotte nel Paese durante la dittatura e rafforzate durante la cosiddetta transizione. Tali politiche, insiste Cardenas, hanno certo arricchito il Cile, ma in una forma chiaramente sperequata.
L’economia è cresciuta a una media del 4% negli ultimi 10 anni, cosicché il Paese è ai primi posti fra i sistemi più dinamici e aperti (conta 59 accordi di libero scambio, leader al mondo in questa classifica). Gli investimenti stranieri sono triplicati, così come il PIL. Il Cile è considerato sicuro per fare affari, il che gli è valso, insieme agli eccellenti risultati macroeconomici, l’ingresso nel 2011 nel ristretto gruppo delle nazioni dell’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico che comprende i 34 Paesi più ricchi del pianeta.
Nonostante ciò, in Cile esiste ancora un alto tasso di povertà (14% della popolazione). Oltre il 50% dei cittadini vive con un salario inferiore ai 400 dollari mensili, mentre la ricchezza accumulata è fortemente concentrata. Uno studio recente realizzato dalla stessa OCSE identifica il Cile come lo Stato con le maggiori disuguaglianze non solo all’interno dell’Organizzazione, ma addirittura dell’intero pianeta. È giusto affermare che il Paese è più ricco oggi che vent’anni fa e che in qualche modo l’intera popolazione ha tratto benefici da questa crescita. Però è vero anche che solo una parte marginale di questa ricchezza è servita a migliorare le condizioni degli abitanti, mentre i maggiori benefici sono stati riservati agli investitori stranieri e a una ristretta élite nazionale a essi vincolata.
Per tale ragione, i settori che si oppongono a questa visione neoliberale dello sviluppo in Cile invitano a esprimere il loro disaccordo all’atto di riconciliazione previsto per il 9 settembre. Gli argomenti di questa opposizione – che ha le sue radici nelle università e nelle scuole superiori che da diversi anni sono attive nel richiedere un cambio delle politiche sociali ed economiche del Paese – insistono sulle grandi ingiustizie che permangono. In Cile studiare all’università comporta il maggior costo al mondo per le famiglie, non solo in termini reali (oltre 3000 dollari annuali) ma in relazione agli introiti familiari, che devono dedicare in media l’85% delle loro risorse per sostenere i figli. I sistemi di sanità, educazione e previdenza sono privati e quest’ultimo settore -privatizzato dalla dittatura – nell’ultimo anno è stato duramente criticato in quanto le assicurazioni che lo gestiscono non stanno erogando pensioni sufficienti ai loro clienti, adesso che la prima generazione di lavoratori si sta ritirando.
Ciononostante, l’economia è solo la faccia visibile delle critiche rivolte al Cile contemporaneo. I cileni, quelli che sono stati vittime della dittatura, che hanno perso familiari e amici, o che sono stati costretti all’esilio, chiedono giustizia e un riconoscimento delle responsabilità. Cardenas insiste nel chiedere se è giusto o possibile perdonare, quando coloro che sono gli eredi del regime dittatoriale che oggi occupano i posti di comando si rifiutano di chiedere perdono o, come il Presidente della Repubblica, insistono nel voler attribuire colpe condivise a entrambe le parti politiche, evitando quindi la questione di fondo del riconoscimento dei crimini, delle violazioni della dignità umana e delle Istituzioni perpetrate dal regime militare. O ancora, se è possibile perdonare quando i nomi dei responsabili non sono conosciuti, poiché quasi nessun processo è stato portato a termine, come nel caso dello stesso Augusto Pinochet, morto nell’impunità.
Gilles Cavaletto