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Google torna (di nascosto) in Cina

Analisi – Da qualche mese è possibile creare campagne pubblicitarie Google Ads selezionando come target geografico la Cina continentale. È una notizia passata in sordina anche tra gli addetti ai lavori, che tuttavia rappresenta una potenziale svolta nei rapporti internazionali: il colosso di Mountain View è tornato in Cina? Quando esattamente, e soprattutto, come? Facciamo chiarezza.

UN RAPPORTO MOLTO DIFFICILE

Il 26 gennaio 2016 veniva ufficialmente rilasciato il motore di ricerca Google con dominio google.cn, coronando il processo di avvicinamento della multinazionale americana dell’hi-tech al vasto mercato cinese. Già nel 2000 Google aveva introdotto su google.com la possibilità di fare delle ricerche utilizzando sia il cinese tradizionale che quello semplificato, rendendo quindi fruibile il servizio search ai madrelingua cinesi residenti all’estero. Nel 2004 veniva lanciato Google News in lingua cinese, mentre nel 2005 il neoeletto Presidente di Google China Kai-Fu Lee annunciava l’apertura di un centro di ricerca e sviluppo nella Cina continentale.
La luna di miele tra il Governo di Pechino e “Big G” non è però durata a lungo, essenzialmente per un unico motivo: la censura. Il controllo sui mezzi d’informazione che il Partito Comunista ha sempre voluto mantenere fa a pugni inevitabilmente con quella che, almeno sino a quel momento, è sempre stata la policy di Google, ovvero sostenere la libertà d’informazione. A quel tempo infatti il motto della multinazionale americana era “Don’t be evil”, una frase indubbiamente di impatto forte e pertanto da sempre molto discussa. Tuttavia, sarà un caso che nel 2015, quando Google è stata assorbita dalla holding Alphabet, il motto è diventato “Do the right thing”, decisamente più convenzionale e politicamente corretto rispetto al precedente? Ma torniamo a noi. La rottura tra Google e le Autorità cinesi si è consumata nel giro di pochissimi anni, sino a diventare definitiva nel 2010. Chiaramente il terreno di scontro non potevano che essere temi “caldi” come, ad esempio, la questione tibetana: nel marzo 2009 è stato bloccato l’accesso a YouTube (di proprietà di Google) dopo che era stato caricato un video in cui si mostravano le forze dell’ordine cinesi intente a picchiare dei manifestanti tibetani. Questo episodio ha avuto una vasta eco mediatica, ma non è stato certamente un caso isolato: altri video erano stati in precedenza oscurati per motivi analoghi.
Fino a quel momento l’utente che avesse inserito nel motore di ricerca delle query “sensibili” come “tank man” avrebbe visto comparire un pop-up con questa dicitura: In accordance with local laws, regulations and policies, part of the search result is not shown”. Inutile dire che Google è stata soggetta ad aspre critiche da parte di varie associazioni in difesa dei diritti umani a causa di questo endorsement alla violazione della libertà d’informazione. In ultima analisi, è stata la pressione dell’opinione pubblica ad aver spinto il consiglio d’amministrazione dell’azienda a dichiarare il 12 gennaio 2010 di non essere più disposto a censurare i risultati di ricerca. Hanno altresì contribuito a questa decisione i pesanti attacchi hacker ai danni di molte aziende hi-tech americane operate da individui operanti sul suolo cinese. L’insieme di questi attacchi, come riportato dal vicepresidente del reparto sicurezza di McAfee, era stato battezzato dai suoi stessi perpetratori “Operazione Aurora”.
Dal 2010 in poi il crollo di Google in Cina è stato rapidissimo: dopo tutta una serie di blocchi ai vari servizi Google, Big G ha giocato come ultima carta il redirect delle ricerche online da Google.cn (che ormai stava perdendo grosse fette di mercato a favore del competitor cinese Baidu) a Google.hk, dove i tentacoli della censura non arrivavano così facilmente. È però evidente che questa manovra poteva essere solo una pezza: il bacino d’utenza era ormai ridotto all’osso, rendendo poco profittevole mantenere attivi dei servizi in queste condizioni. In definitiva, Google si era scontrata con il Great Firewall cinese e ne era uscita sconfitta.

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Fig. 1 – Protesta di fronte alla sede britannica di Google per i tentativi di riavvicinamento dell’azienda alla Cina, gennaio 2019

TENTATIVI DI RIAPPACIFICAZIONE

Il mercato cinese è troppo vasto e troppo importante per restarne fuori. Questo è l’assunto dietro ai tentativi di Google di tendere la mano alle Autorità cinesi a partire dal 2016. Il 6 dicembre di quell’anno Google ha tenuto il Google Developer Day China a Pechino, dove ha annunciato l’apertura di piattaforme per programmatori utilizzando il dominio .cn (fra gli altri, https://developers.google.cn/ e https://developer.android.google.cn/ ). In seguito, nel maggio 2017 Google ha partecipato al Future of Go Summit a Wuzhen, già sede permanente della World Internet Conference. Il Summit, oltre a essere un forum internazionale focalizzato sull’Intelligenza Artificiale, le sue applicazioni e le sue implicazioni etiche, è stato il primo evento pubblico dove Google era presente assieme alle Autorità governative cinesi. A dicembre dello stesso anno è stata infine annunciata l’apertura del Google AI China Center a Pechino, il primo sul continente asiatico e parte di un network di centri di ricerca operanti a livello mondiale. L’obiettivo di Big G è di continuare a essere competitiva sul piano dell’AI e per questo ha bisogno di attingere alle migliori risorse umane, comprese quelle cinesi.

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Fig. 2 – Parte dello stand Google alla World Artificial Intelligence Conference di Shanghai del 2018

IL PROGETTO DRAGONFLY E LE ACCUSE DI TRUMP

Questo “ritorno di fiamma” ha sollevato dubbi sia di carattere etico che strategico, poiché la cooperazione tra un tale gigante tecnologico statunitense e il regime di Pechino viene naturalmente vista con sospetto. L’imprenditore e miliardario Peter Thiel, cofondatore di PayPal e membro del cda di Facebook, ha invitato CIA ed FBI a indagare sulle attività di Google in Cina, sospettando che possa esserci un rapporto di collaborazione (subito smentito da Google stesso) con l’esercito cinese. Anche Trump, di cui Thiel è un forte sostenitore, ha espresso la volontà di vederci chiaro, soprattutto dopo che Google ha deciso di non rinnovare un contratto con il Pentagono circa l’utilizzo dell’AI applicata ai droni militari (il cosiddetto “Progetto Maven”). Da Mountain View fanno sapere che il progetto è stato abbandonato dopo che 4mila dipendenti dell’azienda hanno firmato una petizione, indignati dal fatto che i software venissero impiegati in situazioni di guerra.
Tornando alla Cina, lo scorso anno sono trapelate indiscrezioni sul Progetto Dragonfly“, ovvero la creazione di un motore di ricerca sostanzialmente basato sulle richieste della censura cinese. Queste voci non sono state confermate, ma di recente è successo qualcosa di assolutamente inaspettato: Google Ads, la piattaforma di advertising di Google, da poche settimane consente di impostare il targeting geografico delle campagne pubblicitarie, sia sul motore di ricerca che sui siti della rete display, sulla Cina continentale (precedentemente, inserendo “Cina” risultava come unica opzione “Taiwan”). La notizia non è stata in alcun modo sponsorizzata e chi scrive l’ha appresa semplicemente lavorando sui pannelli pubblicitari. Andando a leggere le normative specifiche per Paese, si evince che in Cina non sono ammessi contenuti politici: “In Cina, Google non consente la pubblicazione di annunci che promuovono nomi di Autorità governative o personaggi politici, critiche al Partito comunista o al Governo della Repubblica popolare cinese, l’indipendenza di Taiwan e il partito democratico di Hong Kong, né la pubblicazione di contenuti sulle sommosse di piazza Tienanmen”. Non sappiamo quali saranno le prossime azioni di Google in Cina, ma è evidente da queste poche righe la volontà di ottemperare alle richieste governative in merito alla censura.

Mara Cavalleri

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Mara Cavalleri
Mara Cavalleri

L’Università di Padova è la mia Alma Mater: qui infatti ho conseguito sia la laurea triennale che magistrale con lode in Politica Internazionale e Diplomazia. Ho frequentato inoltre il Master in Diplomacy presso l’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale). Dopo un corso formativo presso la Camera di Commercio di Milano, ho iniziato la mia carriera di Social Media Manager e Web Campaign Strategist. Attualmente lavoro presso una digital agency, dove mi occupo dell’implementazione e gestione di strategie di marketing per enti e imprese che operano a livello nazionale e internazionale.

Affascinata dal Giappone sin da piccola, ho avuto modo di approfondire tramite corsi e letture specifiche la lingua, la cultura e la storia di questo Paese che, per molti aspetti, si distingue dagli altri nel panorama globale. Amo molto viaggiare e nel tempo libero pratico trekking d’alta quota.

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