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Quale pace?

(Da Gerusalemme) – La parola pace è uno dei termini maggiormente abusati quando si trattano, paradossalmente, tematiche e questioni relative ai conflitti ed alle guerre attualmente in essere in diverse parti del mondo. Quando poi si accostano queste quattro lettere all'area del vicino oriente l'abuso di questo termine raggiunge picchi elevatissimi. Oggi, ancora una volta, il presidente americano di turno, Barack Obama, annuncia solennemente che il 2 settembre Abu Mazen e Netanyahu si recheranno a Washington per discutere il possibile raggiugimento di un accordo di pace.

LE QUESTIONI SUL TAVOLO – Si rischia di diventare ripetitivi quando si cerca di spiegare quali siano le problematiche che dividono, da oltre 60 anni, israeliani e palestinesi. Lo status di Gerusalemme, il diritto al ritorno dei profughi e la definizione dei confini del futuro stato palestinese. Questo solo per ricordare le tre contrversie di maggiore rilievo. E gli insediamenti? Ed il muro di separazione? E la gestione delle risorse idriche? Anche queste ultime tre questioni non possono assolutamente essere ignorate. Tre questioni che appaiono inoltre strettamente interconnesse. Gli insediamenti sono circondati per buona parte dalla barriera difensiva israeliana: 8 metri di cemento armato continuamente interrotti da torrette di avvistamento e dotati di sensori di movimento. Il muro ha in molti casi, vedi Qalqilya, deliberatamente modificato il proprio percorso per includere falde acquifere ed ampie fette di territorio: in molti casi ben oltre la linea di confine stabilita nel 1967. Non solo. La gran parte degli insediamenti, per non dire tutti, sono costruiti in corrispondenza delle falde acquifere presenti nella West Bank e questo contribuisce ad aggravare la penuria d'acqua presente nei Territori Palestinesi.

E se abbiamo visto come insediamenti, acqua e muro siano strettamente interconnessi, non dobbiamo dimenticare le storiche problematiche che spaccano la regione. In primis lo status di Gerusalemme, la quale oggi appare una città israeliana a tutti gli effetti. Proclamata capitale indivisibile dello stato ebraico, la città santa è oggi più che mai considerata parte integrante dello stato israeliano e molto difficilmente verrà fatta alcuna concessione sulla sua condizione. Una città divisa da confini invisibili, ma estremamente tangibili.

Ed i profughi? Come far tornare migliaia, milioni considerando tutte le generazioni, di palestinesi in case di cui è ormai rimasta solo la chiave che stringono fra le mani? Gran parte dei villaggi palestinesi da cui furono scacciati nel 1948 semplicemente non esistono più e anche molte delle case di cui rivendicano la proprietà sono state abbattute o occupate. I profughi esistono ormai come reale problema solo per i paesi arabi limitrofi che il più delle volte malvolentieri li ospitano. Tutto questo senza considerare che uno stato palestinese, per esser definito tale, dovrebbe avere una continuità territoriale che al momento sembra davvero impossibile da raggiungere e dei confini che sono ben lontani dall'essere definiti.

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IN RAPPRESENTANZA DI CHI? – Abu Mazen e Bibi Netanyahu avranno dunque la forza, morale ma soprattutto politica, di sedersi al tavolo delle trattative e fare scelte difficili, coraggiose e soprattutto impopolari? Per quanto riguarda la parte palestinese, Abu Mazen arriverà il 2 settembre a Washington in rappresentanza di se stesso e dei propri interessi: nulla più. La sua popolarità fra i palestinesi è ai minimi storici e continua a calare con il passare del tempo. Il mandato presidenziale è scaduto da oltre un anno e la sua estensione ha provocato moltissime proteste nel mondo politico palestinese. La sua figura è debole, inflazionata e non gode di fiducia nemmeno all'interno di alcune frange di Fatah le quali sembrano invece molto più vicine al premier Salam Fayyad. Inoltre il presidente palestinese dovrà fare i conti con le contestazioni delle altre forze politiche palestinesi, Hamas su tutte, le quali si sono già espresse in maniera negativa riguardo alla possibile ripresa delle trattative con il governo israeliano. Le parole di Hamas portano inoltre alla luce la drammatica situazione della Striscia di Gaza, situazione che al momento non sembra però rientrare nelle priorità della Casa Bianca.

Governo israeliano che vive anch'esso momenti di grande difficoltà sul piano della coesione interna. Quali concessioni potrà permettersi Bibi Netanyahu senza mettere in crisi la sua squadra di governo? Avigdor Lieberman, attuale ministro degli esteri ed esponente del partito di destra Israel Beitenu, accetterà di riportare con la forza entro i confini del 1967 gli oltre 300mila coloni presenti nella West Bank o i 184mila israeliani che vivono a Gerusalemme est? Difficile. Lo stesso Netanyahu si è più volte negativamente espresso sulla soluzione "due popoli-due stati", e gli 11 rappresentanti del partito ultra-ortodosso dello Shas difficilmente favoriranno un'azione governativa tesa a colpire gli interessi dei coloni a favore delle trattative di pace. Due leader deboli ed i cui rapporti non sono mai stati idilliaci. Un rapporto di reciproca sfiducia che non sembra essere in grado di portare alle coraggiose scelte di cui ci sarebbe invece estremamente bisogno.

CONCLUSIONI – Resta infine da vedere quale sarà l'atteggiamento assunto da Washington. Punto non meno importante questo se si considera che nel corso degli anni, da Oslo fino ad Annapolis, gli USA hanno costantemente agito quasi da avvocato difensore degli interessi israeliani. Ad oggi l'unica speranza che le trattative di pace risultino quanto meno credibili, risiede nell'impegno che il presidente Obama deciderà di profondere dal 2 settembre in poi. Solo forti pressioni americane potranno costringere Israele a fare concessioni in materia di territori e solo Obama può ridare credbilità ad un Abu Mazen sempre più isolato.

Nonostante gli sforzi però, le trattative rischiano di arenarsi già in partenza. L'Autorità Nazionale Palestinese ha infatti annunciato che interromperà il dialogo se Israele riprenderà a costruire nuovi insediamenti ed il 26 settembre scadrà la moratoria parziale di 10 mesi durante i quali, teoricamente, Israele non avrebbe dovuto costruire nuovi insediamenti. Cinque giorni fa un alto ufficiale dell'esercito israeliano ha annunciato che nelle vicinanze della Ariel University, situata nell'omonimo insediamento, verranno costruite nuove strutture per accogliere gli studenti ed il comitato centrale del Likud ha votato in giugno una risoluzione che mira a riprendere, non appena possibile, la costruzione di nuove case israeliane nella West Bank. Se il buongiorno si vede dal mattino…

Marco Di Donato

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