I recenti accordi sul nucleare iraniano, coronati da dichiarato successo, sono solo un primo passo verso una possibile politica di apertura, peraltro non ancora certa. Per capire la loro essenza e collocarli nel contesto geopolitico generale è necessario guardare all’immagine di insieme. Vediamo una possibile lettura dello scacchiere mediorientale e dei suoi protagonisti.
UNA LUNGA STORIA – La lunga disputa sul nucleare iraniano affonda le sue radici nel lontano 1957, quando lo Shah e il presidente statunitense Eisenhower concordarono un programma di sviluppo per l’energia nucleare, sotto il cappello dell’iniziativa U.S. Atom for Peace. Come conseguenza diretta, dal 1970 l’Iran si è aggiunto ai firmatari del Trattato di Non-Proliferazione (NPT, Non-Proliferation Treaty – nda), secondo il quale Teheran si impegnava a utilizzare l’energia nucleare per usi esclusivamente civili. Nel 1979, in seguito alla Rivoluzione islamica che cacciò lo Shah e portò al potere l’ayatollah Khomeini, il programma fu sospeso e le compagnie statunitensi e francesi impegnate nella costruzione delle centrali iraniane si ritirarono. Ma non tutto andò perduto, per esempio il materiale fissile. Negli anni Ottanta sospetti sempre più forti (e qualche conferma) che l’Iran stesse tentando di arricchire l’uranio a sua disposizione per usi militari portarono al primo blocco di sanzioni statunitensi. L’Iran fu in particolare accusato di avvalersi di consulenza pakistana e di aver importato da Islamabad le centrifughe necessarie ad arricchire l’uranio oltre il 5%, percentuale utilizzata di solito dagli impianti civili (per uso militare l’uranio viene invece arricchito fino al 20%). Nonostante ciò, nel 1992, il programma principale riprese grazie a un accordo con il Governo russo, che si impegnava a fornire tecnologie e combustibile (programma “Bushehr 1”). Tuttavia il rapporto tra Teheran e Mosca non è stato del tutto felice e le condizioni degli accordi sono state rinegoziate più volte, talvolta per motivi politici, altre per problemi tecnici. Il programma si è così protratto fino ai primi anni Duemila, quando un ulteriore scossone causò una fase di stallo: gli ispettori della IAEA (International Atomic Energy Agency) registrarono ancora una volta la presenza, negli impianti, di uranio arricchito oltre il 5% e delle centrifughe per operare il processo di arricchimento. Per gli ispettori e la comunità internazionale si trattò del chiaro segnale di un programma militare volto a ottenere la bomba atomica, espressamente vietato dal trattato di non proliferazione. Da allora l’Iran ha sempre ribattuto che l’arricchimento dell’uranio oltre il 5% non fosse di per sé vietato nel testo del trattato, circostanza peraltro vera. Secondo gli esperti, però, l’arricchimento dell’uranio sopra la percentuale del 5% non trova alcuna applicazione civile e non ha nessuna possibilità di impiego commerciale. L’unica spiegazione plausibile è sempre rimasta, quindi, quella di un programma militare segreto. I negoziati sul programma iraniano, cominciati nel 2003, fallirono, e dal 2006 Teheran è stata sottoposta a un nuovo round di sanzioni, stavolta particolarmente dure. La Risoluzione delle Nazioni Unite che le comminava è stata recepita attivamente e implementata sia dagli Stati Uniti (che hanno aggiunto proprie misure punitive addizionali), che dall’Unione Europea. Le sanzioni si sono rivelate insufficienti a fermare la volontà iraniana di proseguire con i programmi nucleari – che però hanno subito un importante rallentamento, – ma hanno messo in ginocchio l’economia iraniana. Teheran quindi, anche se a muso duro, è stata costretta più volte a sedersi al tavolo delle trattative, con una posizione (leggasi “potere negoziale” – nda) sempre più debole col passare del tempo. Nonostante ciò, per 7 anni (dal 2006) non è stato possibile raggiungere accordo alcuno.
LA SVOLTA DI GINEVRA 2013 – L’ultimo tentativo in ordine di tempo si è svolto questo autunno, nella speranza che il cambio di leadership nella dirigenza iraniana aprisse nuove prospettive. I negoziati hanno incluso i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, cui si è aggiunta la Germania. Dopo una fase di stallo iniziale, il 24 novembre è stato raggiunto per la prima volta un accordo che, seppur parziale, rappresenta un punto di svolta nella vicenda. L’accordo ha una durata limitata di 6 mesi, durante i quali l’Iran si impegna
a procedere alla sospensione delle attività di arricchimento oltre il 5% e allo smantellamento delle infrastrutture a esso dedicate. In cambio, i Paesi occidentali si impegnano a sospendere alcune delle sanzioni economiche più stringenti e non approvarne di nuove. In questi sei mesi si lavorerà per rendere possibile un’ulteriore distensione dei rapporti e un secondo round di negoziati per trovare un accordo più consistente sull’intero programma nucleare, compresa la prosecuzione del programma a uso civile.
NON SOLO ATOMI – È stato chiaro fin dagli inizi che i programmi nucleari iraniani, sia civile che militare, non riguardassero solo Teheran, ma l’intero assetto geopolitico della regione mediorientale. Nel corso dei decenni il problema del nucleare iraniano si è fuso con una vasta panoplia di problematiche, dalle rivalità tra sciiti e sunniti all’inimicizia storica con Israele, dal commercio di idrocarburi alla sicurezza della navigazione nello stretto di Hormuz, alla recente crisi siriana. Ne è scaturito uno scenario geopolitico di grande complessità e ricco di sfaccettature (e altrettante complicazioni). Pochi mesi fa, l’elezione di Hassan Rohani a Presidente della Repubblica Islamica è stata salutata con favore e aspettative sia sul fronte interno che dalla comunità internazionale. La figura di Rohani è stata vista da molti come portatrice di innovazione e cambiamento. In questo lasso di tempo limitato è difficile verificare se davvero Rohani abbia le carte e la volontà per imprimere una svolta alla politica – e alle politiche – iraniana, ma sicuramente i negoziati recentemente conclusi e il loro esito confermano che ci siano numerose aspettative in tal senso. Nonostante gli usuali improperi che Khamenei ha rivolto contro Israele nel corso dei colloqui a Ginevra (come sempre tempestivamente ricambiati), Rohani potrebbe andare oltre il ruolo che l’Iran ha giocato negli ultimi decenni. In effetti, come suggerisce Abraham Sofaer, eminente analista americano della “Hoover Institution”, la politica estera iraniana non è cambiata per nulla negli ultimi trent’anni, indipendentemente da chi sia salito al potere. Mutando prospettiva, però, potremmo argomentare che, in fondo, l’Iran abbia semplicemente istituzionalizzato un ruolo che gli è stato indirettamente assegnato dai giochi geopolitici delle grandi potenze (o, più filosoficamente, “dalla Storia”). Per esempio, facendo un bilancio dell’esperienza Ahmadinejad, la politica adottata dall’ex Presidente sembra aver addirittura rinforzato l’immagine – radicalizzata – dell’Iran come “Stato-canaglia” da contrastare a tutti i costi. E non a caso, richiamando ancora una volta la visione di Sofaer, sembra che dalla Rivoluzione islamica a oggi la principale occupazione di Teheran sia stata quella di osteggiare Israele, gli Stati Uniti e i Paesi a guida sunnita. Il problema principale è che anche parte della popolazione iraniana sembra essersi calata nel ruolo, dipingendo per contro gli oppositori internazionali come il male assoluto da eradicare. Pertanto, sebbene Rohani dimostri un certo pragmatismo politico, i negoziati conclusi sono stati influenzati dalle pressioni interne e quelli futuri lo saranno ancora, rendendo l’eventuale percorso di distensione lungo e sofferto. Davvero un peccato per l’Iran, che avrebbe tanto da guadagnare assumendo una posizione più flessibile e conciliatoria.
(Continua)
Marco Giulio Barone