Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Una intervista con Alberto Negri, inviato del Sole 24 Ore, per fare il punto sulle possibili evoluzioni del conflitto siriano, tra dinamiche interne e internazionali. Con uno sguardo allargato alla cosiddetta “Primavera araba”, tre anni dopo
Dopo Ginevra, è tutto un chiedersi cosa può fare la “politica estera” per la Siria. In realtà spesso in Medio Oriente (e in generale nel mondo intero) sul tema conflitti sono contate sempre di più le tematiche di politica interna rispetto a quella esterna. Nella situazione attuale siriana, vi è ancora una politica interna che fa pesare le sue dinamiche? Questo aspetto è rilevante o minoritario rispetto ad esempio alle questioni regionali, come la sfida a distanza Iran-Arabia Saudita che si gioca anche in territorio siriano?
Questo è un aspetto fondamentale. La politica estera, che è il rapporto tra nazioni e tra potenze, gioca sicuramente un ruolo approfondito ed esteso, così come è rilevante il ruolo delle dinamiche interne, degli schieramenti, dei movimenti sul territorio, nonostante gran parte di questi aspetti perdano di valore a causa di visioni interne che in molti casi sono sì determinanti, ma fin troppo parziali.
Per quanto riguarda la Siria, sin dalle prime fasi vi è stata un’internazionalizzazione del conflitto. Il regime già da marzo 2011, con la rivolta di Daraa, ha imputato ad agenti esterni le sollevazioni interne. E col passare dei mesi, l’opposizione armata si è internazionalizzata con l’arrivo di guerriglieri e militanti esteri. Le dinamiche interne ora contano? Certamente: alcune questioni di base non si possono trascurare, pena un giudizio esterno distorto. Non ci si può non chiedere se il regime di Assad controlli ancora il Paese, in che modo, fino a che punto lo Stato raggiunge i siriani, e che cos’è in questo momento l’economia siriana. Alcune notizie vanno sottolineate: ad esempio, se i profughi usciti dalla Siria sono milioni, si parla molto poco di alcune migliaia di rifugiati esterni che in Siria sono ora rientrati in alcune zone dove non si combatte più.
Bisogna poi chiedersi come possono svilupparsi le dinamiche interne in questa fase. Per quanto riguarda il regime, l’ipotesi di transizione con l’uscita di scena di Assad al momento non sembra proprio essere realizzabile, anche per una sorta di mancanza di alternative. Farouk al-Sharaa, Vice Presidente ed ex Ministro degli Esteri, di cui si è parlato, è una figura anziana e logorata, che non rispetta gli standard necessari. E anche all’interno dell’opposizione, personaggi e gruppi “di facciata” non sono certo particolarmente rappresentativi, né è chiara la loro consistenza.
D’altra parte, le potenze esterne cercano di accreditare alcuni personaggi o movimenti senza però una chiarezza di fondo o un progetto concreto. L’insegnamento che ci viene dal passato, con il caso del Libano, è fondamentale. Dopo quindici anni di guerra civile, non è certo stata sufficiente una sola Conferenza di Pace. E dopo la Conferenza di Losanna del 1984, ci sono voluti altri cinque anni per arrivare agli accordi di Taif in Arabia Saudita. E mentre a Losanna erano presenti soltanto i rappresentanti sciiti del movimento Amal, a Taif venne legittimata la presenza militare di Hezbollah. Questo per dire che tali dinamiche sono sfuggenti e l’evoluzione di medio-lungo termine è imprevedibile. In Siria siamo al terzo anno di guerra civile, si potrebbe benissimo arrivare al quarto o al quinto senza grandi cambiamenti, seppure con l’introduzione di nuove figure di protagonisti.
Quali scenari ritiene possibili per il 2014 siriano?
Penso che l’obiettivo del 2014 non sia quello di arrivare ad una soluzione definita e definitiva. Ritengo siano tre gli scenari da tenere in considerazione:
1) La possibilità maggiormente realizzabile è quella di un abbassamento del livello di intensità del conflitto. Questo non potrà azzerare il numero di vittime, ma certo si potrà diminuire il livello dello scontro. La proposta di riarmare nuovamente l’opposizione per abbattere il regime è un’alternativa decisamente poco praticabile. Questa prima opzione potremmo considerarla come un’evoluzione positiva, che contempli anche tentativi di tregua e di cessate il fuoco;
2) Il secondo scenario è relativo all’ulteriore e più forte espansione regionale e internazionale del conflitto. Pensiamo solo ai recenti attentati in Paesi come Libano e Iraq, che in questo momento destano fortissima preoccupazione. Gli ultimi attentati nel Paese dei Cedri sono stati rivendicati da sigle siriane trasmigrate in Libano come Jabat al Nusra. Questo è dovuto anche alla meccanica interna del conflitto siriano: più il regime (ri)guadagna terreno nelle aree confinanti con il Libano, maggiore è la necessità di queste fazioni di trovare riparo al di là del confine, e dunque di operare in territorio libanese;
3) Il terzo aspetto da considerare per il 2014 è la necessità di andare oltre le dinamiche che hanno sinora coinvolto i Paesi terzi: Russia e Iran da una parte – a favore del regime di Assad – con Arabia Saudita, Qatar, Turchia e potenze occidentali dall’altra. Superare questo posizionamento è fondamentale per intervenire a livello internazionale e poter circoscrivere lo spill-over del conflitto. In questo senso, è molto importante la conferenza che si terrà a Roma in maggio per il rafforzamento delle Forze armate libanesi, sotto l’egida dell’Onu, così come l’annuncio fatto dall’Arabia Saudita relativo all’intenzione di acquistare armi per 3 miliardi di dollari dalla Francia per rinforzare l’esercito libanese. Come pure è interessante l’attivismo di Mosca in Medio Oriente e gli accordi militari firmati con l’Egitto che legittimano il generale Al Sisi in funzione anti-Fratelli Musulmani e in generale contro il radicalismo islamico, così temuto dai russi per i riflessi nel Caucaso e nella stessa Russia. E’ dunque importante che la Conferenza di Ginevra non sia un “episodio” isolato, ma nascano diverse altre iniziative da parte della comunità internazionale.
Proprio su questo aspetto, è fondamentale porre attenzione su altri scenari. In particolare l’Iraq in questo momento è trascuratissimo, ma è un Paese in cui vi sono stati 8.000 morti nel 2013 e dove intere aree sono fuori dal controllo del Governo di al-Maliqi. Il Kurdistan è attualmente più uno stato indipendente che una regione autonoma, con tutti gli attriti e i conflitti esistenti sul tema petrolio. E ad aprile ci saranno le elezioni. Insomma, c’è un grande campo di battaglia mediterraneo che va dalle sponde libanesi alla Mesopotamia, passando per la Siria.
Infine, deve essere questo anche il momento dei definitivi “ripensamenti”, a partire dalla Turchia e dai suoi calcoli sbagliati, sin dall’inizio, sulla soluzione armata. I giudizii sull’idea di un conflitto di pochi mesi sono stati totalmente smentiti da quanto accaduto, e il contagio e l’estensione di questo conflitto su scala regionale sono figli di questa catena di errori. E per ricollegarci anche alla prima domanda, questo clamoroso errore di valutazione della Turchia (e a seguire, degli Usa e di buona parte dell’UE) è dovuto alla mancata conoscenza di quelle che erano forze e dinamiche interne in Siria. Il regime non era destinato a cadere, e avrebbe opposto una forte resistenza, anche perché godeva di aiuti esterni.
Sono passati ormai più di tre anni dall’inizio della cosiddetta “Primavera araba”. Cosa rimane, cosa sottolineare? Stiamo vivendo una fase di transizione verso quali scenari?
Hai già anticipato la mia opinione con quel “cosiddetta”… il termine “Primavera araba” proprio non mi piace: preferisco chiamarle Rivolte arabe. Questi eventi sono il risultato di un processo di disgregazione degli Stati in cui si sono prodotte le rivolte, Stati di fatto semi-falliti, regimi logori ma non ancora defunti con leader anziani agli sgoccioli. Tra questi, la Siria è lo Stato che presenta le maggiori difficoltà a sopravvivere come Nazione. Già da qualche tempo la chiamo la “Ex-Siria”. Il Kurdistan siriano, di fatto autonomo e neppure invitato ai colloqui di Ginevra, è indicativo in proposito.
Certo la questione è poi come possano convivere le varie entità, non è facile soprattutto in assenza di contiguità territoriali: qui la balcanizzazione è frammentaria, ed è difficile tracciare confini su base etnica e settaria come nei Balcani degli anni’90. La Siria forse sarà piuttosto “libanizzata”: si dovrà dividere il potere, è più complicato separarlo in entità diverse. Esiste però in generale un problema relativo all’”essere Stato”, come già abbiamo visto per l’Iraq – che, è bene ricordarlo, è una Repubblica Federale – dove la disgregazione prosegue 11 anni dopo l’occupazione americana del 2003.
In Egitto, la transizione si è ulteriormente complicata con l’avvento della figura di al-Sisi. Dopo tre anni di sangue e rivolte, il Paese si ritrova ad essere in mano ad un altro generale, tra rottura e continuità. A oltre 60 anni dalla rivolta dei Giovani Ufficiali di Nasser, è ancora un militare a governare l’Egitto, senza però la stabilità che i generali riuscivano a garantire nei decenni precedenti. La Tunisia è invece l’unico caso che possiamo guardare in maniera positiva, poiché vi è stata una reazione della società e dei partiti alla violenza. Vi è inoltre un’altra differenza: i partiti islamici che hanno vinto le elezioni in Egitto hanno pensato di poter governare senza il resto del Paese, mostrando una concezione di democrazia assai limitata ed egemonica, mentre in Tunisia non è andata così, dato che il leader del partito islamico Ennhada, Rashid Ghannouchi, contrariamente a Mohammed Morsi, ha saputo fare un passo indietro.
Infine, rimane la Libia, per la quale vi sarà una conferenza internazionale il 6 marzo a Roma. Cosa si può fare? Ci troviamo davanti a uno Stato fallito, diviso in Tripolitania e Cirenaica, ulteriormente disgregato al suo interno secondo linee tribali e claniche, senza una strada né un terreno comune. Il post-Gheddafi diversamente dagli altri casi è frutto di un decisivo intervento militare internazionale, e soprattutto qui è fondamentale che la comunità internazionale si confronti per capire cosa è possibile fare per salvare il Paese dall’anarchia.
Come abbiamo visto dunque, per Siria, Egitto, Tunisia e Libia, stiamo parlando di quattro traiettorie diverse e quattro prospettive diverse. Per questo “Primavera araba” è un termine di comodo: si è verificata una contemporaneità storica assai rilevante nello scaturire di vicende e situazioni che però sono completamente diverse tra loro. Proprio per questo, come dicevamo all’inizio, è fondamentale conoscere e comprendere le dinamiche interne, indispensabili per cogliere la vera natura di quanto sta accadendo in questi Paesi.
Alberto Rossi