Analisi – Un anno dopo il fatidico 17 ottobre 2019. È tutto fermo. La sollevazione della società civile che un anno fa si riversava per le strade di Beirut è stanca a vive il trauma dell’esplosione del 4 agosto. Quali sono gli orizzonti del Libano a un anno da un evento che è stato considerato ed è ancora uno spartiacque nella storia libanese?
LEBANON REWIND
Il 17 ottobre alla presentazione del bilancio del 2020 il pacchetto di riforme prevede l’imposizione di una tassa su WhatsApp. I libanesi, stufi dell’ennesima tassa e sopruso da parte degli attori politici, scendono in piazza per manifestare. Le istantanee di Piazza dei Martiri ricordano quelle della Rivoluzione dei Cedri nel 2005, un fiume di persone si accalca e le immagini mostrano la rabbia e la delusione. Il 17 ottobre non è un caso isolato, le proteste continuano e vengono creati dei sit-in di protesta, si organizzano tavole rotonde e conferenze, eventi di qualsiasi genere. Si parla di politica, di politici, di colpe e omissioni, si inizia a pensare a nuovi orizzonti, si raggiunge la crisi del patto sociale libanese. Dopo 13 giorni di proteste il premier Saad Hariri si dimette, lo sostituisce Hassan Diab. Il nuovo Governo formato a gennaio non piace ai libanesi, che continuano a protestare, e questa volta cominciano veri e propri scontri tra manifestanti ed esercito.
La pandemia arresta per un attimo le proteste, ma già verso fine aprile molte persone ritornano in strada perché incapaci di provvedere economicamente alle proprie famiglie. Infatti se già la situazione economica era pessima, da settembre è proprio cominciata una crisi che sembra non avere fine.
Ad agosto l’esplosione che lascia a bocca aperta l’intero mondo, l’onda d’urto che spazza via una parte considerevole della città e causa duecento morti e più di 7mila feriti. Diab si dimette, la Francia si fa promotrice di un potenziale piano di ripresa, Mustapha Adib è incaricato di formare un Governo, ma si dimette dopo quasi due settimane di tentativi.
Fig. 1 – Il 17 ottobre 2020 i manifestanti si sono diretti verso Piazza dei Martiri a Beirut. A un anno dalle proteste i libanesi continuano a scendere in piazza contro la classe politica.
ET MAINTENANT ON Y VA OÙ?
Il titolo della celebre pellicola della regista Nedine Labaki riassume il sentimento di moltissimi libanesi ad oggi. All’indomani dell’esplosione del 4 agosto i fari si sono accesi sul Libano, ma non evidenziando le problematiche strutturali di un Paese che soffre di corruzione, clientelismo e malagestione endemici. L’esplosione del 4 agosto mostra l’incapacità politica e gestionale di chi dovrebbe proteggere e pensare alla popolazione e non al proprio tornaconto personale. I quartieri più colpiti sono stati rimessi in sesto dai cittadini e dai volontari, che si sono spesi e organizzati per dare una risposta tempestiva per supportare la popolazione colpita e le famiglie più vulnerabili, mentre la politica non ha dato segni particolarmente significativi di vicinanza alla nazione, adottando la strategia dello “scarica barile”.
In generale da un anno a questa parte da un punto di vista politico è cambiato ben poco. Dallo scoppio della thawra il Libano resta in una crisi economica senza precedenti e che andrà a peggiorare – i prezzi continueranno ad aumentare, la carenza strutturale di elettricità pubblica spiega perché le persone hanno cominciato a fare riserve di gas e petrolio per fronteggiare all’inverno, – il Governo, al momento inesistente, non ha fatto passi significativi per risolvere le questioni più importanti, e la classe politica, criticata e attaccata dai manifestanti, non è stata minimamente scalfita. Nel frattempo incendi devastano la regione nord dell’Akkar e dello Chouf e sempre più casi di palazzine scoppiate a causa delle riserve di petrolio e gas sopracitate causano morti e feriti.
Fig. 2 – Un graffito con la scritta “Speranza” su uno degli edifici fortemente danneggiati dall’esplosione del 4 agosto 2020
LE SFIDE DI UNA SOCIETÀ CHE VIVE UN TRAUMA
L’esplosione del 4 agosto, oltre a distruggere letteralmente la capitale, ha provocato, giustamente, nell’immediato l’ira della popolazione verso la classe politica. Naturalmente già nei mesi precedenti alla catastrofe la società civile era arrabbiata e amareggiata, ma lo scoppio al porto di Beirut ha colpito la popolazione nel profondo, viste le perdite in termini di vite umane e le responsabilità dietro all’esplosione stessa della politica, oltre che naturalmente la totale indifferenza della stessa.
Ma la questione, specialmente a lungo termine, acquisisce una portata più ampia, infatti si comincia a parlare di trauma generalizzato, di una dimensione sia collettiva che personale, che ha un fortissimo impatto sociale. Al trauma vanno aggiunte le pressioni derivanti dalla situazione economica, che ha portato all’aumento esponenziale della disoccupazione, sociale (la vulnerabilità e la povertà sono accresciute senza sosta nell’ultimo anno) e, infine, le pressioni sanitarie derivante dall’emergenza sanitaria globale, che in un Paese dove la sanità è privata e proibitiva per la maggior parte della popolazione non è un problema da sottovalutare.
In Libano da un anno a questa parte sembra piovere costantemente sul bagnato. Se sia la crisi economica che sociale hanno piegato il Paese, l’esplosione e la pandemia lo stanno sfiancando ancor di più. Sebbene non fosse tra gli Stati più colpiti e nonostante il susseguirsi di diverse chiusure, ad oggi il virus sembra attaccare il Libano velocemente, i casi aumentano giorno dopo giorno: senza un quadro chiaro della situazione demografica e dei reali numeri della popolazione è impossibile anche calcolarne la portata complessiva.
Fig. 3 – Le forze di sicurezza sono intervenute durante le proteste in Piazza dei Martiri a Beirut il 1° settembre 2020
LA THAWRA È CONCLUSA?
Riflettendo su questa domanda e pensando a quanto successo nell’ultimo anno, probabilmente la thawra non è finita. Il movimento nato ormai un anno fa non si è arrestato, nonostante gli ostacoli e l’impossibilità reale di poter continuare a manifestare per le strade delle città. Ad oggi la fatica fa arrancare coloro che sono scesi in piazza, ma la fiamma non si è spenta. Non credo si possa parlare di fallimento a questo punto, ma piuttosto di metabolizzazione. Il 17 ottobre 2019 ha aperto e portato una consapevolezza diffusa della società civile circa le problematiche e le sfide di un Paese che ha vissuto diversi traumi. Questa profonda consapevolezza è esattamente quello che fa tenere accesa la fiamma.
La “colpa” dei manifestanti è, in fin dei conti, solo quella di non aver presentato un’alternativa politica concreta. Tuttavia, considerando il 17 ottobre non come un inizio che non deve necessariamente risolversi in un batter d’occhio, ma come il principio di un processo più ampio che mira a smuovere dalle fondamenta uno stato che ne ha bisogno, è possibile prevedere un’evoluzione della thawra su lungo termine e quindi una graduale organizzazione politica del movimento. Già oggi si comincia a parlare di diverse anime all’interno della rivoluzione e di pensieri differenti che entrano in dialogo e dibattito su questioni politiche e non, quindi si assiste di fatto alla creazione di diverse correnti politiche non confessionali e che pensano al bene comune.
Tuttavia lo spettro dell’attuale e ormai datata classe politica continua a essere presente e non abbandonare il campo. Le dimissioni di Hassan Diab e il fulmineo incarico di Mustapha Adib hanno portato ad un vaccum politico. Saad Hariri, il premier che ormai un anno fa si è dimesso dopo tredici giorni di proteste, è rimasto da allora in attesa, facendo qualche dichiarazione qua e là e rimanendo ad osservare la situazione. Il 15 ottobre l’ex Primo Ministro è andato al palazzo di presidenziale di Baabda per delle consultazioni con Presidente Michel Aoun e lo speaker della camera Nabih Berri, dicendosi disponibile a formare un Governo e non ricevendo veti. Ieri, a quasi un anno dalle sue dimissioni, Saad Hariri è stato designato con 65 voti “nuovo” premier e ha già manifestato l’intenzione di formare un esecutivo di esperti, senza affiliazione partitica.
Il Libano sembra apparentemente andare indietro nel tempo, le facce della politica stentano a cambiare e il ritorno di Hariri appare come uno spettro che porta indietro le lancette al 16 ottobre 2019. Lo status quo perennemente precario questa volta assisterà all’organizzazione di quella società civile delle piazze che fino ad ora ha protestato. Ma ormai lo sappiamo, il Libano è il Paese delle sorprese. Quello che riserva il futuro può essere predetto, ma fino ad un certo punto, perché nel bene e nel male il Paese dei Cedri ci sorprende sempre.
Antea Enna
Immagine di copertina: “peace inshAllah” by Ranoush. is licensed under CC BY-SA