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Democrazia e Asia Centrale: un binomio impossibile?

Le interviste del Caffè – Le elezioni svoltesi in Kazakistan e in Kirghizistan il 10 gennaio hanno ribadito che la creazione di regimi democratici nella regione è quasi impossibile, ora che anche il Kirghizistan è sulla via dell’autoritarismo con Zhaparov. Ne abbiamo parlato con il prof. Luca Anceschi, docente di Central Asian Studies e coordinatore dell’International Master in Central and East European, Russian and Eurasian Studies presso la University of Glasgow.

Con l’elezione di Zhaparov in Kirghizistan c’è il rischio di un ritorno all’autoritarismo nel Paese? È la fine dell’esperimento democratico in Asia Centrale?

Certo, non c’è dubbio. Quest’anno si festeggiano i 30 anni di indipendenza di tutti gli Stati dell’Asia Centrale e se si facesse una panoramica dello stato in cui versano queste Repubbliche si noterebbe che dopo 30 anni abbiamo essenzialmente 5 dittature più o meno personalistiche. Il Kirghizistan ha avuto un’evoluzione meno lineare dal punto di vista dell’autoritarismo, con un periodo un po’ più aperto seguito da instabilità, però il punto di arrivo è essenzialmente lo stesso. Con Zhaparov si va a creare una dittatura o comunque un forte presidenzialismo che, come si vede a livello regionale, è di facile corruzione, cioè si trasforma facilmente in dittatura. Quindi l’eccezione io l’ho vista finita da un po’, anzi non ho mai creduto a questa eccezione, però quello che ora bisogna vedere è in quale misura l’ascesa di Zhaparov creerà una società chiusa, perché la società kirghisa è la più aperta dell’Asia Centrale per tradizione politica. Bisogna vedere la misura in cui la nascita di una dittatura crei un contesto più chiuso e più autoritario. Secondo me questa è una inevitabile deriva, ritengo che a lungo andare arriveremo a trattare la Repubblica Kirghisa come un altro Stato dell’Asia Centrale.

Si può spiegare la crisi come il solito scontro tra Nord e Sud del Paese?

Si è concluso un processo di cattura dello Stato in cui le bande associate a Zhaparov, in maniera repentina e quasi rocambolesca, si sono impossessate dello Stato e hanno usato malcontento popolare e situazioni di deficit democratico per occupare fondamentalmente tutti i posti di potere. L’aspetto interessante da notare è la velocità con cui questi criminali hanno preso possesso delle strutture dello Stato kirghiso. Che siano espressioni di potentati regionali è inevitabile, perché, comunque, un sistema parlamentare come quello del Kirghizistan si basa su raggruppamenti politici incentrati su personaggi con interessi locali. Però, secondo me, c’è in atto un chiaro processo di cattura dello Stato. Io eviterei di spiegarla come uno scontro Nord-Sud, visto che le differenze regionali sono le stesse che si possono trovare in altri Paesi. 

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Fig. 1 – Sadyr Zhaparov, nuovo Presidente del Kirghizistan

Quindi lei è sicuro che Zhaparov sia appoggiato da bande criminali e oligarchi che lo stiano spingendo per un controllo maggiore?

Su questo non c’è dubbio, anche perché queste bande gli hanno prestato supporto al momento delle elezioni e ora stanno riscuotendo i premi di questa loro fedeltà. Io presumo che il Kirghizistan diventerà sempre più oligarchico, di sicuro più corrotto: la misura in cui diventerà più autoritario dipenderà dal potere che Zhaparov sarà capace di esercitare.

Ci potrebbero essere dei cambi nella politica estera del Paese con un regime autoritario?

Il Kirghizistan a livello internazionale ha poco peso: è piccolo, è povero, è schiacciato tra Cina, Russia e il vicino Kazakistan. In politica estera non ha molte scelte, anche perché non ha risorse energetiche da vendere. Mi sembra pleonastico chiedersi cosa possa o non possa fare. Zhaparov non è arrivato al Governo con un progetto di politica estera: era in galera e lo hanno messo alla presidenza per soddisfare esigenze poco trasparenti. Per sopravvivere politicamente deve pensare prima al sostegno interno e, successivamente, a non turbare troppo, diciamo così, Russia e Cina. I suoi predecessori non hanno attuato particolari politiche estere, sono entrati nell’Unione Eurasiatica, ma una mossa del genere è inevitabile quando ci sono grossi numeri di kirghisi che vivono e lavorano in Russia. L’ingresso nell’Unione Eurasiatica è in tal senso una mossa per regolarizzare quei migranti, facendo in modo che non tornino in patria. Per me la politica estera del Kirghizistan è abbastanza inutile da commentare perché in quel contesto di scelta ne ha davvero poca. Nel 2015 ci fu una polemica tra Atambayev e Nazarbayev perché quest’ultimo voleva un candidato più pro-Kazakistan alle elezioni presidenziali kirghise. Lo scontro sfociò in una chiusura del confine tra i due Stati e il Kirghizistan perse due settimane di derrate alimentari bloccate alle frontiere. Analogamente allo scontro Nord-Sud, io eviterei la retorica anti o pro-Russia per spiegare la crisi, proprio per questi orizzonti ridotti in politica estera.

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Fig. 2 – Scrutatori al lavoro durante le elezioni presidenziali in Kirghizistan, 10 gennaio 2021

Alcuni analisti hanno visto un potenziale allontanamento del Kirghizistan dalle democrazie occidentali nel caso di un nuovo regime autoritario

Affermare che finora ci sia stato un regime democratico mi sembra alquanto difficile: nella sostanza ogni mandato presidenziale è stato caratterizzato dall’attività di gruppi criminali, per poi avere elezioni “democratiche”. Non si può definire un tale regime democratico. L’appoggio dei partner occidentali è sì da considerare, ma la scelta di mantenere relazioni più o meno buone ora dipende dai partner occidentali e non da Zhaparov. Per questo bisogna fare il discorso sull’apertura del Paese: se questo Stato continua a essere aperto, continua ad avere relazioni con i partner occidentali, allora il Kirghizistan potrebbe in qualche modo continuare a usufruire anche degli aiuti di sviluppo dell’Occidente.

Passiamo ora al Kazakistan, si può parlare ancora di transizione post-Nazarbayev dopo le elezioni del 10 gennaio?

La transizione dal regime di Nazarbayev è un processo che è iniziato molto prima che si dimettesse e gradualmente continuerà per molto tempo durante la presidenza di Tokayev. Questa elezione è parte di questo esteso processo di ridistribuzione delle élites: io la considero un esercizio di consolidamento autoritario. Però la misura in cui si può parlare di transizione è studiare con attenzione le liste di chi è stato eletto al Parlamento kazako. Questo è il Parlamento più autoritario che abbiano mai avuto perché non c’è opposizione, nemmeno formalmente. Quindi c’è una chiusura. Abbiamo sentito che Dariga [Nazarbayeva, n.d.r.] sia stata eletta e questo suo ritorno mi fa pensare che sia parte dello stesso processo ridistributivo, in cui però non ha assolutamente nessun ruolo da recitare.

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Fig. 3 – Il Presidente kazako Tokayev al seggio elettorale, 10 gennaio 2021

Si sta muovendo qualcosa in Kazakistan nell’opposizione, viste le continue notizie di manifestazioni nel Paese? Nei prossimi anni potrebbe accedere un evento simile a quello che è successo a Bishkek ad ottobre?

Qui ci sono due chiavi di lettura: la prima è che nel 2019, alle dimissioni di Nazarbayev, la popolazione si chiedeva perché dovesse avere un Presidente nominato e non eleggerne uno. Questo è il primo problema. Secondo me le successive proteste nascono proprio dal fatto che il transfer del potere è stato un vulnus democratico, in quel momento si ricrea una certa scintilla. La scintilla ha causato le proteste del marzo-aprile del 2019. Però quando si nota che nella realtà parlamentare non c’è neanche un partito di opposizione, da una parte ci si rende conto che il regime è fondamentalmente paranoico, dall’altra bisogna comunque ammettere che il regime sembra aver vinto, organizzando elezioni per nulla democratiche e mettendo anche in prigione numerosi manifestanti. In apparenza c’è un certo livello di agitazione politica, però dall’altro lato gli spazi lasciati a questa opposizione sono minimi, pressoché inesistenti. Di sicuro ora siamo in una fase di contenimento democratico e l’opposizione può fare quello che fa, di certo non vinci il Paese con Twitter, taggando l’Unione Europea. Io presumo che sia anche un problema organizzativo. Valutare questo aspetto dall’Europa è tuttavia complicato, ma sono convinto che tali difficoltà possano persistere anche se viste dall’interno: ad Almaty e a Nur-Sultan sembrano tutti antiregime, poi in realtà non è così. Quindi io ritengo che la frase “fuoco sotto la cenere” sia la più adatta a definire la situazione: l’opposizione kazaka si alimenta, ma non brucia, perché così si mantiene la speranza di opposizione, di richiesta dei diritti. Però dall’altra parte, bisogna ammettere che questa elezione si è svolta in un ambito completamente intra-regime. Non vale la pena chiedersi se succederanno gli stessi eventi di Bishkek. Non c’è un movimento democratico unitario. Tra l’altro anche i singoli movimenti si sviluppano attorno a personalità poco chiare, anche questi sono espressioni di potentati o economici o locali, quindi non c’è un movimento antagonista strutturato nel Kazakhstan di oggi.

a cura di Cosimo Graziani

Il Caffè Geopolitico ringrazia il prof. Luca Anceschi per la sua disponibilità e cortesia nell’averci rilasciato questa intervista.

Photo by kuanish-sar is licensed under CC BY-NC-SA

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Perchè è importante

  • Con l’elezione di Zhaparov, l’esperimento democratico in Kirghizistan si può ritenere concluso.
  • A differenza di altre crisi, la politica estera ha ben poco a che fare con la crisi a Bishkek.
  • In Kazakistan nonostante le proteste le elezioni hanno seguito il solito copione.
  • In entrambi i Paesi la politica dei clan e dei gruppi di potere resta l’unica lente per interpretare gli eventi.

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Cosimo Graziani
Cosimo Graziani

International Master in Eurasian Studies presso l’Università di Glasgow e l’Università di Tartu in Estonia. La mia area di interesse riguarda la politica estera dei paesi dell’Asia Centrale, per questo durante il mio master ho trascorso anche un semestre in Kazakistan. Tifoso bianconero, se non parlo di politica mi piace parlare di storia e leggere libri.

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