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Crisi in Kirghizistan: le origini della rabbia popolare

Analisi – Non è affatto facile capire le ragioni profonde del malcontento popolare kirghiso, sfociato nelle proteste dei giorni scorsi. Alla base della rivolta, infatti, non c’è semplicemente uno scontro fra le forze politiche, ma fra la politica e il popolo. Per comprendere come si sia giunti alla rottura fra le élite e la massa, è opportuno ripercorrere le fasi che hanno caratterizzato i 10 anni di democrazia kirghisa.

SPERANZE DELUSE

Dopo la rivoluzione del 2010 il Kirghizistan nutriva grandi speranze nei confronti del nuovo ordinamento politico democratico, davvero originale per un Paese dell’Asia Centrale. Personaggi di primo piano come l’ex Presidente Roza Otunbayeva infondevano fiducia e spronavano giovani onesti e preparati a scendere nell’agone politico. I partiti rappresentavano davvero le correnti ideologiche presenti nel Paese e gli interessi della popolazione. I principali raggruppamenti politici nati a ridosso della rivoluzione e negli anni successivi erano l’SDPK (il Partito Socialdemocratico kirghiso degli ex Presidenti Otunbayeva e Almazbek Atambayev), Ata-Meken, (o Partito socialista, guidato da Omurbek Tekebayev), Ata-Zhurt e Ar-Namis, organizzazioni che potremmo definire di destra e che avevano un deciso orientamento filo-russo. In un secondo momento è nata Respublika di Omurkeb Babanov, un magnate padrone di un network televisivo che sembrava ispirarsi molto a Silvio Berlusconi. Questi partiti – insieme ad altri minori – si alleavano fra loro e davano vita a diverse maggioranze parlamentari. Le elezioni del 2015 si sono svolte in un’atmosfera di calma assoluta e di regolarità: il clima di delusione che già allora si respirava era legato non tanto alla politica, quanto alla difficile situazione economica in cui versava il Paese, che ha poche risorse naturali e un’industria quasi inesistente. I partiti, però, si impegnavano ancora e si sforzavano di dare sovvenzioni e supporto ai piccoli imprenditori decisi ad aprire nuove attività economiche. I problemi sono cominciati nel 2017, quando il Presidente della Repubblica Atambayev, eletto nel 2011 e già al suo secondo mandato, fece arrestare il capo di Ata-Meken Tekebayev, accusato di corruzione. Le accuse in realtà non sono mai state dimostrate e Tekebayev, che godeva di una grande stima popolare per la sua dirittura morale e per la sua onestà, ormai da anni marcisce in carcere. Alle elezioni presidenziali del 2017 Atambayev non si poteva più ricandidare, dato che la Costituzione prevede che il Presidente resti in carica per non più di due mandati. Riuscì però a far eleggere il suo delfino Sooronbai Jeenbekov, che era tuttavia deciso a smarcarsi da Atambayev e lo fece arrestare in maniera spettacolare nell’agosto del 2019. Questo avvenimento può essere considerato il punto di non ritorno della politica kirghisa e il momento della rottura fra élite politiche e popolo.

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Fig. 1 – Manifestazione a sostegno del nuovo premier Sadyr Zhaparov, 15 ottobre 2020

FERMENTI POLITICI

Il partito di Atambayev, l’SDPK, si è dissolto in pochi mesi. Nessuna personalità è riuscita a prendere in mano le redini dell’organizzazione. Jeenbekov non aveva sostegno nel partito, dato che fino ad allora era stato solo un subalterno di Atambayev, i cui sostenitori hanno cercato di fondare un nuovo SDPK senza riuscirci. La maggior parte di loro si è poi ritrovata nel movimento Kyrgyzstan, che in queste elezioni ha passato la soglia di sbarramento. All’interno dell’organizzazione c’erano anche giovani intellettuali, imprenditori e studenti che guardavano a Roza Otunbayeva come modello da seguire. L’ex Presidente, però, coerente fino in fondo, ha mantenuto la promessa di lasciare la politica dopo aver traghettato il Paese dalla dittatura alla democrazia. Delusi, gli attivisti che non si riconoscevano né in Atambayev, né in Jeenbekov si sono ritirati dalla vita politica. A questo punto entrano in campo due nuovi partiti, quelli usciti vincitori dalla competizione elettorale dell’ottobre scorso, Birimdik (Unità) e Mekenim Kyrgyzstan (Kirghizistan mia patria). Birimdik è un partito nato nel 2005 che fino al 2015 non aveva un’indentità ben definita, a tal punto che alle elezioni del 2015 si era presentato insieme ad Ar-Namis. Dopo l’arresto di Atambayev e il tracollo politico dell’SDPK, i membri del gruppo parlamentare SDPK – in vista delle elezioni del 2020 – si sono riversati in Birimdik, che la stampa internazionale giudica essere vicino al Presidente. In realtà è il Presidente a essere vicino a Birimdik, dato che Jeenbekov non è riuscito a costruire una propria base di consenso popolare. Birimdik ha un programma basato sulla socialdemocrazia e sull’esaltazione, a tratti mitica, delle radici eurasiatiche del Kirghizistan. È filo-russo e, a livello di politica estera, non vede alternativa all’appartenza del Kirghizistan all’Unione Economica Eurasiatica.

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Fig. 2 – Membri delle forze di sicurezza in preghiera di fronte alla residenza presidenziale di Bishkek, 15 ottobre 2020

I FRATELLI MATRAIMOV

Il secondo partito, Mekenim Kyrgyzstan, è la vera sorpresa di queste elezioni. È stato fondato nel 2015 da Ajbek e Nurbek Osmonovy, ma è stato successivamente preso in mano dai fratelli Matraimov. Uno di loro, Raimbek, è stato per lungo tempo sostituto del Presidente dell’Ufficio delle Dogane statali. Una posizione che sembra aver portato all’intera famiglia enormi vantaggi. Stando a quanto riportato dalla stazione radio Azattyk, Raimbek si sarebbe arricchito grazie alle tangenti riscosse dall’imprenditore uiguro Habibul Abdukadyr, la cui azienda trasporta beni di prima necessità dalla Cina alla Russia e all’Europa lungo la Nuova Via della Seta. Il reportage di Azattyk è stato criticato e tacciato di faziosità dalla giornalista Eljnura Alkanova in una trasmissione andata in onda sul network Quinto Canale. Sono seguite anche azioni legali da parte di Raimbek Matraimov contro Azattyk. Sia Alkanova sia gli avvocati di Matraimov sono stati improvvisamente inseriti nelle liste elettorali di Mekenim Kyrgyzstan. Il marito di Alkanova, inoltre, ha comprato un appartamento molto costoso in pieno centro a Bishkek con “i soldi ottenuti dalla moglie grazie a un progetto finanziato dal Qatar”. Peccato che la giornalista abbia ricevuto i soldi del progetto soltanto due settimane dopo aver effettuato il bonifico intestato al proprietario dell’immobile, che guarda caso apparteneva alla moglie del socio d’affari di Raimbek, anch’egli, ovviamente, candidato a deputato. Di casi simili a quello appena citato ce ne sono decine, tutti documentati. I membri di Mekenim Kyrgyzistan sono tutti parenti, amici e partner d’affari della famiglia Matraimov. È chiaro che il partito, così come Birimdik, è autoreferenziale, non è legato al popolo e agli interessi che dominano la società. Sia Mekenim Kyrgyzstan sia Birimdik hanno comprato voti in tutto il Paese e intimidito la popolazione.

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Fig. 3 – Il Presidente Jeenbekov dichiara lo stato d’emergenza, 9 ottobre 2020. Pochi giorni dopo si è dimesso dall’incarico

SFIDUCIA NEL SISTEMA

I vecchi partiti sopravvissuti ai terremoti politici, dal canto loro, non rappresentano più l’intero Kirghizistan, ma solo una minima parte dell’elettorato. Ata-Meken, il Partito socialista, senza Tekebayev ha perso la propria identità di gruppo d’opposizione. Ata-Zhurt-Respublika è a sua volta legato a logiche clientelari e di business, con il magnate Babanov, più volte condannato, al quale non crede più nessuno. Il partito liberale Bilbor ha perso di incisività. A questo bisogna aggiungere che la campagna elettorale si è svolta on-line a causa della pandemia di Covid-19. A parte Birimdik e Mekenim Kyrgyzstan, le altre formazioni politiche non hanno avuto i mezzi finanziari per raggiungere l’elettorato e non hanno potuto organizzare comizi, al contrario di Mekenim Kyrgyzstan, che ha riunito – nonostante il divieto di assembramenti – i propri sostenitori in alcune città del sud. In Kirghizistan la politica è sempre stata legata ai due gruppi principali di clan, quelli del nord e quelli del sud. In questo momento, anche se a dominare sono teoricamente i clan del sud, la gente comune è tagliata fuori dal dibattito politico e la democrazia kirghisa è autoreferenziale, persa fra giochi politici e interessi economici mafiosi. Se a questo si aggiunge che a guidare le proteste di piazza c’è l’eterno Adakhan Madumarov, un uomo che ha sempre e apertamente dimostrato antipatia per il sistema democratico, è chiaro che il Paese ha davvero poche possibilità di rimanere una democrazia parlamentare. La maggior parte della gente comune non protesta, sta a casa e attende sfiduciata: della sfiducia e della povertà approfittano gli imam, che con i soldi degli Emirati Arabi continuano a islamizzare il Kirghizistan. Le parole di un’abitante di Bishkek, che vuole rimanere anonima, sono illuminanti e riassumono l’umore di tutto il popolo: “Io ho partecipato alla rivoluzione del 2010, adesso sono stanca. Non mi importa chi sia a gestire la Cosa Pubblica, non mi importa chi sarà il direttore dell’Azienda della Nettezza Urbana. In questi ultimi anni, che il direttore fosse di questo o di quell’altro partito, il camion dell’immondizia non passava. E l’immondizia si accumula, per giorni. Non chiedo più cambiamenti democratici, non voglio più rivoluzioni: voglio vivere in uno Stato in cui il camion della nettezza urbana passi quotidianamente. Questo voglio, la strada pulita e uno Stato che funzioni”.

Christian Eccher

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Perchè è importante

  • Le origini delle recenti proteste popolari in Kirghizistan risalgono agli anni immediamentamente successivi alla rivoluzione democratica del 2010. Le speranze della popolazione hanno infatti finito per cedere il passo alla disillusione.
  • Lo scontro tra Atambayev e Jeenbekov ha minato la stabilità politica del Paese, aprendo la strada a nuovi partiti dall’identità ambigua.
  • Uno di questi, Menekim Kyrgyzstan, è controllato dai fratelli Matraimov, che hanno fatto fortuna in maniera oscura e usano metodi mafiosi a sostegno delle proprie ambizioni politiche.
  • Nonostante le proteste dei giorni scorsi, la gente è apatica e sfiduciata, circostanza che rende il futuro della democrazia kirghisa ancora più fragile e incerto.

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Christian Eccher
Christian Eccher

Sono nato a Basilea nel 1977. Mi sono laureato in Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, dove ho anche conseguito il dottorato di ricerca con una tesi sulla letteratura degli italiani dell’Istria e di Fiume, dal 1945 a oggi. Sono professore di Lingua e cultura italiana all’Università di Novi Sad, in Serbia, e nel tempo libero mi dedico al giornalismo. Mi occupo principalmente di geopoetica e i miei reportage sono raccolti nei libri “Vento di Terra – Miniature geopoetiche” ed “Esimdé”.

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