Stremata da un’economia in stato febbrile e minacciata da un vicinato instabile, l’Unione europea stenta a trovare una guida che sappia donare lungimiranza prospettica a una cittadinanza sempre più disillusa. Facciamo il punto sulla leadership nella regione.
PARADOSSO DELL’INTEGRAZIONE – L’Unione europea è da decenni protagonista di un lento, ma inesorabile, processo di democratizzazione. Tuttavia, preoccupano la persistente congiuntura economica negativa e la storica necessità, non più supportata da uno scenario internazionale bipolare, di una metamorfosi istituzionale del continente europeo. L’assenza di un progetto economico che tenga conto delle naturali differenze che intercorrono tra le varie economie nazionali e l’opacità del traguardo cui questa Europa ambisce hanno radici comuni. È infatti inverosimile stabilire regole economiche tipiche di un’area valutaria ottimale laddove non si ravveda l’intenzione di perseguire la via del federalismo istituzionale, mirando cioè verso l’unione politica come approdo finale. Nello specifico, ogni tappa verso una maggiore integrazione economica e monetaria è stata presentata come fatto compiuto, indispensabile al perseguimento di un fine politico (federale?) ad appannaggio di pochi. I Governi ritennero propiziatoria la fallacità del progetto economico e monetario e si avvalsero delle crisi economiche esterne come espediente per un’accelerazione verso l’istituzione di un’unione politica, riguardo alla quale non ci sono state consultazioni popolari. Quello dell’integrazione europea non è stato un processo nato dal basso. Il processo di democratizzazione delle Istituzioni cui il cittadino europeo assiste come fosse una concessione in suo onore risponde, in realtà, al processo di “umanizzazione istituzionale” che l’Unione, per dignità storica, non poteva esimersi dal perseguire. In antitesi al «mostro buono di Bruxelles» paventato da Hans Magnus Enzensberger in un recente pamphlet che analizza lo scetticismo popolare verso l’UE, «l’Unione dalle sembianze umane» legittima i decisori a effettuare manovre nefaste sul piano economico, senza che il cittadino europeo, addomesticato dalle recenti concessioni democratiche, si senta tradito da un processo di cui disconosce le finalità.
STATO DELLA LEADERSHIP IN EUROPA – È naturale ritenere che presiedere il Consiglio significhi assumere de facto il ruolo di primus inter pares. Come tale, il Paese membro che detiene la presidenza semestrale ha la possibilità di indirizzare la prua dell’Unione ed esserne guida propositiva ad interim. Ampia eco, oggi, per esempio, stanno avendo temi quali i diritti umani, il principio di flessibilità e il rapporto empatico Istituzione-cittadino, notoriamente cari alle presidenze italiane. Non vi è prova, tuttavia, che ciò si traduca in politiche perseguibili solo perché patrocinate dal Governo di turno. Come suggerito nel paragrafo precedente, il rischio è che l’autoreferenzialità insita nel genoma delle compagini politiche europee trasformi lo spazio di manovra concesso dal semestre in un teatro di visioni, sogni e progetti strettamente nazionali. Di una tale miopia ha dimostrato più volte di essere affetta quella che all’unanimità è considerata la “locomotiva d’Europa”, la Germania. Indifferenti al vincolo temporale del semestre, del quale un Paese mercantilista per definizione non ha bisogno per vedere rispettate le proprie ragioni, i Governi tedeschi del post-unificazione hanno – complice il lassismo di alcuni partner europei e una forzata quanto insostenibile unione monetaria – scaricato l’onere di una bilancia dei pagamenti completamente squilibrata sulle economie dell’eurozona.
CONCLUSIONI – La cautela emersa dalle conclusioni dei recenti Consigli nei riguardi di questioni quali l’avanzata dell’ISIS, il neo-imperialismo russo, l’annosa diatriba israelo-palestinese e la stagnazione economica, riflette l’assenza di uno Stato o di un asse di Stati membri che sappia(no) prescindere dalle proprie prerogative nazionali, spesso legate a interessi particolari, quando a essere chiamate in causa siano le sorti di uno Stato di diritto che l’Europa ha contribuito a creare. La leadership europea è vacante proprio perché non vi è Stato o asse che sia che intenda da un lato assumere l’oneroso compito di scortare l’Unione europea fuori da una crisi economica “domestica”, dall’altro assumere posizioni precise in merito a un vicinato in fiamme e non sopperire alla logica dello «extremely concerned». Assumere la leadership equivale alla sintesi delle istanze comuni, attitudine alla quale l’asse franco-tedesco non può definirsi fedele. La Gran Bretagna, la quale per bocca di lord Palmerston «ha solo interessi permanenti», difficilmente cederà alle lusinghe di chi le chiede di assumere un ruolo principale all’interno dell’Unione. Quanto all’Italia, i Trattati le hanno concesso il semestre più convulso, in termini economici e geopolitici, dalla caduta del Muro di Berlino, ma l’occasione per imprimere una svolta storica all’appannato processo di integrazione europea è irripetibile.
Daniele Morritti
[box type=”shadow” align=”alignleft” ] Un chicco in più
Si terrà il 30 agosto il nuovo vertice del Consiglio europeo, presieduto dall’Italia. All’ordine del giorno ci sarà la nomina dei nuovi commissari europei. L’Italia punta alla nomina di Federica Mogherini, attuale ministro degli Esteri, ad alto rappresentante per la Politica europea di Sicurezza e Difesa (PESC). Un ruolo fino a oggi considerato scarsamente rilevante. Saremo in grado di rilanciarne l’azione?[/box]