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«Cosa aspettiamo a parlare con Assad?»

Una chiacchierata a 360 gradi con Alberto Negri, inviato del Sole 24 Ore da poco rientrato dal Kurdistan iracheno, per discutere dello scenario attuale in Medio Oriente, con l’avanzata di Isis e le possibili azioni da compiere in merito, e nel Maghreb, con la frantumazione della Libia. Tra i tanti temi toccati, emerge l’urgenza di trovare soluzioni, oltre alla retorica delle precondizioni e del “con chi possiamo parlare”.

Davanti all’avanzata del Califfato, come valuta la scelta di armare i curdi? È corretta, e soprattutto è sufficiente?

Sono rientrato settimana scorsa dal Kurdistan iracheno. La decisione di armare i curdi mi sembra che abbia il fiato corto. Innanzitutto perché il Califfato non può essere contrastato solo in Iraq, ma anche in Siria. Inoltre i Curdi non sono arabi, costituiscono una minoranza e pure non troppo popolare tra i sunniti: il loro raggio d’azione in Iraq è limitato al Nord. Il primo tema da considerare è che gli USA si sono accorti del problema con forte ritardo. Quanto accaduto nel Kurdistan iracheno è indicativo: a trenta minuti d’auto da Erbil, le truppe peshmerga si sono di fatto liquefatte, abbandonando l’area senza sparare un colpo. Il Califfato è entrato senza combattere, e poi se n’è andato. Il Kurdistan è per il Califfato un obiettivo tattico, volto a mantenere un forte livello di pressione e a organizzare la pulizia etnica, più che strategico.

Quindi l’alternativa è un impegno diretto di USA e alleati?

A questo punto, se davvero si vuole fermare Isis bisogna intervenire direttamente. Occorre però sottolineare che ogni decisione che si prende ora è figlia di un’urgenza che Obama e l’Occidente si trovano ad affrontare davanti al Califfato. Ma questa urgenza è il risultato delle politiche sbagliate di medio e lungo termine adottate. Dopo il disimpegno dall’Iraq, si torna ora in maniera poco coordinata, sconclusionata. La politica USA nell’area si è rivelata un fallimento negli ultimi 4-5 anni (per non dire negli ultimi 40-50), e le decisioni dettate dall’urgenza non possono essere adeguatamente soppesate, sono dettate da un’onda emotiva, non ragionate. Gli interventi dovevano essere effettuati prima, ma c’è una forte resistenza degli USA nel cambiare questa politica mediorientale.

Come è stato possibile arrivare fin qui?

Viviamo ora il risultato di tutta una serie di fallimenti. La guerra di Gaza è figlia del fallimento di nove mesi di negoziati di Kerry tra Israeliani e Palestinesi. Lo scenario iracheno deriva dalla guerra del 2003, la frantumazione libica dall’intervento del 2011. E poi c’è la Siria, l’errore di calcolo più clamoroso. Nel 2011, dopo venti giorni di conflitto interno, USA, Turchia ed Europa ritenevano che Assad non potesse durare che poche settimane, o pochi mesi al massimo. E invece ora abbiamo un Paese disgregato, con un regime relativamente solido, nonostante le destabilizzazioni operate da Turchia e altri attori arabi che hanno dato via libera all’accesso di gruppi jihadisti. Da anni gli USA si dicono alla ricerca di una “opposizione moderata”, che è però stata fagocitata nel tempo da Isis e dai gruppi più estremisti: di fatto è una sorta di bugia pietosa, buona solo per la retorica delle conferenze internazionali.

Bashar al-Assad, Presidente siriano
Bashar al-Assad, Presidente siriano

Di fatto, sembra che ogni volta che si sceglie di fare qualcosa, la si sbagli. O si sia sempre un passo indietro nella capacità di lettura e gestione delle crisi.

È così, ogni volta che ci si muove si peggiora. Ora siamo giunti alla fase in cui la stampa USA si chiede se sia possibile un dialogo con Assad. Una domanda che andrebbe ribaltata così: ma quando ci si muove per parlare con Assad? La conferenza di Ginevra era stata creata con lui e con il regime, e in seguito sono state invece poste precondizioni che hanno chiuso ogni possibile dialogo. Dobbiamo smetterla con la retorica del “con chi possiamo parlare”: iniziamo a parlare! Solo così si potrà trovare una soluzione politica e militare.

Un anno fa, nel commentare il possibile intervento americano contro Assad, ci diceva che in tal caso della Siria non sarebbero rimaste che macerie. Almeno lì si sono evitati mali peggiori.

Sì, questa è la prova che la politica USA è fatta di paradossi e contraddizioni. Un anno fa si parlava di bombardare Assad: se fosse andata così, in questo momento Abu Bakr Baghdadi farebbe colazione sulle rovine di Damasco. L’intervento è stato frenato da Putin con l’accordo sulle armi chimiche, per il quale anche gli USA si sono congratulati. Ciò ha dimostrato che è possibile ottenere risultati anche senza sparare per forza. Ovviamente, si tratta sempre di scegliere il male minore.

Forse se ne parla un po’ meno, ma anche in Libia la situazione sembra giungere a un punto di non ritorno…

La Libia con un piede sta entrando in un processo di somalizzazione, mentre l’altro piede è già affondato da tempo. La secessione di Tripolitania e Cirenaica si sta per compiere, e di per sé questa era un’ipotesi prevista prima ancora della caduta di Gheddafi. Dobbiamo ricordarci che la Libia nasce da un’idea coloniale italiana di unione di queste due regioni. Davanti al crollo del regime di Gheddafi, sono emerse tutte le divisioni possibili del Paese. Non solo tra clan e tribù, tra islamisti e anti islamisti, ma proprio a livello regionale e locale. Abbiamo attaccato la Libia, e le ragioni si possono anche comprendere. Ma cosa conoscevamo di questo regime, oltre la superficie di un leader certo autoritario, paradossale, autocratico, persino con una vena di follia? Era di fatto il leader di un Paese diviso, sempre meno Stato, indecifrabile. Quando la luce del potere è così forte e abbagliante, la società rimane in ombra. Quando si spegne la luce, si illuminano zone per noi sconosciute, e che riservano amare sorprese.

Un gruppo di persone su un carro armato a Bengasi
Un gruppo di persone su un carro armato a Bengasi

È possibile intervenire in qualche modo in questo processo?

Mentre noi ce lo chiediamo, Egitto ed Emirati Arabi Uniti bombardano le milizie islamiche a Bengasi e a Tripoli. I vuoti vengono riempiti: l’Occidente da questo punto di vista non si può lamentare. La guerra civile si allarga, diviene anche una guerra per procura, come in Siria. L’Occidente è intanto inerte, e non dà risposte politiche e militari. Bisognava considerare che la Libia non ha mai avuto una democrazia, delle istituzioni, e neanche un esercito: una transizione tranquilla era impossibile. Qui sarebbe servita una missione delle Nazioni Unite. Un Paese di poco più di 6 milioni di abitanti sparsi in un’area vastissima è per sua natura soggetto a una forte instabilità. E non possiamo ignorare anche il tema dell’immigrazione clandestina, e di quello che stanno diventando le coste libiche, di fatto una sorta di Tortuga sul Mediterraneo in mano a pirati trafficanti di esseri umani.

Spuntano dunque nuovi e influenti attori protagonisti, che si muovono senza “permessi” occidentali e giocano ruoli ambigui. Quali sono quelli da considerare maggiormente?

Si parla spesso delle interferenze e dei ruoli negativi giocati da diversi Paesi, tra cui Qatar e Arabia Saudita. Si cita molto di meno, invece, il ruolo devastante giocato da Erdogan in Siria e in Iraq. È lui ad aver dato il via libera alle frontiere ai jihadisti contro Assad. Gli islamisti di tutto il mondo sono atterrati ad Antiochia. E la Turchia è un Paese membro della Nato! È normale questo, è questa la politica della Nato? Continuo a chiedermi perché non si cerchi di contenere i continui disastri di Erdogan.

al-Baghdadi
Al-Baghdadi, leader dell’Isis

In tutto questo scenario descritto, quanto pesa il ruolo della religione? Stiamo parlando prevalentemente di conflitti civili territoriali o di un conflitto religioso interno all’Islam?

La dinamica religiosa interna all’Islam certamente ha un suo peso, e da molto tempo, sin dai conflitti in Afghanistan seguiti al crollo dell’Unione Sovietica, e dalla guerra di Saddam contro l’Iran (1980-1988), con il sostegno dell’Occidente e delle Monarchie del Golfo. Non dobbiamo dimenticarci che i conflitti attuali vengono anche da qui. Il Califfato si pone di fatto come Stato sovranazionale che riunisce i sunniti in un unico Stato islamico, perpetrando inoltre tutta una serie di atrocità, che neanche conosciamo interamente. Non si tratta di porre una certa visione del Corano sopra un’altra, ma di attuare pratiche legate all’imposizione di un nuovo ordine costituito, tramite violenza e mezzi efferati. Da questo punto di vista, bisogna anche dire che non si è scatenato un dibattito all’interno dell’Islam: le voci che condannano il Califfato sono assai poche, e paiono poco convinte. Certo alzare la voce implicherebbe anche fare i conti in casa propria, con il proprio Islam, che in più occasioni non rispetta i minimi diritti dell’uomo. Davanti a quello che stiamo vedendo in queste settimane, dovremmo richiamarci alla Carta delle Nazioni Unite. Nel campo sunnita questa è purtroppo una partita che si sta perdendo, dato l’emergere di tutte queste voci paradossali. Gli sciiti appaiono invece più compatti: l’Iran si pone come punto di riferimento, in Iraq sono la maggioranza, in Libano c’è Hezbollah. Attori statali e non statali condividono maggiormente una visione comune.

Le sue parole sembrano dar voce a chi sostiene che l’Islam moderato nel migliore dei casi è inerme, mentre nel peggiore dei casi non esiste… Qual è la sua visione in merito?

Il punto è chiedersi se può esistere un Islam moderato, così come se si può parlare di un “Cristianesimo moderato”, o in generale di una religione moderata. Esistono dogmi intoccabili, ed è difficile che la religione possa proporre compromessi: i dogmi non sono negoziabili. Ci sono però musulmani pragmatici e moderati: con questi si deve trattare. L’Occidente si è confrontato per secoli con le guerre di religione. Poi va certamente detto che nell’ultimo secolo vi sono stati diversi tentativi di superare la questione religiosa. Pensiamo ad Ataturk e alla sua svolta laica dopo la sconfitta devastante dell’Impero ottomano, a Reza Pahlavi ultimo Scià in Iran, alla decolonizzazione di molti Stati nordafricani improntata su modelli laico-socialisti anche per la vicinanza al campo sovietico, al partito baathista nato in Siria e Iraq dopo la Seconda guerra mondiale, con una ideologia nazionale e socialista che ha permeato molti comportamenti delle rispettive società.

Quali prospettive vede adesso? Quanto potrà cambiare la cartina del Medio Oriente?

Il vero problema è che oggi sono emerse due tendenze contemporaneamente: da un lato l’integralismo e l’estremismo islamico, che hanno origine alla fine degli anni Settanta, dall’altra la disgregazione degli Stati nazionali, con il crollo dei regimi laici secolarizzati. Questo ha creato un vuoto che non è stato riempito, e qui si pone un problema anche ideologico: come trovare un’alternativa in questi Paesi alla creazione di uno Stato islamico? E poi, come ristabilire l’unità nazionale? Quest’ultimo tema è tutt’altro che secondario. Gli interventi militari da soli sono di corto respiro: ci dobbiamo chiedere se vogliamo ancora l’unità di Paesi come la Siria, l’Iraq, la Libia. Le parole spese nelle conferenze mediorientali per mantenere le unità nazionali sono esercizi retorici, nei fatti assistiamo a un vero sgretolamento, ed è possibile che vedremo in breve tempo cambiare la mappa del Medio Oriente come mai è cambiata dal 1916, anno dell’accordo Sykes-Picot. Ci aspetta così un mondo arabo più frammentato, meno controllabile, e dunque più temibile.

La copertina del "Time" sulla "persona dell'anno" del 2011
La copertina del Time sulla “persona dell’anno” del 2011

Sono passati più di quattro anni e mezzo dall’avvento delle cosiddette “Primavere arabe”. Come ridefinirle, alla luce di quanto avvenuto dopo?

Quelli che riguardo all’avvento di questo fenomeno preconizzavano «l’inverno del nostro scontento», per dirla alla Riccardo III, venivano considerati ai tempi alla stregua di profeti di sventure, ma nei fatti non sono mai stati smentiti, ed erano probabilmente i più attenti alle realtà che si presentavano nei territori. La rivolta più genuina è stata quella tunisina, dove uno dei tanti rais senescenti, attaccato alla poltrona fino all’ultimo respiro con il suo clan, era arrivato al capolinea della sua vita, politica e non solo. Avvenuta tra pericoli e difficoltà, la rivolta tunisina ha poi preso una piega positiva, grazie al fatto che il partito islamico ha capito che sarebbe stato un gravissimo errore quello di voler governare da soli. È l’errore che di fatto ha compiuto Morsi in Egitto: lì chi ha vinto si è preso tutto, e la democrazia non è stata intesa come coabitazione di maggioranza e opposizioni in un principio di alternanza. Il caso libico è stato ben diverso: l’opposizione di Bengasi non avrebbe mai oltrepassato la Cirenaica senza un intervento da fuori.
Il punto è che occorrerebbe riflettere di più sulle differenze tra rivolta e rivoluzione. Nelle rivolte, vengono abbattuti i regimi autocratici, e poi come nel caso dell’Egitto con un colpo di stato popolare torna al governo un generale. Quelle avvenute sono state delle rivolte, non delle rivoluzioni, che invece portano con sé programmi, apparati ideologici, intellettuali: non solo mere sostituzioni di potere, ma decisioni concrete su cosa fare con questo potere, come per esempio l’impostazione di una maggior giustizia sociale, una redistribuzione delle ricchezze, una riduzione dei privilegi delle élite dominanti, che sono invece sempre rimasti immutati. La rivoluzione vera è stata un’altra: quella del cambiamento nella regione dei rapporti di forza e delle alleanze. Per le popolazioni, invece, è cambiato poco: sono sempre assoggettate a poteri amministrati dall’alto, né più giusti, né più democratici, né meno autoritari di prima.

In conclusione, esiste qualche azione politica e militare che potrebbe portare a una soluzione?

La realtà è ben peggiore di tutte le previsioni. Andando in Siria ho visto un Paese distrutto, in ginocchio. È disperante, ancora di più dopo aver già visto nel decennio scorso un Iraq distrutto. Quanti Paesi vogliamo ancora vedere frantumare sotto i nostri occhi, quando abbiamo in mano le soluzioni per limitare i danni, per limitare la sofferenza degli individui e di intere generazioni? Come si fa a non parlare con Assad? L’Iraq nel 2003 veniva da dodici anni di embargo, di isolamento dal mondo, senza telefoni, cibo, medicine. Con l’attacco a Saddam si è data una bastonata a un moribondo, e questo ha portato alla dissoluzione del Paese, a più terrorismo e a una guerra civile devastante. Se diamo un’altra botta ad Assad, cosa accade poi, cosa ci rimane in mano?

Alberto Rossi

 

[box type=”shadow” ]Un chicco in più

Alberto Negri
Alberto Negri

Alberto Negri è nato a Milano nel 1956. Il suo primo viaggio in Iran e in Medio Oriente risale al 1980. È stato ricercatore all’Istituto di studi di politica internazionale e nel 1981 ha iniziato la carriera giornalistica. Autore del libro Il Turbante e la Corona  Iran, trent’anni dopo (Marco Tropea Editore, 2009), è inviato del Sole 24 Ore, per cui ha seguito negli ultimi vent’anni i principali eventi politici e bellici in Medio Oriente, Africa, Balcani, Asia centrale.

Questa è la sua quarta intervista con il Caffè. Potete rileggere qui le precedenti:

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Alberto Rossi
Alberto Rossi

Classe 1984, mi sono laureato nel 2009 in Scienze delle Relazioni Internazionali e dell’Integrazione Europea all’Università Cattolica di Milano (Facoltà di Scienze Politiche). La mia tesi sulla Seconda Intifada è stata svolta “sul campo” tra Israele e Territori Palestinesi vivendo a Gerusalemme, città in cui sono stato più volte e che porto nel cuore. Ho lavorato dal 2009 al 2018 in Fondazione Italia Cina, dove sono stato Responsabile Marketing e analista del CeSIF (Centro Studi per l’Impresa della Fondazione Italia Cina). Tra le mie passioni, il calcio, i libri di Giovannino Guareschi, i giochi di magia, il teatro, la radio.

Co-fondatore del Caffè Geopolitico e Presidente fino al 2018. Eletto Sindaco di Seregno (MB) a giugno 2018, ha cessato i suoi incarichi nell’associazione.

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