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Egitto: tra repressioni e violenza, qualcosa si muove

Oltre un anno e mezzo dopo la deposizione di Morsi, l’Egitto è ancora alla ricerca di stabilità e legalità interna.

Le richieste politiche del Paese coincidono solo in parte con gli obiettivi della macchina statale diretta da al-Sisi, che pare essersi ingolfata in un meccanismo dispotico e di continua ricerca di colpevoli, dentro e fuori i confini dell’Egitto. Analizziamo di seguito alcuni dei punti più rilevanti oggi per comprendere le problematiche del Paese, tra cui l’ampio ricorso alla violenza, i rischi posti dal jihadismo, la disaffezione sociale e il rapporto con i Fratelli Musulmani.

REPRESSIONI VIOLENTE – Alla fine del mese di gennaio si è tornato a parlare di Egitto sui media mainstream europei in relazione ad alcuni episodi di violenza perpetrati da parte delle stesse Istituzioni egiziane. Il caso più eclatante è sicuramente quello relativo all’uccisione di Shaima al-Sabagh, attivista e dirigente del partito Alleanza popolare socialista, colpita a morte dalla polizia durante una manifestazione, nel giorno della vigilia del quarto anniversario della Primavera egiziana. Come Shaima, decine di altre persone hanno perso la vita in Egitto a causa del loro attivismo: dal novembre 2013, infatti, una norma legislativa limita fortemente il diritto di manifestazione. La legge era stata introdotta per tamponare le rivolte della Fratellanza Musulmana, ma appare oggi anacronistica, andando a insistere sulla totalità delle alternative politiche. Inoltre, la repressione di al-Sisi ha colpito duramente anche giornalisti e accademici: ogni presunto legame con fazioni politiche avverse al potere è pesantemente sanzionato con censure e reclusioni. Se in passato le motivazioni addotte da al-Sisi per mantenere tale atteggiamento sembravano funzionare, quantomeno per il successo ottenuto sul piano regionale, oggi il Rais deve fare i conti con una popolazione che è stanca di anteporre la sicurezza al benessere, soprattutto dal momento che proprio la sicurezza viene a mancare anche a causa della stessa autorità che dovrebbe garantirla. È nella stessa disaffezione popolare verso le Istituzioni che si sono radicati alcuni fenomeni che ci apprestiamo a vedere, partendo dalla crisi del Sinai. 

LA POLVERIERA SINAI – La minaccia numero uno alla sicurezza egiziana si chiama Ansar Bayt al-Maqdis, gruppo islamista radicato nel Nord del Sinai, conosciuto anche come Wilaya Sinai, dal nome dell’appezzamento territoriale che essi sostengono di controllare e di aver devoluto allo Stato Islamico. Nonostante l’impegno militare profuso da al-Sisi per sconfiggere il gruppo, questo sta perpetrando una serie impressionante di attacchi verso obiettivi militari e civili, spostando di fatto la sua area operativa anche nell’Egitto continentale (il 23 gennaio un’autobomba è esplosa davanti a una stazione della polizia al Cairo). Il gruppo terroristico si è rinforzato notevolmente, nonostante siano già mille i miliziani uccisi dall’esercito. Sembra infatti che al-Baghdadi stia sostenendo fortemente la sua provincia egiziana, avendo fatto arrivare da Derna (altra roccaforte del Califfato) armi e missili terra-aria prelevati dall’arsenale di Gheddafi, responsabili dell’abbattimento di un elicottero egiziano nel Nord del Sinai a fine 2014. Fra gennaio e febbraio 2015 il gruppo avrebbe invece attaccato dieci basi militari egiziane, uccidendo circa 70 soldati. Questa tenace resistenza, sostiene un portavoce del gruppo, è un segnale che l’organizzazione vuole mandare al suo emiro al-Baghdadi: un ringraziamento per gli aiuti giunti dal Califfato e una dimostrazione di meritata fiducia. Al-Sisi è naturalmente corso ai ripari: sembra che vi siano trattative con gli Emirati Arabi Uniti per l’acquisto di alcuni aerei Dassault Mirage 2000, e con la Russia per l’acquisizione di MIG-35. Inoltre, per limitare i flussi dalla Libia, il ministro degli Interni al-Sinki ha annunciato l’invio a Tobruk di alcuni uomini dei servizi segreti per addestrare circa 2mila libici in operazioni di counter-terrorism. L’esercito egiziano, nel frattempo, procede con gli arresti e le chiusure dei tunnel di collegamento con Gaza. Conscio dell’importanza di istituzionalizzare l’area e riguadagnare il consenso della popolazione beduina, il ministro delle Infrastrutture e dello Sviluppo urbano Moustafa Madbouly ha dato il via a quattro comunità di sviluppo nel Nord della penisola, pianificando l’apertura di altri 26 villaggi entro la fine dell’anno. La speranza è che, dando alla popolazione locale degli strumenti di sussistenza autonomi (agricoltura e pesca), questa preferisca nel futuro mantenere l’affiliazione allo Stato piuttosto che affidarsi a gruppi illegali.

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Mohammad Badie, guida dei Fratelli Musulmani, in carcere e condannato alla pena di morte nel giugno 2014

I FRATELLI MUSULMANI – Come abbiamo già avuto modo di vedere, la narrazione politica di al-Sisi individua nei Fratelli Musulmani la causa primaria degli attuali disordini in Egitto. Ironicamente entrambe le parti sembrano intenzionate a fare in modo che questa situazione continui. Dalla caduta di Morsi a oggi la Fratellanza non ha fatto altro che insistere con il ritorno del vecchio Rais, inscenando una serie continua di proteste e manifestazioni. Internamente questa monotonia operativa ha permesso al gruppo di non scollarsi e rimanere unito (nonostante potenti forze centrifughe), dando un amalgama ideologico comune a tutti i suoi membri e infondendo un senso di utilità politica nonostante la totale esclusione dall’establishment. Esternamente l’impegno del gruppo in sit-in, marce e manifestazioni è un segnale di potenza che al-Sisi non può sottovalutare: la Fratellanza, continuando a mostrarsi attiva e folta, evita di disperdersi e mantiene aperta la porta a futuri negoziati per la reintegrazione. Sembra infatti impossibile oggi pensare a una futura scena politica priva della presenza degli Ikhwan: il gruppo, che ha profuso un enorme impegno intellettuale nella contestazione del regime, non potrà più guadagnare l’appoggio della popolazione senza passare dalle elezioni. Inoltre, dalla parte di al-Sisi, un’eventuale apertura verso i Fratelli e la concessione della rappresentanza politica potrebbero portare un domani al tanto sperato scenario di sconfitta elettorale di questi ultimi. In sintesi, oggi la difesa dello status quo è desiderata da ambo le parti, in attesa di tempi migliori. Il regime, sfruttando l’aggressiva protesta dei Fratelli Musulmani, trova continue opportunità per l’utilizzo della forza. La Fratellanza, agendo in maniera essenzialmente reattiva al regime, riesce a rimanere compatta, posticipando e tergiversando i nodi più spinosi da affrontare al suo interno. Cronologicamente, l’ultima accusa lanciata dal regime ai Fratelli Musulmani è stata indirizzata verso la Turchia: lì, sostiene l’establishment egiziano, i Fratelli starebbero trovando terreno fertile per organizzarsi e coordinare le proteste in Egitto. Accusa, questa, probabilmente catalizzata dalla presenza del canale televisivo Rabi’a, di proprietà degli Ikhwan, a Istanbul: proprio questa televisione il 29 gennaio ha mandato in onda una serie di minacce concernenti future proteste in Egitto.

RIFORMA ECONOMICA… E RELIGIOSA – La sopravvivenza di al-Sisi è anche e soprattutto una questione economica: molto dipenderà dalla sua capacità di creare posti di lavoro nel breve periodo. Dalla fine dell’era Mubarak, il tasso di disoccupazione in Egitto è balzato dall’ 8,9% al 13%. Per dare una scossa all’economia, il Presidente ha presentato alcuni progetti di grandi infrastrutture, tra cui un secondo canale di Suez. Anche gli investimenti esteri stanno lentamente tornando: nel 2015 sono previste iniezioni di 10 miliardi di dollari, al cospetto dei 6 dell’anno precedente. Eppure al-Sisi rimane sempre fortemente ancorato alla sua priorità: riformare l’Egitto islamista, eliminando ogni deriva fondamentalista dal Paese. A tal proposito, in occasione del World Future Energy Summit, il Rais ha rilasciato un vero e proprio messaggio rivoluzionario, ammettendo la presenza di un problema nel pensiero islamico contemporaneo, e chiedendo uno sforzo di revisione per un futuro più armonioso.

Marco Arnaboldi

[box type=”shadow” align=”aligncenter” ]Un chicco in p

Proponiamo un interessante articolo della Fondazione Oasis sulle implicazioni della riforma religiosa di al-Sisi, raggiungibile a questo link.

Inoltre, segnaliamo la visione del canale televisivo turco Rabia TV, outlet ufficiale dei Fratelli Musulmani egiziani.

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Marco Arnaboldi
Marco Arnaboldihttp://www.jihadistanblog.blogspot.com

Ventiquattro anni, saronnese, mi sono laureato in Relazioni Internazionali (studiando anche la lingua araba) presso l’Università Cattolica di Milano con una tesi sui combattenti europei impegnati in Siria. Sono stato Visiting Student a Siviglia e a Gerusalemme, attualmente frequento una specialistica in Politiche Internazionali. Ho lavorato come analista presso un’azienda di security consultancy, oggi collaboro con alcuni istituti di ricerca e diverse testate italiane. I miei temi di analisi sono il Medio Oriente, l’Islam politico, il jihadismo e l’home-grown terrorism. Da ultimo, curo un sito sul Jihadismo targato IT (www.jihadistanblog.blogspot.com).

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