La crisi che sta interessando la Libia richiama alla mente l’intervento militare che, nel 2011, aveva condotto alla morte di Gheddafi – evento che, di fatto, rappresenta la causa più prossima dell’attuale situazione in cui versa il Paese. Quali sono le principali differenze tra gli eventi del 2011 e quelli più in corso?
LE ORIGINI DELLA CRISI – Nel 1969 gli Ufficiali Liberi guidati da Muhammar Gheddafi destituivano re Idris, gettando le basi per quella che un decennio dopo sarebbe diventata la Jamahiriya araba popolare socialista di Libia. Per la totale trasformazione in Jamahiriya, concetto applicato unicamente a questo Paese, si sarebbe dovuto procedere all’istituzione di uno “Stato delle masse”. Tuttavia l’organizzazione politica che ne è scaturita non solo non ha privilegiato la maggioranza della popolazione, ma è rimasta anche ben lontana dallo stesso concetto di Stato. La ricchezza derivata dalle rendite petrolifere ha avvantaggiato solo gruppi di ristretti persone, e le Istituzioni di ispirazione democratica inizialmente costituite – Comitato generale del popolo e Congressi popolari di base – hanno ben presto lasciato spazio a un network di potere informale, guidato da Gheddafi – Leader della rivoluzione – e comprendente i consigli della rivoluzione, un gruppo di consiglieri personali (gli “uomini delle tende”, legati da vincoli di parentela, tribali o amicali con lo stesso Gheddafi) e i capi di alcune delle 140 tribù presenti il Libia.
Il 20 ottobre 2011, la morte di Gheddafi – e la conseguente conclusione del periodo della Jamahiriya – vengono salutati come il giorno della nascita di una nuova Libia, che a detta di molti sarebbe ben presto diventata un Paese del tutto democratico. Il processo di transizione è stato effettivamente avviato, ma dopo qualche anno ha subito un blocco, dovuto all’incapacità dei vari Governi succedutisi di integrare le varie milizie rimaste operative dopo la caduta del regime. La situazione politica è precipitata sempre più e il Paese presenta adesso tre distinti centri di potere: il Governo di Al-Thinni – quello riconosciuto a livello internazionale – a Tobruk; il Congresso Generale Nazionale di Tripoli, insediatosi nella capitale e appoggiato dalla maggioranza dei gruppi islamisti, moderati e non; il Califfato di Derna, autoproclamato da miliziani affiliati – per loro stessa dichiarazione – allo Stato Islamico.
L’attuale assenza di un Governo centrale stabile e di Istituzioni statali ben consolidate – una delle principali cause della crisi in corso – dunque, affonda le sue radici in una ben più antica mancanza di un forte apparato statale: eliminato colui che manteneva il potere accentrato, questo si è disgregato.
LE DOMANDE DA PORSI – La crisi che sta interessando il Paese ha non poche ricadute a livello internazionale. L’avanzata dello Stato Islamico alle porte dell’Europa desta parecchia preoccupazione, e si stanno dunque intensificando gli sforzi atti a comprendere come sarebbe possibile arginare questo pericolo. Tra le opzioni maggiormente dibattute la possibilità di intervenire militarmente e quella, al momento più accreditata, di trovare una soluzione politica alla crisi in corso. Ma ancora prima di interrogarsi sul metodo da utilizzare per poter contenere la situazione libica, bisognerebbe riuscire a individuare l’obiettivo da perseguire, e il “nemico” da sconfiggere, per evitare di rievocare alcuni degli “spettri” del 2011.
INDIVIDUARE L’OBIETTIVO… – Primo punto, l’individuazione di un chiaro obiettivo da perseguire. Bloccare la potenziale avanzata dell’ISIS ed evitare che questo possa consolidare un proprio avamposto ai confini dell’Europa? Aiutare le fazioni a trovare un accordo così da ristabilire l’unità nazionale? Perseguirli entrambi? E in che ordine? In una situazione così delicata, in cui si intrecciano diverse problematiche, è complesso scegliere degli obiettivi precisi – soprattutto se si vogliono mantenere invariati. Cosa che, ad esempio, non si era verificata nel 2011. L’intervento militare internazionale lanciato all’epoca, infatti, era stato legittimato dalle Nazioni Unite come intervento umanitario. Per porre fine alle violenze che l’esercito lealista stava perpetrando contro il popolo libico, la coalizione internazionale interveniva dunque con le proprie forze aeree, cercando di ridurre al minimo le capacità offensive dell’esercito libico. Ma con il passare dei mesi la cacciata di Gheddafi diventava l’obiettivo cardine: solo depauperando il Leader i libici sarebbero stati finalmente liberi. Alla luce della situazione attuale, il cambio di obiettivi si è rivelato nefasto e non si può escludere che il ripetersi di una simile situazione possa avere effetti addirittura peggiori.
Al momento l’individuazione di obiettivi specifici che siano condivisi dalla maggior parte dei Paesi che intendono intervenire per sedare la crisi è di là da venire – come mostrato dall’incapacità di approvare una risoluzione in Consiglio di Sicurezza. È vero, infatti, che la comunità internazionale auspica la conclusione del conflitto, ma tra il dire e il fare si colloca, ancora una volta, la frammentazione politica del Paese.
…E IL ‘NEMICO’ – Altra questione complessa è quella della determinazione del “nemico” contro cui agire. Quando nel 2011 la coalizione dei volenterosi (o degli abili, come preferì definirla il presidente Obama) intervenì in Libia su richiesta esplicita dei gruppi ribelli, non fu difficile individuare la parte da sostenere e quella da osteggiare: da una parte si aveva l’esercito leale a un leader sempre più dispotico, dall’altra un insieme di ribelli che tentavano di organizzarsi per porre fine alle sofferenze del proprio popolo. Ma con l’attuale situazione politica, operare una scelta di campo risulta sicuramente più controverso. Esiste un Governo internazionalmente riconosciuto – quello di Tobruk, – spalleggiato da Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. A supportarlo militarmente, l’Esercito nazionale libico guidato dal generale Haftar, che già da mesi contrasta da una parte l’avanzata dell’ISIS, dall’altra il Governo di Tripoli e Alba libica, i suoi alleati meno moderati, primo tra tutti Ansar al-Sharia. A rendere il quadro più complesso l’avanzata dei miliziani affiliati allo Stato Islamico, che a partire dal Califfato di Derna – da loro stessi proclamato – stanno affermando sempre più la loro presenza nel Paese.
COME AGIRE?… – In caso di un intervento internazionale – sia esso militare o politico – chi sarebbe il “nemico da fronteggiare”, e per il raggiungimento di quale obiettivo? Alba libica nella sua interezza in quanto contraltare del Governo “ufficiale”, e dunque ostacolo per la riunificazione? Ansar al-Sharia, in quanto componente più estrema di Alba libica, e dunque più difficile da inserire in un eventuale contesto politico meglio delineato? O ancora i miliziani affiliati all’ISIS, nel tentativo di infliggere un duro colpo al gruppo e di evitare che questo possa creare un proprio avamposto ai confini europei? La questione che attualmente ci si sta ponendo, di fronte a una crisi che diventa sempre più aspra e sempre più minacciosa nei confronti dei Paesi occidentali – bersaglio dei miliziani con affiliazioni ISIS non solo verbalmente, ma anche praticamente, come mostrato dalla decapitazione simultanea di 21 lavoratori egiziani copti – è quella di trovare una modalità condivisa per la stabilizzazione del Paese. Due sono state le opzioni ventilate: da una parte la possibilità di un intervento militare a partecipazione internazionale (caldeggiata dall’Egitto, che sta già fornendo appoggio aereo all’offensiva in chiave anti-ISIS condotta dalle forze del Governo di Tobruk), dall’altra la risoluzione della crisi perseguendo la via diplomatica.
…INTERVENTO MILITARE… – Date le premesse su obiettivi e parti in causa di cui si è finora parlato, l’opzione di un intervento militare dovrebbe essere scongiurata, anche sulla base delle conseguenze lasciate dalle Operazioni Odyssey Dawn e Unified Protector. Autorizzate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite allo scopo di proteggere i civili dai continui soprusi che il Governo libico perpetrava nei loro confronti, le due missioni hanno effettivamente contribuito – almeno nel breve periodo – al miglioramento delle condizioni della popolazione libica, che sembrava aver riconquistato la sicurezza e il diritto di poter scegliere in modo libero i propri rappresentanti. Ciò che è mancato allora è stata la pianificazione di medio periodo. Le Operazioni hanno “riconsegnato” ai libici un Paese privo di Stato, nel quale ciò che doveva essere costruito, ancor prima dell’avvio di un processo democratico – erano le Istituzioni. Ed era davvero improbabile che si potesse riuscire in questa impresa titanica autonomamente. Non si può affermare con certezza, ma se la popolazione avesse ricevuto un supporto internazionale più forte di quello fornito da UNSMIL durante l’avvio della stagione democratica avrebbe probabilmente portato a compimento il processo di transizione democratica iniziato dopo la morte di Gheddafi – che, anche se con metodi decisamente poco ortodossi, era comunque riuscito a mantenere la coesione politica. Un intervento militare fine a se stesso che non preveda successivi sforzi di mantenimento della pace e supporto nella transizione democratica non farebbe che reiterare il meccanismo già innescatosi nel 2011. Se un intervento fosse mirato alla sola riunificazione del Paese, si lascerebbe campo libero all’ISIS – che approfitterebbe della situazione post-conflittuale per affermare il proprio potere. Se l’intervento si indirizzasse alla sconfitta del fronte ISIS, non si eliminerebbe il problema dei due Governi, e si ritornerebbe allo status quo precedente la nascita del Califfato di Derna. In qualsiasi caso, la situazione post-conflittuale sarebbe anche peggiore di quella del 2011: un intervento militare non potrebbe far altro che acuire l’instabilità già presente nel Paese.
Ma, almeno per il momento, all’ipotesi di un intervento militare condotto da una coalizione internazionale sembra essere preferito il perseguimento di una via diplomatica, come emerso durante l’ultima riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – convocata d’urgenza proprio per discutere della questione libica.
…E SOLUZIONE POLITICA – Ma nemmeno l’individuazione di una soluzione politica efficace è cosa semplice. L’inviato speciale dell’ONU, Bernardino Leòn, che lavora già da alcuni mesi alle negoziazioni atte al ristabilimento della coesione politica, è riuscito a far sedere allo stesso tavolo negoziale molte delle componenti dei due Governi libici. Secondo quanto da esso stesso dichiarato durante l’intervento alla scorsa riunione del Consiglio di Sicurezza, le parti sarebbero ben disposte a negoziare, e la situazione starebbe migliorando. A parere di Leòn, una rinnovata unità nazionale sarebbe l’arma da utilizzare per bloccare l’avanzata dell’ISIS.
Ammesso che i negoziati, già attivi da molto tempo, riuscissero a condurre ai risultati sperati, però, si porrebbe comunque il problema del metodo con cui affrontare i miliziani dello Stato Islamico. La soluzione attualmente in fase di valutazione è quella di inviare, dopo il ristabilimento della coesione politica, una missione indirizzata al monitoraggio del cessate il fuoco, e al successivo addestramento delle truppe libiche, cosicché queste possano fronteggiare la minaccia ISIS, cui si aggiungerebbero delle operazioni per il ripristino delle infrastrutture. Ma il tempo a disposizione non è infinito, e allo stesso tempo il perseguimento di questo tipo di attività richiederebbe, in una prospettiva florida, diversi mesi.
Nel frattempo, le notizie che giungono dalla Libia fanno pensare a una ulteriore escalation della crisi, mentre la comunità internazionale sembra relativamente immobile.
COME ELIMINARE L’IMPASSE? – L’Egitto – “leader” del fronte interventista – sta già bombardando le postazioni ISIS in Libia, e a detta di alcuni ha anche avviato delle azioni di terra. Dopo aver promosso l’avvio di un intervento militare sotto l’egida delle Nazioni Unite – che avrebbe potuto raccogliere anche il consenso della Russia – al-Sisi si è spostato su una posizione più moderata. In sede ONU, infatti, ha proposto la sospensione dell’embargo sulle armi al solo Governo di Tobruk per consentire il riarmo delle forze filo-governative guidate dal Generale Haftar – che già da diversi mesi combattono sia contro l’ISIS che contro il Governo di Tripoli. Anche quest’opzione non sembra particolarmente convincente, principalmente perché sussiste un’alta possibilità che l’arrivo di armi del Paese – seppur limitato – possa avvantaggiare anche altri soggetti.
Nel frattempo, Matteo Renzi, nel tentativo di porre l’Italia come leader di un’eventuale azione di peacekeeping autorizzata dalle Nazioni Unite e di accelerare l’avvio di tale tipo di missione, sta cercando l’endorsement di altri capi di Stato. Già ottenuto quello di Hollande – o almeno, così pare dopo il bilaterale del 25 febbraio, – Renzi volerà in Russia ai primi di marzo, cercando di convincere anche Putin ad appoggiare un’eventuale operazione di pace.
Giulia Tilenni
[box type=”shadow” ]Un Chicco in più
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