Le recenti tragedie del mare e la crisi libica stanno riproponendo un dibattito relativo alla questione dell’immigrazione, e a come affrontarla. E’ bene fare chiarezza su alcune questioni.
Il problema dell’immigrazione e delle tragedie che ne scaturiscono dovrebbe venire affrontato in maniera approfondita, tuttavia il dibattito pubblico, politico e sui media spesso tende a concentrarsi solo su una parte marginale dello stesso.
Esso infatti dovrebbe prevedere 4 ambiti, distinti tra loro ma, ovviamente, molto legati
- La situazione nei Paesi d’origine: perché questa gente si muove?
- La situazione nei Paesi di transito: come fanno a spostarsi verso, ad esempio, l’Europa? Quali sono le condizioni (politiche/di sicurezza) che lo rendono possibile o comunque lo influenzano? Quali le distorsioni criminali (reti di trafficanti) e come funzionano?
- L’ultima tappa: il transito del Mediterraneo o, per chi arriva via terra dalla Turchia, il transito verso l’Europa centrale e occidentale.
- L’arrivo: le politiche di integrazione nei nostri Paesi, in Italia in particolare e in Europa in generale.
Di questi quattro punti, generalmente noi ci interessiamo solo del punto 3 e, in particolare, solo del transito del Mediterraneo. Del punto 4, le politiche di integrazione, ce ne interessiamo solo per dire che l’Europa non ne ha. Ma bisognerebbe ricordare che nemmeno l’Italia ne ha, e questo (come mostra la Francia, dove tale fallimento provoca l’emersione di disagi che possono sfociare in terreno fertile per il terrorismo) è un qualcosa che crea situazioni di tensione nella nostra società indifferentemente dai numeri.
I nostri dibattiti, le politiche e le scelte proposte, si concentrano quindi solo su quegli aspetti che sono alla fine del problema, quando esso è già arrivato nella sua parte più tragica e meno controllata, notando come nulla funzioni. Ma proprio per questo è bene ricordarsi che non è possibile trovare una soluzione se non si considerano anche i punti 1 e 2. Ve lo spieghiamo con qualche dato e mappa, peraltro da noi già illustrati nelle nostre conferenze a Bologna.
Questo che segue è una tabella presa da uno studio della società di consulenza USA McKinsey sullo sviluppo urbano da qui al 2025:
La seconda colonna indica, semplificando, le città che nei prossimi 10 anni vedranno il maggiore aumento di popolazione giovane. Per chiarezza, mettiamo molte di queste città su una mappa:
Ora sovrapponiamo le aree che già oggi vedono i principali conflitti/situazioni di instabilità (Mali, Niger e Nigeria, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, Corno d’Africa, zona Pakistana, terrorismo in Asia sud-orientale):
Cosa significa tutto questo? Che nei prossimi 10 anni, anche solo limitandoci all’Africa, le aree del Sahel e dell’Africa sub-sahariana vedranno un continuo aumento di popolazione, in aree colpite da conflitti e, non lo abbiamo mostrato ma è facilmente verificabile, più vulnerabili a cambi climatici e scarsità di cibo e acqua – cosa che si prevede causerà più conflitto. È il cosiddetto “10° Parallelo“.
Questo significa che i flussi migratori da queste aree sono destinati ad aumentare (è un trend già visibile)… e questo non dipende minimamente da quale missione operi nel Mediterraneo né dalla politica europea. Chi parte lo fa perché sente imperativi ben maggiori e nella stragrande maggioranza dei casi nemmeno si interessa di quale sia esattamente la nostra politica al riguardo. È la speranza di un futuro migliore a muoverlo ed è bene ricordarsi che anche una situazione misera da noi è spesso migliore di quanto si viva là.
Per fare un esempio, prendiamo il caso dell’Eritrea: un ragazzo eritreo di 17-18 anni è costretto per legge ad arruolarsi… ma non sa minimamente quando finirà la sua ferma. Forse 6, forse 10, forse 25 anni… forse per sempre, perché il regime di Isaias Afewerki ha sospeso i diritti costituzionali dei cittadini e usa le forze armate come forza lavoro e per evitare ribellioni. Per un ragazzo così, che ha queste prospettive, crediamo davvero che – al di là di altre valutazioni al riguardo – una legge come la Bossi-Fini che prevede qualche anno di carcere sia un deterrente? Che davvero qualche anno di carcere da noi sia peggio di quanto vivrebbe in patria? Al di là delle valutazioni sulla legge in sé, questo ci dovrebbe ricordare come spesso tante discussioni in Italia non tengano conto di quella che è la realtà e la complessità del fenomeno migratorio.
A questo va aggiunto come la situazione di quei Paesi fornisca un ulteriore incentivo nelle attività illecite: molte tribù Tuareg ad esempio hanno solo i traffici di armi, droga e persone come fonte di ricavi. Del resto aree economicamente poco sviluppate come Mali, Niger e sud della Libia, tanto per citarne alcune, non favoriscono alternative valide e, al tempo stesso, la ricchezza di tali traffici (e la corruzione derivante) pone forti incentivi ai locali perché le cose continuino così. Eppure i flussi iniziano e vanno fermati lì, perché bloccare qualche porto di partenza non ferma l’intero processo: al massimo lo devia. E in un ambiente dove le rotte migratorie sono queste (vedi mappa), trovare una strada alternativa non è così strano.
Per ora non ci spingiamo a fornire soluzioni a un problema così complesso. Però iniziamo a chiederci: abbiamo mai visto questi dati? Ci abbiamo mai ragionato sopra? E se non lo abbiamo fatto, perché continuiamo, in Italia, a discutere di immigrazione parlando solo di ciò che accade da noi?
A ciascuno di noi la risposta.
Intanto, noi abbiamo cercato di esplorare più in dettaglio le rotte dei migranti in questa vasta area, e il loro significato.
Lorenzo Nannetti
[box type=”shadow” ]UN CHICCO IN PIU’
Le mappe sulle rotte migratorie sono prese dal sito www.imap-migration.org
Image credits: l’immagine in evidenza è di Vito Manzari, licenza cc-by-2.0[/box]