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Quale missione internazionale in Libia?

Miscela Strategica – Diversi focolai di crisi hanno acceso il panorama geopolitico internazionale nell’ultimo anno. In Libia l’operato gruppi affiliati allo Stato Islamico ha destato forti preoccupazioni nella comunitĂ  internazionale, e molti hanno richiesto una “missione internazionale”. Ma di che tipo?

IL CONCETTO DI MISSIONE INTERNAZIONALE E LA LIBIA –  Senza addentrarsi nello specifico della situazione libica, va sottolineato che la condizione di crisi in Libia esiste almeno dalla caduta del regime di Muhammar Gheddafi nel 2011, e la presenza di ISIS nel Paese è nient’altro che una prevedibile conseguenza del vuoto di potere generato dalla lotta interna fra milizie contrapposte in corso da piĂą di tre anni. Sulla spinta emotiva all’indomani della decapitazione di ventuno cittadini egiziani copti cristiani per mano dei gruppi sotto bandiera dello Stato Islamico sulle spiagge della Libia, diversi Stati hanno risollevato la necessitĂ  di avviare una missione internazionale nel Paese. La stessa Italia, con prime dichiarazioni “a caldo” circa la disponibilitĂ  a guidare una coalizione nel Paese nordafricano, ha alimentato una certa confusione, perlomeno sul piano mediatico. L’eventualitĂ  di una missione internazionale di tipo militare in Libia, al momento, è stata congelata in poichĂ© l’azione della comunitĂ  internazionale sarĂ  in primo luogo orientata verso una soluzione politica e diplomatica della crisi. Soluzione che, verosimilmente, potrebbe far fatica ad arrivare. A quel punto allora un intervento delle forze armate internazionali sul territorio potrebbe non essere piĂą ulteriormente posticipato. Come noto, è impossibile parlare di missione internazionale in termini assoluti. Esistono infatti numerose sfaccettature del termine, e non tutte implicano necessariamente l’invio di truppe sul terreno per condurre operazioni prettamente belliche. Parlando di missioni internazionali in Libia, è bene operare un primo distinguo. Da un lato, di missioni internazionali civili in Libia ne sono oggi attive due, la prima a guida Nazioni Unite e la seconda sotto il cappello dell’Unione Europea. Entrambe sono missioni volte al sopporto del processo democratico nel Paese, all’affiancamento delle autoritĂ  legittimamente riconosciute e al controllo dei confini. Tutte attivitĂ , queste, che sono risultate praticamente prive di effetti degni di nota. D’altro canto, una missione tipo militare in Libia c’è stata nel 2011: l’Operazione a guida NATO denominata “Unified Protector”. 

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Fig.1 – Rovine di Derna in seguito ad un bombardamento egiziano contro i miliziani fedeli allo Stato Islamico

LA NATO E UNIFIED PROTECTOR – La missione ‘lampo’ ebbe una durata di appena sei mesi, da Marzo ad Ottobre del 2011. Quella che è stata successivamente soprannominata come “l’operazione per destituire Gheddafi” nasce all’indomani delle rivolte di piazza a Bengasi duramente represse dal regime del Colonnello. In risposta, il 26 Febbraio 2011 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite impone un embargo di armi verso il Paese libico con la Risoluzione numero 1970. Il quadro formale entro cui agire era pronto, qualche settimana dopo infatti, la NATO inizia a dispiegare gli AWACS (Airborne Warning and Control Systems – sistemi aerei di controllo e allarme) con funzione di controllo e monitoraggio dello spazio aereo libico. SarĂ  poi con una seconda risoluzione delle Nazioni Unite, la numero 1973 del 17 Marzo, che l’operazione militare in Libia verrĂ  resa possibile. La risoluzione, infatti, autorizzava gli Stati membri ad agire attraverso le organizzazioni regionali (la NATO è chiaramente una di queste) ad utilizzare tutte le misure necessarie, dunque uso della forza incluso, atte a proteggere la popolazione civile in Libia. L’operazione NATO partirĂ  su forte spinta francese il 22 Marzo, con tre componenti ben precise. In primo luogo, rafforzare l’embargo di armi nel Mar Mediterraneo e mantenere la no-fly-zone sul Paese. Da ultimo, la conduzione di operazioni navali e aree contro le forze coinvolte in attivitĂ  a minaccia della popolazione civile libica o delle aree popolate su territorio libico. Nel contesto di Unified Protector non sono state impiegate forze armate di terra direttamente su suolo libico, come la NATO tiene a sottolineare i tutti i comunicati ufficiali. L’operazione si concluse quasi sei mesi piĂą tardi, in concomitanza con la caduta degli ultimi bastioni del regime nella cittĂ  di Sirte e la morte di Gheddafi il 20 ottobre. Dieci giorni piĂą tardi le forze alleate iniziavano il ripiegamento dai cieli e mari della Libia. Pur senza affrontare in questa sede gli evidenti interessi politici ed economici che hanno portato le diplomazie di Parigi e Washington a caldeggiare l’intervento, assumendone poi anche la guida, Unified Protector è stata un’operazione de facto volta ad accelerare i tempi della caduta del regime autoritario di Gheddafi. L’operazione di per sĂ© ha avuto un end-state positivo, confermando l’embargo di armi. Tuttavia, la piĂą grande critica rivolta alla NATO all’indomani della chiusura dell’operazione del 2011 è di aver lasciato la Libia alla mercĂ© di diverse fazioni combattenti fra loro, tra cui alcune affiliate a frange di organizzazioni terroristiche come Al-Qaeda e, oggi, lo Stato Islamico.

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Fig.2 – Una blindo Puma, parte di un pacchetto di aiuti italiani, operata da uomini fedeli al generale Belqasim Haftar

IL QUADRO INTERNAZIONALE OGGI – Un’eventuale missione internazionale in Libia, possibilitĂ  che le cancellerie europee stanno prendendo in considerazione, andrebbe a definirsi necessariamente nel quadro delle cosiddette PSO – Peace Support Operations. Questa definizione, nello specifico in ambito NATO, racchiude tutte le operazioni che vengono svolte a guida NATO al di fuori dei limiti dell’Articolo 5 del Trattato di Washington. Questo significa, brevemente, che le operazioni condotte dall’Alleanza nel quadro dell’Articolo 5 sono operazioni in risposta alla minaccia diretta ad uno degli Stati membri in virtĂą del principio di difesa collettiva. Invece, tutte le altre operazioni a guida NATO di natura diversa da quella appena esposta rientrano nelle Operazioni di Supporto alla Pace.  Le CRO, Crisis Response Operations, rientrano sotto il cappello delle PSO. Una specifica dottrina NATO, la AJP 3.4(A) ne definisce limiti e termini. Particolare enfasi è data all’attivitĂ  di informazione (InfoOps), di cooperazione civile-militare, di supporto alle autoritĂ  locali e di affiancamento alle forze di polizia di quella che in gergo viene chiamata “host nation”. Tali operazioni possono rientrare nel quadro definitorio delle attivitĂ  di peace keeping, peace making, paeace building e peace enforcement di stampo ONU. Un’operazione a guida NATO in Libia giustificata da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nationi Unite, in un contesto di totale inefficienza del Governo riconosciuto in Libia, andrebbe ad assumere una forma molto complessa. Quello che sembra essere finalmente piĂą chiaro è che il vuoto libico deve essere riempito. Lasciare che un Paese, che rappresenta un tassello fondamentale per gli equilibri della sponda sud del Mediterraneo, si consolidi come avamposto dello Stato Islamico, o di altre realtà legate alle organizzazioni terroristiche nell’area, non gioverebbe sul lungo periodo a nessuna potenza europea, così come agli Stati Uniti. Posta l’esigenza di ridare alla Libia una cornice di sicurezza adeguata per farne un interlocutore politico ed economico accettabile, l’eventuale operazione a guida NATO nel Paese non potrebbe essere certamente lampo. Per stabilizzare la Libia, nello stato in cui si trova oggi, si deve prevedere un’operazione lunga, in piĂą fasi, e molto dispendiosa in termini di mezzi, uomini e costi. Sulla falsariga di ISAF in Afghanistan, l’impegno NATO in Libia potrebbe essere decennale e, piĂą politicamente che economicamente, difficilmente sostenibile dalla maggior parte dei Paesi membri dell’Alleanza.

Emma Ferrero

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Foto: khalid Albaih

 

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Emma Ferrero
Emma Ferrero

Torinese di nascita, ma romana di adozione, ha frequentato da civile la Scuola di Applicazione e Istituto di Studi Militari dell’Esercito, conseguendo con lode la Laurea Magistrale in Scienze Strategiche nel 2012. Con passate esperienze di ricerca e analisi in ambito geostrategico e militare presso il Centro Studi per le Operazioni Post Conflict di Torino e presso la Rappresentanza Permanente italiana alla NATO a Bruxelles, dopo aver conseguito un master in Sicurezza Economica, Geopolitica e Intelligence in SIOI, attualmente collabora con alcune testate e organizzazioni internazionali. Le sue aree di interesse sono: NATO e sicurezza cooperativa, industria difesa, analisi d’area (in particolare Afghanistan, Iraq, Paesi del Golfo, Medio Oriente, Asia Centrale).

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