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In barba alle sanzioni

È vero senz’altro che l’Iran sta attraversando una crisi economica molto grave, ma non è altrettanto vero che la principale causa di questa crisi sono le sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dai paesi occidentali: a cinque anni dalla prima bozza di sanzioni, indubbiamente gli effetti iniziano ad avvertirsi, ma quelle sono andate a infierire su un’economia già in difficoltà per motivazioni interne. L’Iran, per di più, ha trovato un buon metodo per tamponare gli effetti deleteri di tali sanzioni. Intanto i colloqui sul nucleare, ripresi a Istanbul, non profilano nemmeno l’ombra di una soluzione della questione

GIÀ IN CRISI PRIMA DELLE SANZIONI – Benché per alcuni (leggasi in primis Stati Uniti) possa essere una “notizia” difficile da accettare, un nuovo Iraq si sta profilando all’orizzonte: nel senso che, come già era stato appunto per l’Iraq di Saddam Hussein, le sanzioni petrolifere imposte all’Iran non stanno avendo gli effetti catastrofici sperati da chi quelle sanzioni, ormai dal 2007, persevera a imporle. Agli albori della crisi economica globale del 2008, l’economia iraniana soffriva già di alcune importanti anomalie nei propri fondamentali macroeconomici: innanzitutto, specialmente negli otto anni di presidenza Ahmadinejad, l’Iran ha dovuto sostenere una spesa per le politiche sociali (costituite principalmente da sussidi per gli alimentari e l’energia) estremamente alta; in più, sebbene l’Iran sia tra i primi paesi al mondo per quantità di riserve di petrolio e gas naturale, la mancanza di know-how e tecnologie all’avanguardia, rendono assai difficoltosa, e quindi poco efficiente, l’estrazione di queste preziose materie prime. Infine, ma non meno importante, le barriere burocratiche poste all’ingresso del mercato interno, allontanano e scoraggiano gli investimenti diretti esteri nel paese, che soffre così di un costante deficit di capitali stranieri nella propria bilancia dei pagamenti. È chiaro, quindi, che esercitando una pressione costante su un edificio già fatiscente, prima o poi questo edificio crolla, o comunque perde qualche pezzo significativo. Le stime del Fondo Monetario Internazionale per il 2012, infatti, prevedono una caduta del tasso di crescita dell’Iran del 3%, attestandosi circa sul 2,7%: una cifra per nulla negativa in senso assoluto (specialmente pensando alla nostra povera Italia), ma poco rilevante per un paese in via di sviluppo, se paragonata ad esempio ai tassi di crescita di India e Cina. È corretto, senza alcun dubbio, affermare che l’Iran navighi in cattive acque, dunque, soprattutto se si considerano pochi ma indicativi dati recenti: il rial (la moneta iraniana) ha perso oltre il 30% del suo valore, il tasso di inflazione si è attestato a un buon 20% e, notizia di pochissimi giorni fa, i tassi di interesse sui depositi bancari sono stati portati al 21%.

I DANNI E LE BEFFE DELLE SANZIONI – Pensando ai reali effetti delle sanzioni petrolifere sull’Iran, sarebbe proprio il caso di dire che in special modo gli Stati Uniti, oltre al danno, ora devono subire anche la beffa. Il danno, chiaramente, risulta dall’inefficacia stessa delle sanzioni: gli Stati Uniti, per assicurarsi i rifornimenti di greggio necessari alla propria economia, hanno dovuto siglare un nuovo accordo con il Qatar, concedendogli di triplicare la quantità di petrolio da estrarre, accrescendo così enormemente il potere politico ed economico del piccolo emirato, che infatti di recente ha cominciato a fare la voce grossa su alcune questioni regionali. In secondo luogo, la perseverante politica di sanzioni economiche contro l’Iran adottata dagli Usa rischia di incrinare i rapporti con il fedele alleato Israele: questo, contrario alle sanzioni e decisamente più favorevole all’intervento militare per interrompere forzosamente il programma nucleare iraniano, vede di mal occhio la quiescenza con cui Washington sta affrontando la questione dell’atomica di Teheran, ed è sempre più probabile che il governo Netanyahu opterà per una operazione di bombardamenti mirati ai siti nucleari, anche senza il beneplacito e il contributo degli Stati Uniti.

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LA GRANDE BEFFA: CINA E INDIA IN SOCCORSO ALL’IRAN – Più di tutto, sono i risvolti economici e commerciali sui mercati asiatici che gli Stati Uniti devono temere. L’Iran, infatti, ha trovato nella Cina e nell’India due potenze favorevoli a contrastare gli effetti delle sanzioni imposte: innanzitutto, dichiarandosi apertamente contrarie a tale imposizione, così come tutti i BRICS, segnando la fine, almeno dal punto di vista economico, del mondo unipolare a guida americana, con l’emergere di un polo alternativo; poi, soprattutto non interrompendo affatto, ma anzi aumentando il commercio con Teheran (solo nel 2011 la Cina ha incrementato il proprio interscambio petrolifero con l’Iran del 30%). Le sanzioni, infatti, dovrebbero andare a colpire quegli intermediari finanziari che operano direttamente con la Banca Centrale Iraniana, principale responsabile della gestione dei proventi derivanti dalla vendita di greggio: essendo Cina e India due paesi in forte espansione e avendo estremo bisogno del petrolio iraniano (importandone rispettivamente il 22% e il 13%) per non interrompere l’andamento positivo della propria crescita, hanno di recente adottato dei metodi piuttosto efficaci per aggirare le sanzioni, evitando di instaurare rapporti diretti con la Banca Centrale Iraniana. Molto semplicemente, eliminato dalle transazioni commerciali il petro-dollaro (e questo è senza dubbio un durissimo colpo inferto agli Stati Uniti), hanno stabilito accordi con l’Iran per pagare il greggio in parte con la propria moneta locale, quindi renminbi e rupie, in parte in oro e prodotti dei mercati interni, appoggiandosi a banche cinesi e indiane per le transazioni. Così, in pratica, il ritorno parziale all’antichissimo metodo del baratto sta facendo vacillare decenni di politiche liberiste occidentali. Ulteriore riprova della cooperazione strategica tra Cina, India e Iran è stata la recente dichiarazione, da parte indiana, riguardo la volontà di far rivivere gli accordi, bloccati dal 2009, per la costruzione della condotta di gas naturale IPI (Iran – Pakistan – India), rispetto alla quale si è proposta anche una eventuale estensione fino alla Cina, appunto. La questione era stata accantonata dall’India, per motivi economici e di sicurezza, in seguito alla stipula di un accordo con gli Stati Uniti sul nucleare indiano: ora pare, però, che la capacità di dissuasione degli Usa su Nuova Delhi stia diminuendo. INTANTO … – Il 14 aprile a Istanbul sono ripresi formalmente i colloqui sul nucleare di Teheran tra i G5 + 1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia più Germania) e negoziatori iraniani: non si è fatto altro che parlare di clima disteso e positivo nei resoconti giornalistici, ma alla fin fine i risultati concreti ottenuti stanno quasi a zero. L’unica “conquista” che i G5 + 1 possano vantare è che l’Iran non abbia di nuovo sbattuto la porta andandosene, come nel 2011, ma sia stata fissata una seconda data, il 23 maggio a Baghdad, per un ulteriore incontro (che, però, non ha proprio l’aria di porsi come definitivo per una risoluzione della questione, così come un eventuale terzo, eccetera). La probabilità che il dialogo, ormai, sia del tutto compromesso non è, infatti, remota: l’Iran, da un lato, vive sotto la costante minaccia di un attacco ai siti nucleari per mano di Israele, intransigente su qualsiasi aspetto della faccenda (non ci sono limiti all’arricchimento, perché tutto l’uranio deve essere smantellato e tutti i siti nucleari devono essere chiusi, punto). Dall’altro lato, Teheran cerca di arrabattarsi come può per difendere il proprio orgoglio nazionale e i propri interessi: l’interruzione delle esportazioni a diversi paesi europei, in risposta al blocco petrolifero imposto dall’UE a partire dal 1 luglio di quest’anno, servirebbe a battere un piccolo pugno di ferro sul tavolo delle trattative, e ribadire, come ormai dovrebbe essere chiaro a tutti, che l’Iran non ha intenzione di rinunciare ai propri diritti all’acquisizione del nucleare. I paesi europei colpiti, però, tra cui Germania, Francia, Spagna e Grecia, hanno già trovato nel petrolio saudita una buona toppa per colmare il vuoto lasciato dal greggio iraniano, anche in attesa che la situazione libica si normalizzi per diversificare ulteriormente le proprie fonti di approvvigionamento. Dunque, i contro-effetti che l’Iran sperava di generare con questa scaltra contro-mossa non daranno certo i grandi frutti sperati, ma è quasi fuor di dubbio che, se proprio dovrà, non sarà la diplomazia a far desistere il regime degli Ayatollah dal proseguire col programma nucleare. Samantha Laura Cereda [email protected]

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