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Le rotte dei migranti (parte II)

Conoscendo le rotte dei migranti in Africa, quali conseguenze e quali effetti avrebbero le politiche spesso proposte per fermare i flussi verso l’Europa e l’Italia?

(parte 2)

Dopo aver visto più nel dettaglio le rotte seguite dai migranti e dai trafficanti in Nord Africa e più a sud nel Sahel, possiamo ora fare alcune considerazioni sulle reali conseguenze ed effetti che avrebbero alcune proposte che spesso vengono espresse da esponenti politici europei.

CENTRI DI SMISTAMENTO – Da creare in Africa per vagliare le richieste di asilo, accettare quelle dei rifugiati e respingere quelle dei migranti economici. È probabilmente la soluzione che, sul lungo termine, permette di controllare i flussi prima che arrivino alla tragicità dell’attraversamento del Mediterraneo, ma poggia su alcuni prerequisiti fondamentali: innanzi tutto nei Paesi dove verrebbero creati tali centri serve sufficiente sicurezza e stabilità per fare sì che non vengano attaccati o controllati da gruppi estremisti o criminali ai quali tali centri di fatto rovinerebbero gli affari.
Questo porta alla necessità di utilizzare contingenti militari sotto egida ONU per prendere il controllo delle aree coinvolte e proteggerle. Spesso, però, non ci si chiede davvero quali siano i requisiti e le problematiche di una tale soluzione, forse perché vediamo ancora il Nord Africa come una sorta di Terzo Mondo dove basta mostrare le armi perché tutti si pieghino alla nostra volontà. È bene invece capire le limitazioni e i rischi per far comprendere come sia possibile organizzare qualsiasi strategia, ma è bene essere coscienti dei rischi e delle reali conseguenze che ne potrebbero derivare, così da poter decidere a ragion veduta.

CHI DOVREBBE FAR PARTE DEL CONTINGENTE ONU PER LA COSTITUZIONE E PROTEZIONE DEI CENTRI? – L’esperienza degli ultimi anni mostra come i Paesi occidentali (e in particolare le loro opinioni pubbliche) siano sempre più restii a inviare truppe di terra in aree pericolose, quali la stessa Libia, dove operano numerosi gruppi armati – molti dei quali vedrebbero i caschi blu come “invasori”. Non sarebbe possibile utilizzare militari dei Paesi arabi, spesso visti (a ragione) come parti in causa del conflitto nell’area. Né Paesi lontani (Asia, America del Sud) sarebbero interessati a rischiare quantità considerevoli di truppe per obiettivi che interessano principalmente solo l’Unione Europea. Alcuni Paesi africani potrebbero collaborare, ma la loro performance in altre aree e la necessità, spesso, di combattere traffici e terrorismo in casa propria rende difficile ipotizzare un loro impiego significativo in Libia. Infine, esistono dubbi sulla loro efficacia in un contesto così delicato. Toccherebbe dunque a noi Europei in generale, e noi italiani in particolare, operare, come del resto abbiamo sempre detto di essere pronti a fare.

L'operazione navale UE EUNAVFOR MED e la zona di costa vicino a Tripoli - mappa di geopoliticalatlas.org
Fig. 1 – L’operazione navale UE EUNAVFOR MED e la zona di costa vicino a Tripoli. Mappa di geopoliticalatlas.org

AMICI ITALIANI? – Eppure, nonostante il mandato ONU, difficilmente verremmo accolti a braccia aperte. Il governo islamista di Tripoli ha già dichiarato che, pur essendo disposto a collaborare, non gradisce una presenza militare occidentale sul terreno e la considererebbe un’invasione. E l’altro Governo, quello legittimo di Tobruk, allo stesso modo mal vede un intervento diretto occidentale, ma lo accetterebbe solo se fosse chiaramente rivolto a combattere i rivali. E questa sarebbe proprio l’impressione, dato che, come visibile nelle cartine, è dalla zona vicino a Tripoli che partono gran parte dei migranti verso l’Italia. I caschi blu non verrebbero dunque visti come amici ma come espressione di un’Europa che sta prendendo le parti di una delle fazioni del conflitto, e diventerebbero bersagli. Questo favorirebbe anche la propaganda di gruppi estremisti e terroristi come lo Stato Islamico, che definirebbero i soldati ONU “nuovi crociati” e potrebbe attirare anche gruppi oggi operanti nella vicina Tunisia. Il contingente, nel suo compito, dovrebbe pertanto affrontare possibili attacchi e crisi di tipo violento, alle quali dovrebbe rispondere. E questo si lega alla seconda problematica.

DOVE OPERARE? SULLA COSTA? OPPURE ANCHE ALL’INTERNO? – Controllare tutta la costa libica è molto arduo, data la lunghezza. Inoltre, porterebbe a dover affrontare gran parte dei gruppi estremisti e jihadisti presenti oggi in Libia, da Ansar al-Sharia allo Stato Islamico alla Brigata dei Martiri di Abu Salim ad altre, creando effettivamente una sorta di “coalizione” (anche se involontaria) tra gli estremisti. Servirebbe un contingente numeroso, che implicherebbe costi elevati, un alto tasso di discussione politica in Italia (con continui appelli al “portare i militari a casa” e “smettere di combattere”) ed effettivamente contribuirebbe ad alimentare la propaganda jihadista riguardo a quella che sarebbe definita come un’invasione occidentale. Di fronte a una tale eventualità, l’operatività dovrebbe essere limitata alla zona tra Mellitha e Tripoli, dalla quale effettivamente avvengono le maggiori partenze.

SOLO COSTA VICINO TRIPOLI – Controllare solo tale tratto di costa e lì stabilire i campi profughi per filtrare i migranti e permettere un viaggio (a questo punto più sicuro) verso l’Italia, però, porterebbe ad affrontare altre difficoltà, prima fra tutte il fatto che la maggior parte dei percorsi di traffico di esseri umani nella regione resterebbero non controllati. Dunque non si fermerebbero i trafficanti, ma solo l’ultima parte del percorso, con due conseguenze principali:

  • Un aumento della pressione migratoria sulla fascia controllata dei caschi blu, che dovrebbero quindi attrezzarsi per accogliere numeri crescenti e molto ingenti di migranti in attesa di valutazione (con relativi costi) e possibili, relativi, problemi di mantenimento dell’ordine.
  • I flussi migratori sono come l’acqua che scorre: seguono il percorso di minor resistenza. Un blocco su parte della costa non farebbe altro che spingere i flussi (magari dopo qualche settimana o mese) verso porti e punti di partenza vicini, sempre in Libia. Questo verrebbe ovviamente favorito dalle organizzazioni criminali interessate a non perdere proventi. Il problema verrebbe dunque non fermato ma solo trasferito a zone limitrofe. Se tale trasferimento dovesse limitarsi all’interno della Libia la situazione varierebbe poco rispetto ad ora, mentre se dovesse effettivamente trasferirsi ai Paesi vicini, sarebbe da chiedersi cosa questo potrebbe causare alla stabilità di Algeria e Egitto.

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Fig. 2 – Miliziani di Alba Libica

DESTABILIZZAZIONE DEI PAESI VICINI – Certamente i percorsi migratori verso l’Europa potrebbero un po’ variare (verrebbero interessati maggiormente Spagna, Grecia e forse Francia) ma anche considerazioni egoistiche del tipo “meglio loro che noi” andrebbero comunque sempre valutate rispetto al rischio che questo possa poi contribuire a destabilizzare maggiormente aree già calde. Sicuramente la situazione in Egitto e Algeria è migliore di quella in Libia e i Governi godono di maggiore capacità di controllo e sicurezza, ma anch’essi dovrebbero confrontarsi sul come gestire i flussi. E potrebbero decidere di lasciarli scorrere per non sopportarne l’accumulo, oppure cercare di deviarli ancora altrove o perfino bloccare i confini con la Libia, cosa che renderebbe la pressione sulla zona costiera ancora maggiore. Cosa significa questo? Che al di là di quale scelta si preferisca, è necessario comprendere come ogni manovra di solo blocco delle partenze non eliminerebbe il problema, ma lo modificherebbe solamente, e non sempre in meglio.

ANCHE NELL’INTERNO – Immaginare di controllare tutto il territorio del Sahara o del Sahel, dove i traffici hanno il loro cuore, ovviamente è irrealistico, per quanto, come fanno i francesi con l’Operazione Barkhane, sia possibile intervenire militarmente anche lì. Questo rende perciò poco realistica l’occupazione di singole aree nell’interno (quelli che abbiamo chiamato hub dei traffici). Al di là delle problematiche logistiche e del costo di simili operazioni, senza un impossibile controllo totale di gran parte delle tratte i flussi rimarrebbero sotto un controllo criminale che, come sopra, semplicemente modificherebbe i percorsi.

ACCORDI CON TRIBÙ E FAZIONI – Non è nemmeno realistico aspettarsi di poter stringere accordi significativi con tutti gli attori in gioco: per quanto esistano sicuramente gruppi e tribù (soprattutto nella parte settentrionale della Libia) disposti ad accettare alternative per bloccare i flussi, difficilmente sarà possibile farlo con tutti. Inoltre, in molti casi, la contropartita richiesta sarebbero denaro e armi che, lungi dall’essere una soluzione, alimenterebbero di fatto parte del conflitto o dell’instabilità dell’area. E sarebbe curioso il caso in cui, non volendo spendere sufficienti risorse per una migliore gestione del fenomeno migratorio in Europa, fossimo poi disposti a spenderne di più con dubbi partner dall’altra parte del Mediterraneo. Senza contare che alcuni gruppi responsabili sono ovviamente legati ad ambienti estremisti o terroristi, e che per altri tali traffici rappresentano ingentissime forme di ricavi dalle quali sarebbero poco propensi a distaccarsi.

BLOCCO TOTALE DEL MEDITERRANEO – Ammesso che sia possibile e lasciando perdere per un attimo la pur rilevante questione morale di una tale azione, esso avrebbe effetti peggiori: l’Africa rimarrebbe una fonte di instabilità che, senza sfoghi e nell’indifferenza continuerebbe la sua spirale negativa. Ricordando come l’Europa e l’Italia dipendano ancora fortemente da fonti di energia africane (sia il gas del Nord Africa sia il petrolio di Nigeria, Angola e altri), il punto è che non ci possiamo permettere di ignorare cosa accade lì se il rischio è che anche i Paesi nostri fornitori o partner economici debbano cadere nel caos. Ne sentiremmo comunque le conseguenze e rimediare sarebbe più difficile.

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Fig. 3 – Migranti soccorsi dalla Marina Militare italiana

RIMANDARLI…DOVE? – Infine, esiste un punto fondamentale spesso ignorato quando si parla di “rimandare/contenere in Africa i migranti economici”, anche se all’interno di operazioni di screening fatte in loco. Un migrante ha spesso un’enorme spinta a raggiungere l’Europa, tale da fargli sopportare le grandi sofferenze del viaggio e del trattamento da parte dei trafficanti. E’ difficile pensare che tali persone, una volta rimandate in Patria o una volta che la loro richiesta venga valutata negativamente direttamente in Africa, decidano di rinunciare. Infatti non è strano, anche oggi, trovare immigrati irregolari espulsi più volte e poi ritornati. Pertanto, i flussi illegali e clandestini rimarrebbero continuamente alimentati da chi non si rassegna all’impossibilità di raggiungere l’Europa. Il punto qui, però, non è tanto la constatazione di tale fatto, ma di ciò che ne deriva se vogliamo controllare questo problema: se non si ottiene un migliore sviluppo della situazione direttamente in quei Paesi dove esistono situazioni di crisi, conflitti e/o sottosviluppo (o sviluppo ineguale) economico, non ci sarà alcun substrato locale capace di assorbire tutti quei migranti che noi non siamo disposti ad accettare in Europa, né molte tribù locali oggi coinvolte troverebbero sufficienti incentivi per cambiare occupazione.

Questo implica un fortissimo impegno economico e diplomatico internazionale su tutti gli Stati e le situazioni di crisi nella fascia del Sahel e dell’Africa Sub-sahariana –  uno sforzo molto diverso dall’attuale politica estera europea e che probabilmente richiederebbe la coordinazione con paesi come la Cina, attivissima nell’area.

In altre parole, come già detto in un altro articolo, in un momento in cui tutti parlano di come fermare i flussi, il cuore del problema rimane in realtà un altro, e concentrarsi solo sul blocco o meno dei flussi continua a non farci affrontare quelle che sono le questioni chiave.

Lorenzo Nannetti

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Un chicco in più

Rileggete la prima parte sulle rotte migratorie con numerose mappe esplicative.

Per approfondire ulteriormente, si suggerisce il nostro articolo di introduzione all’argomento con l’indicazione dei trend previsti nei prossimi 10 anni: Migrazione: di che parliamo?.

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Foto: UNHCR

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Lorenzo Nannetti
Lorenzo Nannetti

Nato a Bologna nel 1979, appassionato di storia militare e wargames fin da bambino, scrivo di Medio Oriente, Migrazioni, NATO, Affari Militari e Sicurezza Energetica per il Caffè Geopolitico, dove sono Senior Analyst e Responsabile Scientifico, cercando di spiegare che non si tratta solo di giocare con i soldatini. E dire che mi interesso pure di risoluzione dei conflitti… Per questo ho collaborato per oltre 6 anni con Wikistrat, network di analisti internazionali impegnato a svolgere simulazioni di geopolitica e relazioni internazionali per governi esteri, nella speranza prima o poi imparino a gestire meglio quello che succede nel mondo. Ora lo faccio anche col Caffè dove, oltre ai miei articoli, curo attività di formazione, conferenze e workshop su questi stessi temi.

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