VatiCaffè – Secondo appuntamento con la nostra nuova rubrica sulla geopolitica della Santa Sede. Il segretario di Stato vaticano spiega perché un mondo “malato” di unilateralismo deve recuperare il senso della “buona fede” nei rapporti internazionali.
LA CONFERENZA DI HELSINKI, TRA STORIA E ATTUALITÀ – A quarant’anni di distanza da quando, il 1° agosto 1975, trentacinque capi di Stato e di governo riuniti nella capitale finlandese firmarono l’Atto finale della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, è ancora attuale l’eredità di Helsinki? La risposta del segretario di Stato della Santa Sede, il cardinale Pietro Parolin, non lascia spazio a dubbi: «Se ancora oggi rimane viva la memoria di Helsinki», ha affermato il cardinale lo scorso 21 novembre, è perché quel momento «ha cambiato la storia, in nome di una volontà di pace», sostituendo allo spettro del conflitto armato «un modello ancora oggi riproponibile e – lo dico con convinzione – valido». La cornice di queste significative affermazioni è il convegno che la Fondazione Comunità Domenico Tardini ha organizzato nella sua sede di Villa Nazareth (Roma), per riflettere – a partire dalla celebrazione dell’anniversario della conferenza di Helsinki – sulle sfide che il governo di un mondo multipolare pone oggi alla comunità internazionale, a tutti i livelli.
Numerosi gli spunti di riflessione offerti da Parolin a chiusura del convegno, che dal 20 al 21 novembre ha visto la partecipazione di rilevanti personalità del mondo politico e accademico. Il segretario di Stato vaticano ha innanzitutto ricordato le ragioni che a Helsinki spinsero la Santa Sede a giocare un ruolo da protagonista in un processo negoziale durato quasi tre anni e non privo di difficoltà e ostacoli. La bussola che guidò i diplomatici di Oltretevere – in particolare mons. Achille Silvestrini e mons. Agostino Casaroli – fu lo sforzo perché fosse assicurato «il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato», secondo una linea costante della diplomazia pontificia moderna e contemporanea.
Fig. 1 – Il recente incontro di Papa Francesco con Barack Obama
LA SANTA SEDE E LE RESPONSABILITÀ DELLA DIPLOMAZIA NELLO SCENARIO ATTUALE – Tale linea segna ancora oggi segna l’impegno della Santa Sede nello scenario internazionale, soprattutto nei contesti di maggiore crisi. Proprio sull’analisi dell’attuale situazione le considerazioni del cardinale si fanno particolarmente pungenti. Di fronte all’attacco portato nel cuore di Parigi, non diverso da quelli avvenuti in queste settimane in Libano e nel Mali «con il medesimo obiettivo di colpire persone dedite alla loro quotidianità, sembra prevalere come sola risposta la volontà di contrapporsi alla forza delle armi con gli stessi mezzi». A tale proposito, continua Parolin, se ogni Stato «ha diritto alla sicurezza» per i suoi abitanti e per quanti transitano sul suo territorio, «ed è sua facoltà garantirla», le azioni che si propongono questo obiettivo ma avvengono fuori dallo spazio sovrano dello Stato in questione implicano necessariamente «il ricorso alle sedi decisionali presenti nel quadro internazionale, e richiamano la diplomazia alle sue responsabilità». È soprattutto su questo piano che appare quanto mai urgente recuperare l’eredità di Helsinki. Si assiste infatti all’insorgere, nei rapporti internazionali, di «un nuovo paradigma, che vede l’obiettivo della pace sottratto all’azione comune e affidato all’imporsi di una forza diffusa, quasi parcellizzata». Ritorna cioè l’idea, secondo il segretario di Stato, «che la pace, lungi dall’essere “anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi” [come la definisce l’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII], sia da ricondurre ad un esercizio individuale della forza, capace di sostituire all’azione comune la volontà dei singoli». Una considerazione che vale sia per gli Stati tradizionali sia per nuove entità – come l’Isis – capaci di condurre una guerra di tipo convenzionale nel proprio territorio e allo stesso tempo di promuovere atti di terrorismo in altri contesti. Questo unilateralismo, denunciato da Parolin, talvolta può anche esprimersi «attraverso la forma di decisioni collettive maturate in contesti internazionali». Un processo di pace basato su queste premesse d’altra parte non può che portare una «pace a pezzi» e un «immobilismo», che favoriscono solo gli interessi sia «di chi predica l’odio» sia «di chi non vuole impegnarsi in buona fede» per realizzare una pace stabile e duratura.
Fig. 2 – Il Papa con il Segretario di Stato vaticano, il cardinale Parolin
IL DIRITTO INTERNAZIONALE ALLA PROVA DEL “DAESH”. LA NECESSITÀ DI UN CAMBIO DI PARADIGMA – Di fronte a sfide così impegnative, lo stato di salute del diritto internazionale – e delle organizzazioni in cui esso si esprime – non appare certo incoraggiante per il massimo rappresentante della diplomazia pontificia, che evidenzia innanzitutto la schizofrenia di un ordinamento giuridico internazionale in cui alla proliferazione di iniziative volte ad applicare «norme di dettaglio» non corrisponde un’adeguata attenzione ai «fondamenti» del diritto internazionale stesso. Non sono le regole a mancare, quanto piuttosto la volontà di applicarle. Un atteggiamento pericoloso dato che, come ricorda Parolin, «tra la mancata sanzione e la convinzione di poter godere dell’impunità il passo è breve». Nell’attuale contesto appare inoltre urgente mettere da parte una visione tradizionale della guerra e dell’uso della forza, sempre più incapace di dare conto della complessità dei conflitti odierni. Conflitti spesso interni a un singolo Paese, ma in cui la dimensione internazionale, rileva il segretario di Stato, appare presente «nelle cause scatenanti, nei flussi di armamenti, nell’impiego di “novelli soldati di ventura”, nel trasferimento di risorse dalle zone di guerra e nel conseguente flusso economico da cui traggono vantaggio le forze in campo che si vorrebbero eliminare». Difficile non cogliere in queste parole un riferimento a quanto da tempo accade in Siria e in Iraq sotto gli occhi spesso inerti della comunità internazionale.
Per il segretario di Stato un approccio diplomatico che identifichi le cause della guerra solo nella mancata volontà delle parti di venire a un accordo, o che affronti il problema semplicemente nei termini dell’emergenza umanitaria, può al massimo produrre «effetti tranquillizzanti sulle coscienze», ma non consente di affrontare le necessità concrete di chi è colpito da questi eventi. Richiamandosi esplicitamente ai principi sanciti dall’Atto finale della conferenza di Helsinki (in particolare il quinto e il decimo), Parolin ha affermato che gli obiettivi fondamentali della pace e della sicurezza non possono essere perseguiti in assenza di altri due fattori, ovvero la «buona fede» e «la reciproca fiducia individuale e collettiva». A tal fine la prevenzione dei conflitti va di pari passo con «la condivisione economica, sociale, umanitaria», in quanto «i beneficiari della pace non sono gli apparati, ma i popoli e le loro legittime aspirazioni». In questa prospettiva, la diplomazia della Santa Sede vede nella cooperazione internazionale un fattore imprescindibile per il futuro della famiglia umana. Quello che tuttavia sembra ancora prevalere in molti Stati è un orientamento che destina risorse sempre crescenti alle spese militari, «dimenticando il ruolo strategico della crescita economica nelle realtà in cui il fenomeno terroristico miete le proprie radici». In proposito il cardinale ha sottolineato che quando papa Francesco – come di frequente accade – parla di “periferie” e di “luoghi dello scarto”, fotografa anche una condizione di insicurezza internazionale diffusa, che trova la propria origine innanzitutto in un sistema sociale ed economico intrinsecamente ingiusto.
DA DOVE RIPARTIRE? – Non mancano, ad ogni buon conto, punti positivi a cui guardare, per riprendere il cammino verso un processo di pacificazione internazionale realmente inclusivo. Parolin ha menzionato al riguardo i lavori per l’aggiornamento della convenzione di Ginevra (come tutte le altre iniziative volte a rendere più efficace nell’attuale contesto lo ius in bello) e gli sforzi che hanno da poco portato alla definizione in sede ONU dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals). Più in generale, per la Santa Sede, quello di Helsinki rimane ancora un modello a cui guardare «perché esso tende a lasciare ai singoli Stati un margine di autonomia ristretto, se non addirittura residuale, nel perseguire interessi individuali e ancor più esclusivi ed escludenti». Concludendo il suo intervento il cardinale ha in ogni caso sottolineato con forza che il sistema internazionale non potrà promuovere attivamente la pace finché non verrà recuperata «l’idea di fraternità, non come richiamo teorico o come un’utopia, ma come una forza viva che ci impegna singolarmente e collettivamente». Questo per non farsi trovare «impreparati di fronte al richiamo che tutti, credenti e non credenti, potremo udire in ogni momento: “Dov’è tuo fratello? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!” (Gn 4, 9-10)»
Paolo Valvo
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Un chicco in più
«La Santa Sede e le nuove vie alla pace: il modello di Helsinki 40 anni dopo». Il testo integrale dell’intervento del cardinale Pietro Parolin del 21 novembre 2015
http://ilsismografo.blogspot.it/2015/11/vaticano-la-santa-sede-e-le-nuove-vie.html
Il testo dell’atto finale della Conferenza di Helsinki (1975)
http://www.osce.org/it/mc/39504?download=true
Il testo dell’enciclica Pacem in terris (1963)
http://w2.vatican.va/content/john-xxiii/it/encyclicals/documents/hf_j-xxiii_enc_11041963_pacem.ht
«Santa Sede e Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa: quarant’anni dopo l’Atto finale di Helsinki». Il testo della conferenza del cardinale Pietro Parolin del 23 giugno 2015
http://ilsismografo.blogspot.it/2015/07/europa-40-anni-fa-linizio-del-disgelo.html
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