Con un contingente stimato di circa 1.500 foreign fighters dispiegati tra Siria e Iraq e molte decine di combattenti in Libia, il Marocco si accinge ad affrontare, come gli altri Paesi dell’arco nordafricano, la questione dei jihadisti di ritorno, sovente smobilitati, ma non ancora de-radicalizzati. Se fino al 2014 le autorità non si sono dimostrate particolarmente sollecite nell’arginare il flusso di cittadini verso le aree di conflitto mediorientali – compiaciute dall’idea che alcune cellule di jihadismo autoctono si attivassero lontane dal territorio del Regno – con la proclamazione del Califfato l’allarme in patria è cresciuto e le misure di sicurezza si sono inasprite.
LA NATURA TRANSNAZIONALE DELL’AZIONE JIHADISTA MAROCCHINA – Fin dall’inizio degli anni Ottanta, secondo un fenomeno comune a tutti i Paesi a maggioranza arabo-musulmana, decine di islamisti marocchini, con formazioni ideologiche e dottrinali differenti, hanno abbracciato il ruolo di muğahideen, combattenti del ğihad in trasferta in Afghanistan contro l’Unione Sovietica.
Pochi anni dopo, con l’ascesa al potere dei Talebani nel 1996, molti di costoro sono divenuti anche muhağireen, migranti in territori controllati da Governi islamici, fondando altresì il Groupe Islamique Combattant Marocain, proprio in rappresentanza dei marocchini che avevano scelto di vivere sotto i Talebani pianificando al tempo stesso attacchi terroristici nella madrepatria.
Fin dagli scorsi decenni, dunque, il jihadismo marocchino ha mantenuto e sviluppato l’azione sul fronte interno e al tempo stesso la propria natura transnazionale.
Nel corso degli anni successivi, secondo un pattern ampiamente riscontrabile anche per i flussi dai Paesi limitrofi e più in generale dall’area del Grande Medio Oriente intero, molti dei jihadisti un tempo impegnati in Afghanistan si sono spostati verso diversi teatri di lotta, storicamente l’Iraq, i Balcani e la Cecenia, mentre altri hanno preferito tornare in patria da veterani, entrando nella cerchia dei cosiddetti arabi afghani.
Fig. 1 – Proteste per l’incarcerazione di alcuni salafiti accusati di essere implicati negli attentati di Casablanca, 2003
IL JIHADISMO MAROCCHINO OGGI – La notevole mobilità che ha sempre contraddistinto il radicalismo violento marocchino vive, dall’emersione dello Stato Islamico, una nuova fase, di cui il Regno sta solo oggi acquisendo consapevolezza.
I dati disponibili sull’effettivo numero di foreign fighters delle varie nazionalità sono notoriamente incerti e di difficile reperimento, ma si stima che i marocchini impegnati tra Siria e Iraq a fianco dello Stato Islamico siano circa 1.500. Almeno 300 sono poi i combattenti marocchini in Libia, aumentati a seguito degli appelli del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi ai fedeli nordafricani verso l’azione nella Wilayat Barqa, la Provincia di Cirenaica proclamata da IS in Libia a fine 2014.
Per quanto riguarda le modalità di reclutamento, nella stragrande maggioranza dei casi esso avviene tramite i rapporti interpersonali con propri pari e, in maniera crescente, attraverso i social network. Secondo le ultime statistiche rilasciate da alcune ONG marocchine, circa il 60% dei cittadini che si sono recati in Siria dal 2011 lo hanno fatto a seguito di un processo di online recruitment. La maggioranza dei combattenti marocchini, per quanto sia sempre opportuno ricordare che non esiste un profilo definito e univoco del terrorista, ha meno di 25 anni e proviene dalle periferie di nuclei metropolitani come Casablanca, Rabat e la “sorella minore” Salè, Tangeri.
La rotta più seguita dal Marocco verso il cosiddetto Siraq prevede, quando possibile, un volo regolare da Casablanca a Istanbul, seguito da un tragitto di terra fino a Gaziantep, ormai centro di smistamento jihadista nell’estremo sud della Turchia, per poi oltrepassare il confine.
L’odierno jihadismo marocchino all’estero può essere suddiviso in tre fasi fondamentali. Con l’inizio del conflitto siriano, era Jabhat al-Nusra ad attrarre il maggior numero di combattenti dallo Stato nordafricano. Successivamente, nel 2013, Brahim Benchekroun, veterano dell’Afghanistan e detenuto a Guantanamo tra il 2002 e il 2004, creò Harakat Sham al-Islam, movimento inizialmente critico del nascente Stato Islamico e che riuscì ad attrarre una certa componente salafita marocchina. A seguito della morte di Benchekroun, nell’aprile 2014, il movimento entrò invece progressivamente nell’orbita di al-Baghdadi, fino al giuramento di fedeltà che seguì la proclamazione ufficiale del Califfato nel giugno successivo.
Fig. 2 – Brahim Benchekroun dopo la liberazione nel 2005
LE MISURE ANTITERRORISMO – Per quanto senza aver sperimentato il vuoto di potere successivo alle rivoluzioni di molti dei Paesi vicini, il Marocco si trova geograficamente al centro di una delle aree più instabili del pianeta, per il duplice rischio di destabilizzazione proveniente tanto dagli altri Stati nordafricani, quanto dalla regione saheliana. In un simile contesto, le autorità non si allarmarono di fronte ai primi flussi di connazionali verso Siria, Iraq e Libia. Risulta anzi verosimile che tali spostamenti venissero tollerati con una certa dose di sollievo in quanto in grado di delocalizzare all’estero un buon numero di elementi indesiderati del milieu radicale sviluppatosi nei centri urbani marocchini.
Anche un controllo dei confini piuttosto efficace se comparato a quello dei Paesi limitrofi e la stretta cooperazione in materia di security & intelligence con l’Unione Europea hanno fatto sì che il Marocco non fosse contagiato dalla corsa alla securitizzazione scatenatasi negli altri Stati della regione almeno dal 2012.
Con l’affermarsi dello Stato Islamico in Medio Oriente e il riconoscimento del problema dei jihadisti di ritorno come issue ineliminabile, tuttavia, dal 2014 anche il Marocco ha intrapreso un inasprimento delle misure antiterrorismo. Proprio nell’anno della proclamazione del Califfato. Il Regno marocchino, oltre a unirsi alla coalizione contro IS in Iraq e Siria, ha apportato modifiche alla legge antiterrorismo del 2003. Le novità maggiori consistono nell’esplicitazione delle sanzioni contro cittadini marocchini che prendano parte a combattimenti fuori dallo Stato: tra i cinque e i quindici anni di reclusione per chiunque si unisca in patria o all’estero ad attori armati non statali, controlli più severi su obiettivi sensibili come gli aeroporti e ai confini con Algeria e Mauritania, nonché un più intenso dispiegamento di Forze dell’ordine in tutti i luoghi a rischio sul territorio, in primis quelli turistici.
Degno di nota è il fatto che le modifiche alla legge del 2003, apportate nel settembre 2014, fossero state proposte dal partito islamista moderato – ammesso che simili diciture siano ancora dotate di valenza analitica – Parti de la Justice et du Développement (PJD).
A riprova della virata securitaria posta in essere dal Marocco basti pensare che tra il 2011 e il 2013 le autorità del Regno avevano smantellato soltanto cinque cellule jihadiste che erano state in grado di inviare uomini in Siria, mentre alla metà del 2015 il loro numero è salito a ventisette e i marocchini bloccati mentre erano in procinto di partire per la Siria sono stati oltre cinquecento.
Fig. 3 – Un agente dei reparti antiterrorismo marocchini
LA SFIDA ALLO STATO ISLAMICO − Grazie alle recenti misure adottate, al buon grado di integrazione dell’intelligence marocchina con quella europea e dei Paesi limitrofi, ma anche alle battute d’arresto che IS sta subendo in Siria, Iraq e in parte Libia, sembra improbabile che il Marocco possa essere uno dei prossimi obiettivi del jihadismo nella regione. Ciononostante, il timore dell’azione di infiltrati stranieri, così come dei cosiddetti lupi solitari autoctoni, non appare infondato, anche considerando una componente fondamentale dell’azione del Califfato, ossia l’aspetto comunicativo.
Fin dal 2014, infatti, al-Baghdadi in persona ha citato il Marocco tra i potenziali obiettivi. Muhammad VI inoltre è ancora, secondo la Costituzione marocchina, Amir al-mu’mineen, Principe dei credenti, titolo dall’alta carica simbolica che perpetua una narrativa particolarmente sfidante dal punto di vista dello Stato Islamico.
Sara Brzuszkiewicz
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Per quanto riguarda l’attività jihadista in patria, gli attacchi terroristici più sanguinosi della contemporaneità marocchina sono stati indubbiamente quelli di Casablanca del 2003 e di Marrakesh alcuni anni più tardi, nel 2011. Il 16 maggio del 2003 a Casablanca ci fu una serie di azioni compiute da attentatori suicidi che provocò 33 vittime, nonché la morte di 12 degli stessi terroristi. I risultati delle indagini appurarono che tutti gli attentatori erano originari dei quartieri poveri di Casablanca e membri del Groupe Islamique Combattant Marocain (GICM), ad oggi affiliato ad al-Qaida. Il 28 aprile 2011, invece, una bomba nascosta in una borsa distrusse un caffè frequentato da turisti in Jem’a al-Fna’, la piazza principale di Marrakesh, uccidendo 17 persone. I responsabili erano con tutta probabilità legati al al-Qaida nel Maghreb Islamico (AQMI).[/box]
Foto: fredsharples