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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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La prolungata instabilità della Tunisia

Miscela Strategica – La Tunisia attraversa una fase particolarmente delicata, nella quale le dinamiche internazionali legate al fondamentalismo islamico fomentano il malessere locale derivante dalla stasi economica e istituzionale. Ecco che la frammentazione sociale si diffonde sul territorio e Ansar al Sharia, grazie alla fitta rete di assistenzialismo, ottiene crescenti consensi popolari mentre il Governo resta pressoché immobile davanti ai cambiamenti

LE DUE ANIME TUNISINE – Piccolo Stato nel cuore del Maghreb, bagnato dal Mediterraneo e attraversato dal Sahara, la Tunisia ha i piedi in Africa e la mente in Europa. È, infatti, uno storico interlocutore per la sponda settentrionale del Canale di Sicilia: la cooperazione con le istituzioni comunitarie (ad esempio l’accordo di associazione del 1998, il partenariato per la mobilità del 2014 e l’inserimento nella zona di libero scambio) permettono al Paese di attuare una politica estera all’insegna della diplomazia internazionale, potenzialmente rompendo l’accerchiamento dei due vicini (Algeria e Libia), la cui instabilità politica risulta rischiosa anche per la sicurezza domestica. I costanti contatti con la Francia – dall’epoca coloniale (1883-1956) – e con l’Italia, uniti alla Presidenza modernizzatrice di Habib Bourguiba (1957-1987) hanno, di fatto, costruito un legame ideologico e materiale privilegiato e hanno lasciato una solida eredità cosmopolitica alla quale il Paese non intende rinunciare. A ciò, però, si affianca l’anima religiosa della Tunisia, evidente soprattutto nell’entroterra centro-meridionale in corrispondenza della città di Qairouan, il quarto centro mondiale di culto per i musulmani. Questa dualità contribuisce alla frammentazione politico-sociale interna che contrappone il centro alle periferie e il Nord del Paese al Sud. Il deserto occupa circa la metà dell’estensione totale e i centri abitati hanno esperienze storiche quasi agli antipodi: la zona costiera presenta città sviluppate e moderne, abituate ai contatti con gli occidentali, ricche di influenze straniere e destinatarie dei proventi del turismo, mentre i villaggi dell’interno, alla stregua delle periferie urbane, sono poveri e arretrati, abbandonati dal Governo centrale e sostenuti dalle opere caritatevoli di moschee e gruppi legati all’islamismo tradizionalista. Il Sahara, infine, pur creando una sorta di zona cuscinetto di sicurezza, risulta difficile da controllare e finisce con il diventare esso stesso un corridoio per le infiltrazioni terroristiche da Libia e Algeria e un canale privilegiato per il contrabbando di armi e droga, minacciando seriamente la stabilità tunisina. La dualità del Paese è ben esemplificata dalla coalizione di Governo attualmente in carica: un unicum in cui le forze politiche laico-secolari di Nidaa Tunis sono alleate con il partito islamista di Ennahda. La Costituzione del 2014, frutto di un complicato processo politico, ha sottolineato il successo del compromesso, che, sebbene periodicamente traballante, resiste alle minacce e ai nodi irrisolti della Rivoluzione.

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Alcuni numeri tunisini:

  • 1.2 milioni di tunisini che vivono all’estero (quasi il 10% della popolazione totale), di cui il 55% in Francia, il 15% in Italia e il 5% in Libia;
  • 54mila sono gli stranieri regolarmente residenti in Tunisia (dei quali il 53% proviene dal Maghreb e il 28% dall’Europa);
  • 6.000 circa sono i foreign fighters tunisini impegnati in Siria e Iraq (300 sono già rientrati in Patria);
  • 1.55% del PIL è la spesa nazionale per la sicurezza. [/box]

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SICUREZZA NAZIONALE, DALL’ECONOMIA ALL’ATTIVISMO CIVILE E JIHADISTA – La stagnazione economica e le sue ripercussioni sociali sono alla radice dell’instabilità interna. Le rivendicazioni di maggior benessere, cause scatenanti della Rivoluzione del Gelsomini, restano ancora irrisolte. Particolarmente preoccupanti sono la disoccupazione, soprattutto per i neo diplomati (intorno al 34%), l’assenza di infrastrutture e di servizi essenziali, come scuole e ospedali, nelle regioni centro-meridionali del Paese e la marginalizzazione politica e sociale dei giovani tunisini che, con entusiasmo, avevano avviato la transizione democratica. Gli investimenti pubblici, ad esempio, sono solo il 10% del PIL, uno dei tassi più bassi al mondo, e i dati di crescita economica non sono affatto confortanti se si considera che l’unico settore in crescita è l’agricoltura (+9%), mentre il turismo è crollato di circa il 20% dopo gli attentati del 2015. In aggiunta, diminuiscono gli investitori e gli imprenditori stranieri, preoccupati dall’assenza di un piano economico lungimirante e dalle concrete e costanti minacce alla sicurezza. Il Governo perde progressivamente consensi anche nelle zone più benestanti, dove tradizionalmente è più forte e radicato. L’insoddisfazione popolare verso le istituzioni assume principalmente due forme. La prima è l’attivismo politico all’interno della società civile, caratterizzato da dissenso pacifico e proposte di riforma, nell’ottica di partecipazione democratica e ripresa del progetto rivoluzionario. La collaborazione delle organizzazioni tunisine e internazionali e il loro dinamismo, anche in chiave anti-governativa (proteste dello scorso gennaio), segnalano le crescenti difficoltà ad attuare programmi concreti di sviluppo e rinnovamento.

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La seconda dimensione di protesta, invece, è legata al fondamentalismo. Il rafforzamento dello jihadismo risulta evidente dall’intensificarsi degli attentati nei grandi centri (Tunisi e Sousse) e lungo i confini algerini (El Kef, Kasserine e Monti Chaambi), diretti sia a smantellare il regime vigente sia a creare un incontrollato spazio di azione criminale. Il maggiore gruppo estremista tunisino è Ansar al Sharia (ossia i “Difensori della Legge”), organizzatosi nel 2011 dalle ceneri del Gruppo Combattente Tunisino e dalla collaborazione tra Al Qaeda nel Maghreb Islamico e veterani della resistenza afghana. Particolarmente organizzato, Ansar gestisce una serie di attività parallele rispetto all’amministrazione statale e, anzi, sopperisce ai vuoti lasciati da essa, soccorrendo migliaia di persone nelle aree periferiche (assistenza sociale, attraverso moschee locali, offerte e appropriazione coatta dei beni demaniali abbandonati, programmi scolastici, infrastrutture di base, servizi sanitari e beni di prima necessità). Costruisce così un rapporto simbiotico e di controllo ben radicato sul territorio, ne è un esempio la provincia di Tatouine, e in misura minore anche Kasserine e Gafsa, dove il commercio informale rappresenta l’unica fonte di reddito per ben il 20% delle famiglie locali e la disoccupazione è due volte superiore rispetto alla media nazionale. Insieme al suo braccio armato Katiba Uqbah Ibn Nafaa (circa 500 combattenti) e all’opera dei predicatori wahhabiti-salafiti, Ansar svolge, praticamente indisturbata, le attività di proselitismo religioso, reclutamento, addestramento e gestione dei traffici di armi e stupefacenti dal Sahel all’Algeria. I quasi 6.000 foreign fighters tunisini partiti per unirsi alla causa del Califfato in Siria, Iraq e Libia sono l’evidente conseguenza da un lato, delle capacità operative (e transnazionali) dei jihadisti di Ansar e, dall’altro, della debolezza istituzionale unita all’incapacità governativa di gestire l’entusiasmo del cambiamento.

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DEBOLEZZE STRUTTURALI: DISORGANIZZAZIONE E INEFFICACIA – L’approccio del Governo al tema della sicurezza risulta fallimentare e incompleto, caratterizzato da soluzioni ad hoc a questioni che, invece, necessitano di un piano unitario, coerente e radicale. Un esempio su tutti è la barriera di sabbia, fossati e postazioni di controllo che corre per 196 km dei 250 del confine con la Libia, costruita per proteggere il Paese dal contagio fondamentalista e dare un’apparente impressione di impegno a garantire la sicurezza nazionale. Si registrano, comunque, dei seri tentativi di collaborazione sia regionale che internazionale: dai pattugliamenti e operazioni armate congiunte con l’Algeria, al riconoscimento ufficiale di Major Non-NATO Ally promosso dagli Stati Uniti, con i quali si è costruita una speciale task force con funzioni investigative e giudiziarie che opera nel rispetto della (problematica) legge antiterrorismo, fino ad arrivare agli accordi di cooperazione con Germania, Turchia e Qatar. Nonostante la rete di supporto, le forze di sicurezza e il Ministero degli interni restano incapaci di gestire la lotta al fondamentalismo, infatti, manca una precisa preparazione del personale in materia, le stesse Brigate Antiterrorismo ed unità speciali hanno inadeguati mezzi e risorse per far fronte alla solida struttura di Ansar, la coordinazione e lo scambio di informazioni fra Guardia Nazionale, Sicurezza Nazionale e Polizia è frammentata e confusa. Questo, unito alla dilagante corruzione causata dall’esiguità del salario, è frutto della paralisi istituzionale che non ha favorito né un riammodernamento dell’apparato di sicurezza né, tantomeno, l’elaborazione sostanziale di un nuovo approccio al terrorismo. Il Governo, infatti, si concentra su risposte meramente securitarie senza considerare il fondamento sociale del proliferare dei jihadisti, ossia le condizioni di malessere delle comunità meridionali che, a seguito della stagnazione economica, stanno diffondendosi anche nei principali centri urbani. Ignorare questo può, sicuramente, esacerbare il clima di divisione sociale e far rimpiangere l’era di Ben Ali. La democratizzazione, infatti, è sempre più associata a povertà e repressione: ad esempio, la recente legge in materia di lotta al terrorismo, mancando di una definizione e una contestualizzazione precisa del reato, colpisce gli attivisti civili alla stregua degli jihadisti e introduce condizioni contrarie all’effettiva tutela dei diritti fondamentali (pena di morte e stato di fermo senza obbligo di accusa specifica fino a 15 giorni). Le risposte al terrorismo sono di contenimento e contrasto piuttosto che dirette alla prevenzione e in ambito economico manca totalmente una visione di lungo periodo che incida significativamente sulle reali cause di scontento domestiche. Nonostante l’ampio risalto che il Governo dà agli arresti di militanti jihadisti e ai sequestri di armi e materiale esplosivo, la presenza di cellule terroristiche non è diminuita e l’esercito tunisino continua ad essere vittima di imboscate. Insomma, il Paese affronta la minaccia terroristica come un fenomeno esterno e ne sottovaluta le radici e le motivazioni locali.

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LACUNE E SFIDE DELLA TUNISIA NEL PROSSIMO FUTURO

[toggle title=”Incapacità della politica” state=”close”] Create per la protezione e il mantenimento del regime, la struttura e la funzione delle Forze armate rimangono invariate nonostante sia profondamente mutata la situazione interna. Esse rappresentano un apparato connotato da un’etica di servizio piuttosto rigida e lontana dalle esigenze del cittadino. Sono caratterizzate dal proliferare di dipartimenti e sezioni senza una chiara suddivisione dei compiti e dall’assenza di trasparenza sulle operazioni condotte. In un’ottica democratica è essenziale saper costruire una relazione di fiducia fra i detentori della forza legittima e la comunità da proteggere, allontanando i sospetti di abusi e di completa discrezionalità nell’azione. Finché non ci saranno concrete riforme in materia, la popolazione non si sentirà tutelata né solidale con il potere politico al comando. L’attuale irrigidimento governativo verso le libertà, le organizzazioni non governative e le associazioni di partecipazione politica che promuovono i valori della rivoluzione fanno associare la democratizzazione ad una maggiore insicurezza quotidiana, alla crisi e alle restrizioni. [/toggle]

[toggle title=”Riforme sociali e giovani” state=”close”] Dalle infrastrutture alle istituzioni e all’amministrazione, dall’economia e dalla finanza al sostegno sociale delle zone deboli e svantaggiate, dai vantaggi fiscali per gli investitori tunisini e stranieri alle riforme bancarie, il partenariato pubblico-privato, la riforma del settore privato, l’apertura del mercato tunisino, la cooperazione economica con l’Europa e la diversificazione dei partner (Africa, Stati Uniti, Asia, Medio Oriente). In un Paese in cui l’età media è di 31 anni e i giovani hanno avviato con successo la prima rivoluzione della primavera araba, la principale preoccupazione del Governo, che deve la sua esistenza proprio a questo dinamismo sociale, dovrebbe essere quella di soddisfare la richieste per le quali si è compiuto il cambiamento e, dunque, migliorare le condizioni di vita e di occupazione della popolazione nel complesso e, al contempo, proteggere i traguardi raggiunti. Questo però non accade in Tunisia, dove la stagnazione economica e le sue ripercussioni sociali sono (ancora) sotto i riflettori e continuano, forse anche più del passato, a provocare instabilità interna e semi-paralisi politica. I giovani sono un cruciale fattore di cambiamento sociale, saperli soddisfare può portare grandi benefici alla stabilità interna, dal momento che sia Daesh che Ansar devono la loro espansione proprio alla continua affluenza di reclute. Il nucleo centrale dal quale avviare una restrutturazione sistemica sono proprio le condizioni che favoriscono il successo dello jihadismo; è necessario muoversi per evitare che malcontento di qualsiasi tipo si trasformi in supporto al terrorismo come alternativa alla politica. [/toggle]

[toggle title=”Dialogo tra parti sociali” state=”close”] Negli ultimi mesi i sindacati hanno promosso scioperi a oltranza paralizzando spesso l’intero Paese. Infatti, come in altri periodi turbolenti della storia della Tunisia (rivolte del pane nel 1984 e rivolte di Gafsa del 2008), essi sfruttano la loro presenza ramificata sul territorio, in particolare nel centro-sud, per mediare fra le istituzioni e la società – esercitando forti pressioni sul Governo – e convogliare l’attenzione sulla diseguaglianza sociale. Ecco, dunque, che i sindacati potrebbero diventare un referente ufficiale e contribuire, in modo sempre più stabile, alla coesione sociale. [/toggle]

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[one_half][box type=”warning” align=”” class=”” width=””]RISCHI

  • Continuata sensibilità del Paese all’instabilità libica
  • Sodalizio tra Ansar e Daesh
  • Prolungate proteste in richiesta di diritti civili

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[one_half_last][box type=”note” align=”” class=”” width=””]VARIABILI

  • Riforme strutturali pianificate in ottica di lungo periodo
  • Andamento dei conflitti mediorientali
  • Cornice giuridica e militare
  • Coinvolgimento delle organizzazioni non governative

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Sveva Sanguinazzi

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Sveva Sanguinazzi
Sveva Sanguinazzi

Sono nata nel 1989 a Fiorenzuola d’Arda (Piacenza) ed ho conseguito la laurea specialistica con lode in Relazioni Internazionali presso l’Università di Bologna, scrivendo una tesi sul rapporto tra Arabia Saudita e terrorismo islamico (marzo 2014). Dopo un breve soggiorno Erasmus a Copenhagen, attualmente (ottobre 2014 – giugno 2015) vivo a Tunisi, dove seguo un corso di perfezionamento della lingua araba. Una volta tornata in Italia mi piacerebbe iniziare un dottorato o un periodo di ricerca presso società private. Affascinata dai Paesi del Golfo (e più in generale da tutta la regione MENA), mi interesso di tutto ciò che riguarda il terrorismo, dell’influenza che la religione esercita sulla politica e di tribalismo.

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