Caffè Lungo – In molti speravano che il summit straordinario dell’ASEAN, svoltosi a Giacarta, avrebbe rivelato maggiori certezze sul futuro della crisi birmana: invece ci sono state numerose incertezze e dubbi per come si è mossa l’Associazione nei riguardi della giunta militare birmana.
UN SUMMIT ACCOMPAGNATO DALLE CRITICHE
Lo scorso sabato a Giacarta ha avuto luogo il summit straordinario dell’ASEAN, la principale Organizzazione politico-economica del Sud-est asiatico, della quale fanno parte 10 Paesi membri. Il focus dell’incontro è stato la crisi in Myanmar: dal 1° febbraio, giorno in cui la giunta militare ha sciolto il Parlamento e arrestato i principali membri del partito LND, compresi la leader Aung San Suu Kyi e il Presidente Win Mynt, il Paese è caduto nel baratro del disordine civile e degli scontri tra i manifestanti pro-democrazia e la dura repressione dell’esercito.
Nei giorni scorsi il summit era stato accompagnato da una serie di aspre critiche, giunte dal popolo birmano e dai suoi sostenitori per la scelta di invitare al tavolo delle trattative il generale Min Aung Hlaing, attuale capo del Tatmadaw e Presidente di fatto del Myanmar, nonché artefice delle strategie repressive dell’esercito birmano. Durante l’incontro è stata sottolineata la preoccupante situazione in cui versa la popolazione birmana, costretta a difendersi o fuggire dalla dura repressione dei militari: in particolare le critiche più aspre per ciò che sta avvenendo in Myanmar sono state lanciate dal Presidente indonesiano Widodo, che ha sottolineato la necessità di porre fine agli scontri e di riportare la stabilità nel Paese, salvaguardando gli interessi del popolo birmano. Dello stesso avviso è stato Lee Hsien Loong, Primo Ministro di Singapore, che ha sottolineato l’importanza del ruolo che l’ASEAN deve assumere in merito alla vicenda birmana, in modo da attestare la credibilità e la centralità dell’Organizzazione nella regione.
Fig. 1 – Proteste in Corea del Sud contro la presenza del generale Min Aung Hlaing al vertice ASEAN, 22 aprile 2021
CINQUE PUNTI DI CONSENSO, MA GRAVI MANCANZE
Al termine del summit l’ASEAN ha rilasciato un comunicato in cui venivano annunciati i cinque punti di accordo trovati per risolvere la crisi birmana: la cessazione della violenza nel Paese, l’importanza di instaurare un dialogo tra le parti coinvolte per giungere a una risoluzione pacifica, la nomina di un inviato speciale per facilitare la mediazione tra gli attori coinvolti, gli aiuti umanitari per la popolazione e la costituzione di una delegazione speciale per incontrare i partiti del Paese. Nonostante le intenzioni dell’ASEAN numerose sono state le critiche rivolte all’atteggiamento accomodante avuto dall’Organizzazione nei confronti del generale Min Aung Hlaing. In primis l’accordo stipulato rischia di richiedere molto tempo prima di vederne un’effettiva attuazione: nella dichiarazione infatti non vengono menzionate le tempistiche di azione dell’ASEAN e non sappiamo al momento quando verranno nominati né l’inviato speciale, né la delegazione per favorire il processo di pace.
Inoltre mentre si era parlato inizialmente della volontà di richiedere l’immediato rilascio dei prigionieri politici (tra cui Aung San Suu Kyi e il Presidente Win Mynt), il punto non è stato incluso nella dichiarazione finale. Questo importante elemento non discusso si aggiunge al segnale che era giunto a tutti gli osservatori prima del summit: avendo scelto di invitare Min Aung Hlaing come rappresentante del Myanmar, di fatto l’ASEAN ha riconosciuto implicitamente i militari come i rappresentanti del popolo birmano e del Governo. Non è stato infatti menzionato il Governo di Unità Nazionale (NUG) che si è proclamato due settimane fa come legittimo rappresentante del Paese e le due figure principali della democrazia birmana, appunto Aung San Suu Kyi e Win Mynt, non sono stati considerati dall’ASEAN.
Secondo molti analisti è fondamentale che il NUG, il cui organico è formato da ex parlamentari membri dell’LND e dai rappresentanti dei principali gruppi etnici del Myanmar, venga riconosciuto dal panorama internazionale come il vero rappresentante del potere birmano, in modo da screditare la giunta militare (proprio il NUG avrebbe già richiesto all’Interpol di arrestare il generale Min Aung Hlaing). I membri dell’ASEAN però non si sono espressi, confermando nuovamente come l’Organizzazione sia effettivamente interessata più agli aspetti economici e di stabilità della regione, piuttosto che alla necessità di risolvere le controversie politiche di un Paese membro.
Fig. 2 – L’incontro tra i rappresentanti dei 10 Paesi membri dell’Asean è durato circa due ore, ma non sembra avere portato a una svolta nella crisi
CHE COSA ACCADE ADESSO IN MYANMAR?
Il futuro del Myanmar appare ancora incerto, ma i numeri mostrano la gravità della situazione: più di 750 morti, 3.500 persone arrestate e oltre 250mila sfollati in tutto il Paese per fuggire alla dura repressione militare. Nei giorni scorsi l’inviato speciale dell’ONU Christine Schraner Burgener è riuscita ad arrivare a Bangkok ed è in attesa dell’autorizzazione per entrare in Myanmar e stabilire un dialogo tra la giunta militare e il NUG. Al momento il nemico principale del conflitto birmano è diventato il tempo: è chiaro infatti che gli attori internazionali si sono mossi in ritardo per tentare di fermare la giunta militare, che negli ultimi 70 giorni ha avuto modo di reprimere duramente le manifestazioni, commettendo numerose violazioni dei diritti umani.
Il pericolo di nuove repressioni è concreto, ma allo stesso tempo i manifestanti non hanno intenzione di abbandonare il campo di battaglia. Come ricordato da Kyaw Moe Tun, Rappresenante Permanente del Myanmar all’ONU, il Paese non vuole perdere altre vite umane durante le repressioni e per far sì che ciò non accada l’intervento internazionale è fondamentale: un intervento che per ora non è stato sufficiente per fermare la violenza della giunta militare.
Alberto Botto
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