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Obama e il continente nero: l’Africa occidentale (I)

Con la campagna elettorale ormai nella sua fase finale si impongono riflessioni e critiche su quanto realizzato nei due mandati di Amministrazione Obama. Con questo articolo iniziamo un’analisi delle continuità e delle rotture nella politica estera americana verso l’Africa subsahariana degli ultimi otto anni

Prima parte

AUDACI SPERANZE − La conquista della Casa Bianca da parte di un giovane avvocato di colore nel novembre del 2008 aveva generato grande entusiasmo nel continente africano. In Kenya, Paese d’origine del padre di Obama, il risultato delle elezioni era stato celebrato con la proclamazione di una giornata di festa nazionale. «Il Presidente Obama è il nostro Presidente. Dio ha esaudito le nostre preghiere», aveva dichiarato a Nairobi il capo di Stato Mwai Kibaki. Il valore simbolico della vittoria si affiancava a considerazioni geopolitiche: la più potente nazione al mondo avrebbe finalmente condotto la sua foreign policy con un interesse inedito e profondo verso l’Africa subsahariana.
Le aspettative venivano rafforzate in occasione della prima visita ufficiale del Presidente americano, avvenuta nell’estate del 2009. Sebbene l’unica tappa prevista fosse il Ghana, e sebbene la permanenza ad Accra durasse appena venti ore, il discorso pronunciato da Obama di fronte ai parlamentari e al Governo locale fu accolto come promessa di un impegno nuovo e più incisivo verso l’Africa intera. In particolare, Obama individuava quattro aree in cui si sarebbe sviluppata la cooperazione tra Washington e i Paesi africani: sostegno ai sistemi democratici, sanità, crescita economica e risoluzione pacifica dei conflitti.
Le azioni intraprese in ciascuno dei settori indicati hanno registrato alcuni buoni risultati e, inevitabilmente, disillusioni. Le evoluzioni, peraltro, sono state differenti nelle varie zone del continente. L’Africa subsahariana è infatti un gigante composto da circa 800 milioni di persone, appartenenti a un mosaico complesso di etnie, religioni, lingue, tribù e nazioni. Sarebbe riduttivo, se non impossibile, trattare in maniera omogenea realtà tanto distinte.
Al fine di delineare un bilancio dell’eredità politica di Obama è dunque utile suddividere il continente in cinque aree: la fascia del Sahel, il Corno d’Africa, i Grandi Laghi, il Sud Africa, e la regione in cui ebbe luogo il primo viaggio del Presidente americano: l’Africa Occidentale.

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Fig. 1 – Obama rivolge al Parlamento del Ghana il suo storico discorso, 2009

DEMOCRAZIA − La scelta di Accra non è stata affatto casuale. Negli ultimi venticinque anni, infatti, il Ghana ha confermato di essere una delle democrazie più solide del continente, grazie soprattutto all’adozione (e al rispetto) di una Costituzione che garantisce elezioni libere e multipartitiche. Si tratta di un dato di rilievo, se si considera la difficile sopravvivenza di molte democrazie africane, spesso vittime di leader risolutamente longevi (si pensi, tra gli altri, a Obiang Nguema in Guinea Equatoriale, in carica dal 1982). Nel corso della sua visita nella capitale ghanese, Obama ha ricordato che gli Stati Uniti riconoscono come democratici quei Paesi che non solo indicono regolarmente le votazioni politiche, ma che provvedono anche al loro svolgimento in condizioni di trasparenza, nel rispetto della libertà di stampa e del multipartitismo.
Obiettivo principale della sua amministrazione è stato dunque il supporto ideologico, politico ed economico a realtà come quella del Ghana, nella convinzione che il rafforzamento della democrazia all’interno di uno Stato costituisca un incentivo al radicamento di sistemi simili nei Paesi limitrofi. A sostegno della fondatezza di questa tesi è intervenuta la recente e complessa transizione democratica di un immediato vicino di Accra, il Burkina Faso. Questo Paese è infatti passato dall’ultra-ventennale governo di Blaise Compaoré all’elezione di Roch Kaboré, primo Presidente a non aver ricoperto alcuna carica militare.
Sempre in relazione al consolidamento dei sistemi democratici nella regione, Obama ha accolto con soddisfazione lo svolgimento delle elezioni nigeriane nel marzo 2015. Il candidato vittorioso Muhammadu Buhari, che si definisce «democratico convertito» e che ha incentrato la sua campagna elettorale nella lotta contro la corruzione, è stato ricevuto alla Casa Bianca a pochi mesi dal suo insediamento.

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Fig. 2 – Prevenzione del virus ebola in Guinea, 2015

SALUTE ED EBOLA OUTBREAK − L’accento posto da Obama sul rafforzamento dei sistemi democratici non ha soltanto ragioni ideologiche. Al contrario, ispirandosi a considerazioni intrise di realismo, il Presidente americano ha sottolineato in più occasioni il legame che intercorre fra democrazia e sicurezza internazionale: la creazione di apparati governativi trasparenti, affidabili e attenti alla salvaguardia dei diritti umani permette il potenziamento di servizi pubblici essenziali, prima fra tutti la sanità. Ciò favorisce la cura e la prevenzione di patologie letali che affliggono il continente, e che spesso si rivelano capaci di valicare i confini africani e propagarsi nel resto del mondo.
Un esempio tangibile di questa preoccupazione si è avuto con l’epidemia da virus ebola, esplosa in Africa occidentale agli inizi del 2014. L’allerta per il rischio di contagio nel territorio statunitense ha raggiunto il suo apice quando due cittadine americane che si trovavano in missione umanitaria in Liberia sono state costrette a rientrare ad Atlanta, dopo aver contratto il morbo, per ricevere cure adeguate. A seguito del loro rimpatrio, Obama ha definito il virus ebola come «minaccia alla sicurezza nazionale», e ha deciso di rimuovere centinaia di Peace Corps Volunteers dalla Guinea, dalla Sierra Leone e dalla stessa Liberia.
Nelle prime settimane del 2016, l’Organizzazione mondiale della sanità ha finalmente dichiarato “ebola free” l’intera Africa occidentale. Permane tuttavia una sotterranea insoddisfazione sulla risposta offerta dall’amministrazione Obama in occasione dell’emergenza. Sebbene gli aiuti economici non siano mancati, le misure intraprese dalla Casa Bianca sono state percepite come rivolte all’esclusiva protezione degli interessi americani.

POWER AFRICA − Anche in materia economica la posizione di Obama ha rivelato un grande pragmatismo, conseguendo risultati ben più soddisfacenti. Fin dagli inizi del suo primo mandato, il Presidente ha spiegato che lo sviluppo africano costituiva un interesse fondamentale per gli Stati Uniti: la crescita economica del continente avrebbe permesso l’apertura di nuovi vasti mercati per i beni americani. Al riguardo Obama ha ricordato in più occasioni che un’economia incentrata sull’esportazione di singoli prodotti (come il cacao per la Costa d’Avorio o il cotone per il Benin) non permette una crescita prolungata: al contrario, rende i Paesi estremamente vulnerabili alle variazioni della domanda internazionale e tende a concentrare il benessere nella mani di pochi produttori interni. Obama ha evidenziato pertanto l’importanza di politiche di diversificazione, da promuovere non solo a livello governativo, ma anche attraverso singole iniziative imprenditoriali.
La strategia individuata dalla Casa Bianca ha costituito una svolta netta rispetto alle amministrazioni precedenti: mentre Bill Clinton e, soprattutto, G.W. Bush avevano offerto unicamente foreign aids ai Governi locali (i quali non sempre utilizzavano con efficacia gli ingenti aiuti ricevuti), Obama si è impegnato anche nel coinvolgimento del settore privato, ritenuto di importanza fondamentale per sostenere la crescita. Questo sforzo si è tradotto nell’ambizioso piano Power Africa, lanciato nel 2013. Il progetto mira alla cooperazione tra Governi, privati e alcune Agenzie statunitensi (come la U.S. Export-Import Bank e la Overseas Private Investment Corporation), e ha lo scopo principale di diffondere l’accesso alla rete elettrica nell’Africa subshariana. In particolare, destinatari principali del progetto sono Paesi quali la Liberia, la Nigeria e il Ghana. La presenza delle Agenzie americane nel programma permette non solo la partecipazione di consiglieri tecnici qualificati, ma anche il contenimento dei rischi economici e politici di lungo periodo, tipici dei Paesi africani. Questa mitigazione dei rischi, a sua volta, costituisce un incoraggiamento alla partecipazione del settore privato. Nel suo complesso, la realizzazione del Power Africa consentirà l’accesso alla rete elettrica a circa 60 milioni di famiglie, uffici e piccoli negozi, oggi costretti a chiudere all’ora del tramonto.

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Fig. 3 – Una strada scarsamente illuminata di Monrovia, Liberia, 2015

SICUREZZA − Con riguardo alla risoluzione dei conflitti locali, Obama ha confermato il suo appoggio alle Organizzazioni volte a costruire un credibile sistema di sicurezza regionale, prima fra tutte l’Ecowas. Il Presidente ha inoltre precisato il ruolo dell’americana Africom (United States African Command), creata dall’amministrazione Bush nel 2007 al fine di contrastare l’emersione di gruppi terroristici africani di matrice islamica. Secondo quanto spiegato da Obama, l’Africom non intende imporre una presenza militare statunitense nel continente, bensì offrire utili strumenti (come il training delle forze di polizia locali) per affrontare le sfide comuni in materia di sicurezza.
Tra queste, la più urgente è senza dubbio rappresentata da Boko Haram. Il gruppo, fondato nel Nordest della Nigeria, ma ormai diffuso in alcuni Paesi limitrofi (come il Camerun), ha suscitato l’indignazione internazionale nell’aprile del 2014, con il rapimento di 276 studentesse nella cittadina di Chibok. La stessa first lady americana, Michelle Obama, ha partecipato attivamente alla campagna Bring Back Our Girls. Il Presidente Obama ha offerto fin da subito una missione di intelligence per contribuire alla ricerca delle giovani, evitando comunque l’invio di truppe americane, coerentemente con il suo scetticismo circa le operazioni boots on the ground. Nei mesi successivi al rapimento, tuttavia, la cooperazione con il Governo nigeriano non si è rivelata semplice. Nel dicembre dello stesso anno, a fronte di insoddisfazioni reciproche, la Nigeria ha cancellato l’ultima fase di una missione americana impegnata ad addestrare alcuni battaglioni nigeriani.

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Fig. 4 – Giovani nigeriane in fuga da Boko Haram, Niger, 2016

Migliore si è dimostrato il coordinamento con il Camerun, cui Obama ha accordato, nel 2015, l’invio di missioni di intelligence e di 300 militari statunitensi. Al di là dei rapporti bilaterali con i singoli Paesi, l’amministrazione Obama ha posto attenzione a non sottovalutare il pericolo che Boko Haram rappresenta per la sicurezza nazionale. Fin dal 2013 la Casa Bianca ha designato il gruppo come Foreign Terrorist Organization, ha proseguito nell’addestramento di forze militari africane (attraverso l’Africom) e ha provveduto a espandere le basi di droni in Burkina Faso e Niger.
Complessivamente la presenza americana nella regione è più visibile rispetto all’inizio del primo mandato Obama. Ciò nonostante, come sarà illustrato nel prossimo articolo, gli sforzi maggiori in materia di sicurezza si sono concentrati in un’area adiacente e nevralgica: il Sahel.

Giulia De Nardis

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

  • L’Ecowas (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale) è un’Organizzazione internazionale che comprende quindici Stati africani, fondata nel 1975, con sede ad Abuja. Sebbene sia nata come accordo economico, tra i suoi obiettivi più recenti si annovera la risoluzione dei conflitti locali. A partire dagli anni Novanta, le truppe Ecowas sono intervenute in Sierra Leone, Guinea Bassau, Liberia e Mali.
  • Il Caffè ha dedicato uno speciale alla struttura e all’attività di Boko Haram. [/box]

 

Foto: US Army Africa

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Giulia De Nardis
Giulia De Nardis

Nata nel 1989 a Pescara ma romana d’adozione, mi sono laureata in giurisprudenza con una tesi in filosofia del diritto. Ho conseguito un master alla SIOI in Studi Diplomatici ed attualmente sfido la sorte preparando alcuni concorsi pubblici. Nel mondo delle relazioni internazionali guardo con particolare interesse all’America Latina, al Medio Oriente ed agli Stati Uniti, dei quali mi occupo per Il Caffè Geopolitico.

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