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Le sfide della COP22 di Marrakech

Con la ratifica dell’Accordo di Parigi in extremis, la delegazione italiana ha partecipato, insieme agli altri Paesi firmatari, alla ventiduesima Conferenza delle Parti, COP22, per l’attuazione dell’Accordo di Parigi. Ma quali sono stati i risultati di questo importante incontro?

LA VENTIDUESIMA CONFERENZA DELLE PARTI – La COP22, tenutasi a Marrakech dal 5 al 18 Novembre, è stato il primo incontro ufficiale tra gli Stati membri del UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) dopo l’entrata in vigore dell’Accordo sul cambiamento climatico. Le aspettative che si riponevano in questo incontro, come riportato in un precedente articolo, erano molto elevate, essendo i governi sempre più consapevoli delle gravi conseguenze del surriscaldamento globale. Un semplice accordo tra più Stati, infatti, non più più considerarsi sufficiente per impedire l’innalzamento delle temperature e sono, invece, necessari ulteriori interventi che lo rendano realmente operativo. Ecco spiegata l’importanza di COP22.

L’IMPEGNO ECONOMICO IN COP22 – Il tema dell’impegno economico è stato uno dei punti cardine di COP22: più investimenti nelle energie rinnovabili nonché in aiuti finanziari ai Paesi in via di sviluppo, non ancora in grado di raggiungere autonomamente i risultati fissati dall’Accordo parigino. Esso, differentemente dagli altri trattati in tema di ambiente, si è dimostrato più lungimirante e ha previsto la possibilità di fissare degli obiettivi “personalizzabili” da Stato a Stato. Di conseguenza, ogni Paese avrà un proprio target, più o meno ambizioso sulla base delle sue concrete possibilità di raggiungerlo. Ma, indipendentemente dall’obiettivo, l’impegno economico è di primaria importanza, a maggior ragione perché sono proprio i Paesi con gli target maggiormente corrispondenti alla realtà e, quindi, più raggiungibili, a non possedere i fondi necessari per soddisfare l’impegno assunto siglando l’accordo.

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Fig. 1 – Manifestazione durante il vertice a Marrakech

Gli investimenti dei Paesi più ricchi si rivelano essenziali per i Paesi più poveri, la cui economia è ancora troppo legata alle energie fossili. Tuttavia, i primi non suppliscono volentieri alla mancanza di denaro dei Paesi in via di sviluppo, per via della poca chiarezza di quest’ultimi sull’utilizzo dei fondi. E difatti, la non trasparenza è dovuta al fatto che gli Stati con economie meno sviluppate non intendono sottomettere le loro politiche interne al controllo dei Paesi donanti, venendosi così a creare un’impasse di non poco conto. Il rischio che si corre è, dunque, sempre quello di un impegno politico non seguito da un successivo impegno finanziario, così come è già successo per diversi trattati internazionali in tema ambientale.

I RISULTATI OTTENUTI – Già durante la ventiduesima Conferenza delle Parti, si è puntato a raggiungere una buona quota di investimenti da parte dei Paesi sviluppati verso il Green Climate Fund e la Global Environment Facility, insieme al Fondo per i Paesi in via di sviluppo e al Fondo speciale sui Cambiamenti Climatici. Anche se l’impegno finanziario sarà l’oggetto principale di COP24 nel 2018, già si può affermare che le aspettative su COP22 sono state soddisfatte solo in minima parte. Infatti, sono stati stanziati, per l’Adaptation Fund, solo quello che corrisponde all’0,1% dei finanziamenti necessari e cioè solamente 80 milioni di dollari, rispetto ai 56 e 73 miliardi di dollari stimati dall’UNEP (United Nation Environment Programme). Di certo, però, la scarsa cooperazione dei Paesi partecipanti all’incontro di Marrakech è dovuto anche al risultato delle elezioni americane saputo pochi istanti dopo l’apertura dei lavori.

COP22, L’OMBRA DI TRUMP – Quando si era fissato l’incontro nelle due settimane centrali di Novembre 2016, non si era fatto i conti con le elezioni americane, che inevitabilmente hanno finito per influire su di esso. Come tutti sappiamo, infatti, Donald Trump è il nuovo presidente eletto degli Stati Uniti, fatto che preoccupa anche il più ottimista degli ambientalisti. La vittoria di Trump è calata come un’oscura ombra su COP22 .

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fig. 2 – Il presidente eletto Donald Trump

Del problema Trump-clima si è scritto anche in un articolo dell’Economist, dove si è cercato di analizzare le controverse dichiarazioni del futuro presidente USA. Trump, infatti, non ha mai avuto un’opinione univoca sul tema del climate change, il che, forse, lo rende ancora più imprevedibile e, per questo, più pericoloso. Se prima delle elezioni sembrava quasi essere favorevole alla lotta al cambiamento climatico, durante la campagna elettorale non ha avuto scrupoli di definirlo un “chinese hoax”, una bufala o un imbroglio da parte della Cina. Tuttavia, come ha anche evidenziato John Kerry, Segretario di Stato, la prospettiva da cui si osservano alcuni problemi dopo le elezioni potrebbe anche essere diversa da quella con cui li si osservava durante campagna elettorale. Già qualche segnale in tal senso sembrerebbe provenire da un’intervista rilasciata da Trump al New York Times, durante la quale lo stesso ha dichiarato l’importanza dell’aria e dell’acqua pulita, senza menzionare oltre l’intenzione di uscire dall’Accordo di Parigi. Ma è sufficiente?

I POSSIBILI SCENARI – Come già scritto, l’impegno economico è il più importante per non far rimanere lettera morta l’Accordo di Parigi ed iniziare a compiere i primi passi nella lotta al surriscaldamento globale. Donald Trump, dopo le elezioni, non ha più comunicato la sua volontà di recedere dall’Accordo, cosa che comunque non sarebbe stata possibile prima del trascorrere di quattro anni. Per questi motivi, lo scenario più probabile rimane quello di un’America ancora parte dell’Accordo parigino, ma non più attivamente partecipe. A parole, questo potrebbe già considerarsi un risultato: un impegno politico è meglio di niente. Ma nel concreto, il rischio di fallire senza l’appoggio economico degli USA è veramente altissimo e lo dimostra il fatto che l’azione americana insieme a quella di Paesi come Argentina, Australia, Canada, Turchia ed Arabia Saudita, sia stata considerata già insufficiente. Infatti, durante i lavori di COP22, si è evidenziata la mancanza da parte dell’America di una legislazione base sulla quale procedere, nonché la carenza di leggi quadro e di regolamenti sui cambiamenti climatici.

L’IMPEGNO ITALIANO – Con una ratifica in extremis pochi giorni prima dell’apertura dei lavori di COP22, anche l’Italia ha potuto partecipare all’incontro quale paese membro del trattato sul cambiamento climatico. Nella legge di ratifica inoltre, lo Stato Italiano si è dimostrato pronto a contribuire economicamente decidendo di stanziare 50 milioni di dollari per ogni anno, fino al 2018, quando finalmente diverrà operativo il trattato. In seno alla Conferenza, invece, l’Italia ha statuito lo stanziamento di 5 milioni di dollari sui 75 milioni che i Paesi più ricchi hanno deciso di destinare agli Stati africani. Ad annunciarlo è stato il Ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, il quale ha anche svelato la candidatura dell’Italia quale Paese ospitante la Conferenza Onu sul Clima nel 2020. Di essenziale importanza sono state anche le successive dichiarazioni del Ministro, che, per la prima volta, ha parlato di rifugiati climatici. «C’è chi pensa che basti alzare dei muri, ma le barriere possono al limite fermare gli uomini, non i cambiamenti climatici» ha affermato, infatti, Galletti, con un velato rifermento a Trump, «Se non lo capiamo e in fretta, dovremo aspettarci 250 milioni di migranti ambientali entro il 2050». A quanto pare, però, l’attenzione su altri effetti del cambiamento climatico, come appunto la questione dei migranti ambientali, e l’impegno economico non sono abbastanza. Infatti, secondo gli il Grantham Research Institute on Climate Change e il Dipartimento sugli studi ambientali della London School of Economics, l’Italia è tra i sei Paesi del G20, insieme a Brasile, Cina, Francia, Germania e Gran Bretagna, ad aver fatto meno di quello che avrebbe dovuto, rimanendo al di sotto dei target fissati a Parigi.

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Fig. 3 – Il Primo Ministro indiano Narendra Modi (a destra) con il suo omologo qatariota Al Thani

SITUAZIONE INDIA – Tra i Paesi che già anno ratificato l’Accordo di Parigi e che hanno dunque partecipato a COP22 da Stati membri, è stata presente anche l’India. Quale paese in via di sviluppo, l’India è stata tra i primi a ratificare l’accordo e ad acclamare la possibilità di differenziare gli obiettivi da paese a paese, quale segno di una giustizia equa e paritaria. L’interesse per la questione del cambiamento climatico da parte dell’India è dovuta ad una particolare ragione: il gravissimo problema delle alluvioni e delle esondazioni, che ogni anno causano centinaia e centinaia di morti. È stato stimato, infatti, che ogni anno l’India arriva a spendere circa 10 miliardi di dollari per fronteggiare il problema ed è sempre più alto il numero degli scienziati che ritengono che tra le alluvioni e le esondazioni e l’innalzamento delle temperature via sia un chiaro ed inequivocabile collegamento. Ma c’è di più. Già nella sede della ventunesima Conferenza delle Parti del dicembre scorso, il Primo Ministro indiano, Naredra Modi, aveva lanciato l’International Solar Alliance (ISA). Proprio durante COP22 è stato siglato l’accordo per l’istituzione dell’ISA e già più di 20 Stati ne sono diventati parti e ci si aspetta l’adesione di altri. L’obiettivo principale dell’ISA è quello di lavorare per un utilizzo più efficiente dell’energia solare, onde ridurre la corsa energie fossili, in linea con l’Accordo di Parigi.

Michela Leggio

[box type=”shadow” align=”” class=”” width=””]Un chicco in più

In seno alla ventiduesima Conferenza delle Parti, è stato adottato il testo della Dichiarazione di Marrakech, che, oltre a ribadire gli impegni assunti a Parigi, invita le parti ad adottare l’Emendamento di Doha. Questo consiste in uno particolare testo che ha apportato modifiche al Protocollo di Kyoto, prevedendo una proroga degli impegni assunti col protocollo per il periodo 2013-2020. Dato il silenzio in merito alle azioni necessarie per un’attuazione dell’Accordo di Parigi prima della sua completa operatività, c’è da pensare che l’unico modo per iniziare ad agire prima del 2020 sia proprio la ratifica dell’Emendamento di Doha.[/box]

Foto di copertina di CDKNetwork Rilasciata su Flickr con licenza Attribution License

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Michela Leggio
Michela Leggiohttp://ilcaffegeopolitico.org

Laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Padova, si è appassionata ai diritti umani e al diritto ambientale dopo un corso alla Fordham University a New York. Sogna un futuro in giro per il mondo, anche se per il momento si accontenta di farlo tra un’udienza e l’altra in Tribunale. Al caffè preferisce il tè verde, specialmente se biologico ed equosolidale.

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