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Il fenomeno dei foreign fighters e la gestione dei rientri in Tunisia

Assediato in Iraq e Siria, lo Stato Islamico continua la sua guerra globale attraverso i combattenti stranieri dei quali rivendica gli attentati nel mondo. La Tunisia, primo Paese esportatore di foreign fighters, da tempo affronta il problema del ritorno dei giovani partiti per il jihad ma è ancora divisa su come gestire un fenomeno tanto ampio quanto complesso

IL RITORNO DEI FOREIGN FIGHTERS – Le incalzanti sconfitte inferte ai gruppi jihadisti, Stato Islamico (ISIS) primo fra tutti, in Libia, Siria ed Iraq, hanno progressivamente spinto i foreign fighters a cercare rifugio in nuove aree, tra cui, ovviamente, i rispettivi Paesi d’origine. Un rapporto delle Nazioni Unite del maggio 2016 riferisce come, con l’ISIS indebolito dalle sconfitte sul campo, numerosi Paesi abbiano registrato un significativo aumento del numero dei ritorni dall’Iraq e dalla Siria e come il gruppo terroristico abbia dato avvio ad una nuova fase di decentramento delle operazioni. Solo nei primi sei mesi del 2017, gli attentati di Istanbul, Londra, Parigi, San Pietroburgo, Stoccolma, Alessandria e Tanta, Manchester, di nuovo Londra e il più recente a Teheran, sono stati rivendicati dall’ISIS ed eseguiti da uomini a esso ispirati. Dopo aver affrontato le partenze di migliaia di suoi giovani cittadini, la Tunisia si ritrova divisa su come affrontarne il rientro a casa dalle zone di guerra all’estero. Il caso del giovane tunisino Anis Amri, sospettato di aver ucciso 12 persone nell’attacco terroristico ad un mercatino di Natale di Berlino lo scorso 19 dicembre, è indicativo della politica contraddittoria della Tunisia circa il rimpatrio di suoi cittadini, espulsi da Paesi esteri. Difficoltà strutturali, sovrapposizioni e conflitti di competenza tra guardia nazionale ed esercito hanno, in diversi casi, fatto emergere le lacune istituzionali di un Paese che si trova ad affrontare quella che, a ragione, può essere considerata la fase più delicata del fenomeno “foreign fighters”. La reazione della società civile tunisina al possibile ritorno in patria dei combattenti addestrati dall’IS è tutt’ora variegata. Nel Paese, molti intellettuali ed attivisti della società civile hanno manifestato contro il loro rientro e sei partiti politici hanno firmato una dichiarazione congiunta con la quale chiedevano al governo chiarezza sulle misure adottate per gestire il ritorno di terroristi in Tunisia. L’Unione Generale Tunisina del Lavoro, il principale sindacato tunisino, è rimasto fermo nel sostenere l’impossibilità di qualunque forma di perdono, così come le forze di sicurezza e di polizia, ancor più duramente, hanno chiesto misure più estreme quali la revoca della cittadinanza, possibile in virtù della legge del 1963, emendata nel 2010, ma oggi proibita dalla nuova Costituzione del 2014 (art. 25). Il partito islamista moderato Ennahda ha invece proposto l’implementazione di un programma di de-radicalizzazione che tratti i jihadisti di ritorno come individui che necessitano di supporto fisico e psicologico. Similmente, la Rescue Association of Tunisians Trapped Abroad (RATTA), un’organizzazione fondata nel 2013 per fornire supporto, morale e legale, alle famiglie e agli stessi combattenti, ha pensato alla creazione di un programma di de-radicalizzazione, basato a sua volta sull’identificazione di cinque livelli di radicalizzazione, secondo un approccio più psicologico e meno repressivo, più attento alle cause e, metaforicamente, alla cura di una malattia che per molti non ha ancora raggiunto lo “stadio terminale”.

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Fig. 1 – Manifestazione di protesta a Tunisi contro il ritorno dei terroristi.

LA LEGGE ANTITERRORISMO – “Ogni cittadino tunisino ha il diritto di tornare nel suo Paese, si tratta di un diritto garantito dalla Costituzione, nonostante ciò non si può essere tolleranti con chi ha nuociuto al proprio Paese”. Le parole del presidente della Repubblica Essebsi nel dicembre 2016 hanno chiarito la posizione dello Stato circa il ritorno in patria dei jihadisti, i quali aspetteranno, in carcere, di essere giudicati secondo la severa legge antiterrorismo. In risposta agli attacchi terroristici al museo del Bardo e alla spiaggia di Sousse, infatti, dopo aver dichiarato lo stato di emergenza ed aver ordinato la chiusura di 80 moschee, il 24 luglio del 2015, con 174 voti a favore, 10 astenuti e nessun contrario, il Parlamento tunisino ha approvato una nuova legge contro il terrorismo e il riciclaggio di denaro. Essa introduce, ad esempio, un sistema di indennizzi per le vittime di attentati terroristici e dispone la creazione di una Commissione nazionale per la lotta al terrorismo, incaricata di studiare il fenomeno e coordinare gli sforzi delle autorità. Ciononostante, la nuova legge è stata duramente criticata dalle organizzazioni per i diritti umani e dalla società civile, per non essere in linea con gli standard internazionali e per l’impatto negativo sul pieno godimento delle libertà civili. La definizione di terrorismo e di atti terroristici è, infatti, estremamente vasta e generica e potrebbe consentire alle autorità di perseguire manifestazioni di dissenso politico alla stregua di minacce alla sicurezza pubblica. Qualsiasi sospettato può essere detenuto ed interrogato dai servizi di sicurezza fino a 15 giorni, anche non in presenza di un avvocato, ed i danni a proprietà pubbliche compiuti nel corso di manifestazioni sono considerati atti terroristici. La pena di morte viene reintrodotta per reati di terrorismo, sebbene la moratoria iniziata nel 1991 non sia stata ancora, di fatto, interrotta. In alcun modo vengono prese in considerazione tematiche quali prevenzione e de-radicalizzazione, mentre gli arresti e le terribili condizioni delle carceri sovraffollate offrono un terreno fertile per l’estremismo e costituiscono un ambiente ricco di possibili nuove reclute per il jihad.

LE PARTENZE – Proprio le reclute hanno conferito al paese della “Rivoluzione dei Gelsomini” il triste primato di primo esportatore di foreign fighters. Sebbene il fenomeno non sia nuovo per la Tunisia, da cui in passato un certo numero di combattenti è partito alla volta di Afghanistan (Tunisian Combat Group), Iraq, Cecenia e Bosnia, la situazione attuale risulta senza precedenti in termini di ampiezza. L’International Center for the Study of Radicalization (ICSR) ha stimato tra 1500 e 3000 il numero di jihadisti tunisini affilati a gruppi estremisti e takfiristi, mentre un rapporto del Gruppo di Lavoro ONU sull’uso di mercenari, risalente al luglio 2015, ne aveva contati più di 5000, in maggioranza giovani tra i 18 e i 35 anni, distribuiti tra Siria, Libia, Iraq, Mali e Yemen. Numeri così elevati, addirittura superiori a quelli dell’Arabia Saudita wahhabita, e a cui non viene aggiunto il numero di coloro a cui è stato impedito di partire, pesano ancora di più su un Paese come la Tunisia che, unico tra i Paesi sconvolti dalle “primavere arabe”, è riuscito a porre fine al regime autocratico di Ben Ali nel gennaio 2011 e a inaugurare la democrazia con l’approvazione della nuova Costituzione nel gennaio 2014.

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Fig. 2 – Trincea scavata lungo il confine con la Libia, parte della barriera di sabbia, fossati e filo spinato completata nel 2016 per fermare le infiltrazioni jihadiste in Tunisia

IL CONTESTO – Non senza battute d’arresto, il processo di transizione appare, a distanza di tre anni, ancora in corso e contribuisce solo in parte alla comprensione di una realtà come quella tunisina che è molto più complessa della semplice definizione di “maggiore caso di successo delle primavere arabe”. Il numero di foreign fighters e il peso della lotta ai reclutamenti e della gestione dei rientri di chi è sopravvissuto sono sintomi di una complessità che non è solo politica, tipica di un Paese in transizione verso la democrazia, ma è anche economica e sociologica. Nata nel 1956 con la fine dell’occupazione francese, la prima Repubblica tunisina di Habib Bourguiba cominciò il processo di costruzione della nazione portando con sé le tipiche contraddizioni di uno Stato post-coloniale, fatto di storiche fratture tra nord e sud, tra regioni costiere e regioni interne. Sulla base di queste fratture, la crisi economica e sociale degli anni ‘70 contribuì alla nascita di un movimento islamista che catalizzò e riprodusse le frustrazioni delle classi piccolo-borghesi di provincia e delle aree geografiche del sud, che dal processo di costruzione dello Stato e dagli spazi di partecipazione al potere si sentivano escluse. Tuttavia, né Bourguiba prima, né Ben Ali poi permisero l’espressione di movimenti politici alternativi, costringendo i leader islamisti a lasciare il Paese e favorendo un senso di marginalizzazione per quanti avessero inclinazioni per l’Islam tradizionale. La fine del regime nel 2011 e il nuovo patto di cittadinanza sancito con la Costituzione del 2014 hanno riconsegnato al popolo tunisino una libertà che per molti si è tradotta nella manifestazione di una fede islamica fino ad allora nascosta o repressa e in una polarizzazione radicale della società. Nel clima di libertà e democrazia post regime, la Tunisia ha riscoperto le proprie radici religiose e ha visto riformarsi quei partiti islamisti prima costretti all’esilio. Ma se Ennahda, grazie al suo storico leader Rachid Ghannouchi, è riuscito in un processo di moderazione che gli ha permesso di “normalizzarsi”, il movimento salafita (Ansar al-Sharia in Tunisia, dichiarata organizzazione terroristica nel 2013) ha ottenuto consensi facendosi espressione della rabbia sociale dei giovani che non si riconoscono nella moderazione di Ennahda né nell’istituzionalizzazione della rivoluzione. Questa massa giovanile popolare è diventata il principale bacino di reclutamento per i jihadisti, frustrata da un senso di disillusione e non appartenenza e dall’elevato tasso di disoccupazione, che raddoppia, rispetto alla media nazionale, nelle più svantaggiate regioni dell’interno. Le disparità regionali, inevitabili per la conformazione geografica del paese, sono state approfondite, piuttosto che mitigate, dalla politica industriale degli ultimi anni. Con la crescente influenza nel Maghreb di gruppi jihadisti legati allo Stato Islamico, il caos libico al confine, nonostante la barriera di 197 km, facilita le infiltrazioni di reclutatori, rappresenta un santuario per i terroristi e garantisce il rifornimento di armi, oltre alle partenze e al transito dei combattenti.  Come sempre, quindi, comprendere i fattori che stanno dietro i numeri permette di avere una visione complessa ma quanto meno completa del fenomeno dei foreign fighters tunisini, un fenomeno al tempo stesso ideologico, storico, politico, economico e sociale. Affrontare il problema delle partenze è strettamente legato alla necessità di gestire il problema dei ritorni e la dura e semplice repressione prevista dalla legge antiterrorismo è insufficiente, se non addirittura controproducente.

Maria Di Martino

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

Più di un terzo dei foreign fighters tunisini è originario di Ben Gardane, città nel sud del Paese, Biserte, nel nord, e Tunisi, la capitale. Circa il 70% è stato addestrato in Libia, in particolare nella base IS di Sabratha, a pochi km dal confine con la Tunisia.    [/box]

Foto di copertina di Magharebia Licenza: Attribution License

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Maria Di Martino
Maria Di Martino

Classe 1991, coltivo la passione per il mondo arabo fin dagli studi triennali all’Orientale di Napoli, dove lo studio della lingua, della storia e delle istituzioni musulmane mi ha insegnato ad osservare le dinamiche mediorientali con lo sguardo di un vicino consapevole della loro importanza. Laureata magistrale in Relazioni Internazionali alla Sapienza di Roma, con una tesi in diritto internazionale dell’economia e dello sviluppo, all’interesse per l’analisi geopolitica accompagno una personale sensibilità per i diritti umani, sognando un futuro di ricerca e azione per la loro difesa, poiché ancora idealisticamente convinta che parlare di Stati possa significare, prima di tutto, parlare di persone.

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