Con la guerra all’IS ormai entrata nella sua fase conclusiva, nell’immediato futuro l’Iraq affronta la sua delicatissima ricostruzione. Quali saranno le conseguenze delle complesse dinamiche avviate in questi tempi di guerra e se si potrà parlare di pace è impossibile prevederlo, ma alcuni fattori consentono di immaginare qualche possibile scenario
VERSO UN NUOVO ORDINE “FEUDALE – Con la guerra per la riconquista dei territori occupati dall’IS ormai agli sgoccioli, ciò che oggi rimane dell’Iraq è un Paese drammaticamente trasformato e ancora in profonda trasformazione. Le estreme conseguenze della politica settaria sistematicamente adottata fin dalla caduta di Ṣaddam Ḥusayn, la “questione sunnita” che ne è derivata, l’affermazione dello Stato Islamico e il ruolo determinante, a scapito dell’esercito regolare, delle milizie sciite e dei peshmerga curdi in quest’ultima guerra, hanno confermato il progressivo svuotamento del sistema istituzionale iracheno. Le difficoltà incontrate dal governo centrale nella gestione unitaria del conflitto, la marginalità dell’esercito e l’estrema frammentazione, nonostante il nemico comune, degli attori impegnati nella guerra all’IS dipingono oggi uno scenario in cui singoli gruppi, più o meno rivali e più o meno sostenuti dalle potenze regionali straniere, detengono, di fatto, il controllo del territorio. In assenza di un serio progetto di riconciliazione nazionale e di ricostruzione unitaria dello Stato, la fine definitiva della guerra non farebbe altro che consolidare, nel prossimo futuro, un simile status quo, in cui il controllo strategico delle infrastrutture è determinante per il controllo delle istituzioni locali. Questo renderebbe inevitabile, per la classe politica del Paese, stringere legami e alleanze con i militari e le milizie che di fatto controllano il territorio, riproponendo e consolidando quel sistema di reti clientelari informali che hanno caratterizzato l’ordine iracheno fin dalla caduta di Ḥusayn nel 2003 e dal fallimento del progetto statuale americano. Pur con gli stessi confini, l’Iraq, profondamente frammentato al suo interno, si presenterebbe come una sorta di moderno Stato feudale, in cui porzioni di territorio sono controllate e governate da nuovi poteri emergenti, gruppi militari, miliziani e capi locali.
Fig. 1 – Miliziani delle Unità di Mobilitazione Popolare riunite nei pressi dell’aeroporto di Tal Afar, a ovest di Mosul
IL NECESSARIO PROGETTO DI RICONCILIAZIONE NAZIONALE E LA FRAMMENTATA GALASSIA SCIITA – Un simile scenario, nemmeno poi così improbabile, sottolinea quanto le vittorie militari e la riconquista del territorio non pacificano l’Iraq né consolidano l’unità del Paese. Finita la guerra, sul piano politico il blocco sciita rimane l’unica forza di maggioranza a potersi incaricare del difficile quanto necessario processo di riconciliazione nazionale. Continuare a emarginare ed escludere la minoranza sunnita dalla gestione del Paese significherebbe continuare ad alimentare la tensione settaria che ha dato origine allo Stato Islamico e renderebbe illusoria la sua sconfitta. Come già dimostrato in Europa, anche in Medio Oriente l’IS, seppur privato di città chiave, territori e risorse, potrebbe semplicemente cambiare volto e tattica, decentralizzando la sua struttura e attribuendo maggiore autonomia ai capi locali, affidando la sua lotta a episodi di guerriglia e a singoli attentati terroristici di cellule dormienti. Forte della vittoria sullo Stato Islamico e in linea con alcune iniziative conciliatorie del suo mandato, l’attuale premier Ḥaydar al-ʿAbādī potrebbe riuscire a essere il promotore più credibile di un serio progetto di riconciliazione nazionale, che passa inevitabilmente attraverso la riunificazione del frammentato fronte sciita, il disarmo e la smobilitazione delle milizie (PMU), il rafforzamento dell’esercito regolare e il trasferimento delle fedeltà politiche dalla miriade di capi locali verso le istituzioni di uno Stato centrale, nuovamente unitario.
Fig. 2 – L’arrivo a Mosul, liberata dall’IS, del premier Ḥaydar al-ʿAbādī
UN NUOVO IRAQ SENZA KURDISTAN – Un’altra delle delicate incognite nel futuro prossimo dell’Iraq post-IS è la questione dell’indipendenza del Kurdistan e la sorte dei territori contesi tra l’autorità centrale di Baghdad e il governo regionale curdo di Erbil. Storicamente alla ricerca di autonomia politica ed economica dal governo centrale, oggi la minoranza curda insiste per l’indipendenza, forte dell’impegno in prima linea dei peshmerga nella riconquista dei territori occupati dallo Stato Islamico e del controllo di fatto esercitato nella provincia di Kirkuk e nella regione di Ninive, di cui Mosul è capoluogo. Sul piano militare, politico ed economico, le condizioni per l’indipendenza di Erbil sembrano più favorevoli che mai. Nonostante l’accordo stipulato con Baghdad per il ritiro delle truppe una volta completate le operazioni anti-IS, il Premier curdo Barzani ha pubblicamente annunciato di non voler disimpegnare i combattenti dalle regioni riconquistate, regioni storicamente rivendicate e su cui ora di fatto può consolidare il suo controllo. Inoltre, l’eventuale esito favorevole del voto al referendum per l’indipendenza programmato per il prossimo 25 settembre potrebbe dare il via a un delicato quanto reale processo di costruzione e riconoscimento di uno Stato curdo indipendente, a riprova del fallimento dell’Iraq come Stato unitario.
QUALE POSSIBILE FUTURO? – La complessità delle dinamiche avviate in questi ultimi drammatici tempi di guerra rende difficile prevedere con certezza il verificarsi di uno piuttosto che di un altro scenario. Ciascuno dei possibili esiti deve fare i conti con una serie di fattori interni ed esterni che influenzano inevitabilmente il corso degli eventi. Il progetto unitario di al-ʿAbādī si scontra con la frammentazione interna del fronte sciita, una galassia variegata e conflittuale di leader e milizie nazionaliste e filo-iraniane, che difficilmente riuscirà a parlare con un’unica voce e che altrettanto difficilmente vedrà le eterogenee Unità di Mobilitazione Popolare rinunciare al controllo del territorio a favore di un’autorità centrale di cui potrebbero non aver bisogno, forti del sostegno e della legittimità popolare di cui godono grazie alle vittorie sull’IS. Senza un serio percorso di riconciliazione nazionale, la stessa minaccia jihadista non può dirsi sopita, dal momento che il risentimento e le vendette nei confronti della minoranza sunnita continuerebbero a nutrire le fila di un IS che sopravvive cambiando volto e tattica. Sul fronte curdo, non pochi sono i fattori che ostacolano il pieno raggiungimento dell’obiettivo indipendentista. Anch’esso risulta al suo interno diviso tra fazioni rivali nonostante il fine comune. Quest’ultimo a sua volta si scontra inevitabilmente con i progetti unitari dei leader di Baghdad, con cui sarà necessario negoziare a prescindere dall’esito del voto. A ciò si aggiunga l’aperta ostilità di attori regionali quali Iran e Turchia, che vedrebbero nella possibile indipendenza curda il rischio di un contagio nelle rispettive comunità e, di conseguenza, una minaccia alla propria unità nazionale. Ciò che al momento sembra più probabile è il naturale consolidamento dello status quo risultato degli ultimi decenni: ancora una volta un Iraq frammentato, tenuto insieme da un variopinto tessuto di milizie e capi locali che fondano la propria autorità sul controllo diretto del territorio.
Maria di Martino
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Per una descrizione del recente quadro iracheno post-Mosul, si rimanda all’articolo “Il difficile futuro dell’Iraq dopo la liberazione di Mosul”. [/box]