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Il discorso di Donald Trump all’ONU e il futuro della politica estera statunitense

Il primo discorso di Donald Trump alle Nazioni Unite non ha mostrato novità eclatanti nell’approccio della nuova amministrazione verso l’ONU o altre tematiche internazionali. È stato significativo, però, sia per i toni utilizzati sia per la chiara espressione di ciò che guiderà, salvo eventi imprevisti, la strategia statunitense per i prossimi anni

IL MESSAGGIO AGLI STATI UNITI – Nonostante nel corso del suo discorso Trump abbia trattato numerose tematiche internazionali, il messaggio trasmesso dal Presidente è stato indirizzato non solo ai leader mondiali, ma anche – e talvolta primariamente – ai cittadini statunitensi. Anzi, l’intervento è cominciato proprio con un riferimento alla situazione interna statunitense: disoccupazione in calo, aziende che ritornano a fare affari sul territorio statunitnese e Forze Armate pronte a essere rinvigorite dagli investimenti promessi. Nel complesso, il discorso è stato un manifesto dell’idea di America First trumpiano. Anche nelle parti maggiormente incentrate sulle questioni globali, infatti, il tycoon è spesso tornato sulla necessità di preservare la sovranità degli Stati Uniti e mettere i cittadini USA al primo posto. Ad esempio, trattando la tematica dei rifugiati, il Presidente ha rimarcato come sia necessario che essi cerchino riparo nel primo luogo sicuro disponibile – come ribadito anche nell’ultimo G20 – sia perché risulta più semplice e meno costoso aiutare in questo modo sia perché, in caso contrario, il flusso di rifugiati e immigrati andrebbe a pesare soprattutto sui cittadini a basso reddito dei Paesi di destinazione. Richiamando i toni del suo discorso di insediamento, ha voluto sottolineare come le paure dei cittadini meno agiati in merito a rifugiati e fenomeni migratori siano state ignorate da media e Governi e che è obiettivo primario del suo mandato di invertire questa tendenza. Verso la fine del discorso, poi, ha ribadito come spesso gli accordi internazionali sul commercio portino conseguenze negative: perdita di posti di lavoro e danno alla classe media. È rilevante notare come l’intervento di Trump si sia chiuso con tematiche anch’esse destinate non solo ai Paesi lì convenuti, ma anche all’audience interno, dato che ha ribadito la necessità di investire – patriotticamente – nel successo della propria nazione prima di preoccuparsi di quelle altrui.

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Fig. 1 – Donald Trump parla all’Assemblea Generale ONU

IL MESSAGGIO AL MONDO – Il concetto di America First, però, è stato declinato con sufficiente chiarezza anche nei confronti del resto del mondo. Innanzitutto, ha rimarcato come il mondo sia più sicuro quando abitato da «nazioni forti, indipendenti e libere» e che tale assunto dovrebbe guidare la realtà internazionale nel suo complesso. In tali passaggi è risultato, inoltre, difficile non leggere un sostegno indiretto ad azioni come la Brexit, soprattutto in quanto ha sostenuto più volte il concetto per cui ogni Paese deve pensare primariamente alla sua prosperità e cercare di ottenerla con le sue forze e non attraverso la mediazione di burocrazie distanti. Nel sostenere lo Stato-nazione come unità fondamentale del sistema, però, non ha mancato di rimarcare la necessità che i singoli attori cooperino per lo sviluppo complessivo del mondo. È, però, il corpo centrale del discorso a essere più denso di riferimenti alla realtà internazionale e alla nuova mappa delle minacce avvertita dall’amministrazione insediatasi lo scorso gennaio. Dopo aver ricordato indirettamente a Cina e Russia che gli Stati Uniti non sono disposti ad accettare violazioni della sovranità altrui – nello specifico nel Mar Cinese Meridionale e in Ucraina – Trump ha, sostanzialmente, elencato quelli che ha definito, richiamando palesemente l’amministrazione Bush junior, «rogue states», Stati canaglia:

  • Il primo bersaglio è stato la Corea del Nord. Il Presidente ha ricordato come il regime «depravato» sia la causa della condizione miserevole della sua popolazione e ha minacciato la «distruzione totale» dello Stato nel caso in cui attacchi gli USA o i loro alleati. Una durezza rimarchevole per il consesso che ospitava il discorso.
  • È passato, poi, a colpire l’Iran – definito «regime assassino» – e il JCPOA. Ha accusato il regime degli Ayatollah di esportare violenza nella regione destabilizzandola (attraverso, ad esempio, il sostegno a Hezbollah) e ha etichettato come «imbarazzante» l’accordo stipulato nel luglio 2015 tra Iran e il gruppo dei cinque più uno.
  • Ha apostrofato come «criminale» il regime di Bashar al-Assad, ricordando come lo stesso sia responsabile dell’utilizzo di armi chimiche contro il popolo siriano.
  • Ha attaccato, poi, Cuba, criticando l’assenza di libertà per il popolo cubano e mettendo perciò in discussione le aperture iniziate durante la presidenza Obama.
  • Infine ha duramente bersagliato il Venezuela, indicato come Stato prossimo al collasso totale e retto da un dittatore guidato da un’ideologia fallimentare. Ha invocato la piena restaurazione della democrazia nel Paese e una presa in carico del problema da parte degli altri attori internazionali.

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Fig. 2 – Donald Trump insieme a Nikki Haley e Melania Trump

UNA RIFORMA POSSIBILE? – Un altro punto importante dell’intervento di Trump è connesso con la sua volontà di riformare le Nazioni Unite. Il Presidente americano ha mostrato sempre una certa durezza verso l’organizzazione internazionale, rea, secondo lui, di non essere in grado di offrire soluzioni efficienti ed efficaci ai problemi globali in quanto intrappolata in un’eccessiva burocrazia e concentrata solo sui processi e non sui risultati. La visione del tycoon, però, potrebbe essere abbracciata proprio dal nuovo Segretario Generale dell’ONU, António Guterres, anch’egli interessato a una riforma del sistema. Nonostante i costanti attacchi di Trump alle Nazioni Unite, dunque, il futuro potrebbe essere più disteso, soprattutto ove verranno intrapresi percorsi di riforma condivisi dagli inquilini del Palazzo di Vetro e della Casa Bianca. Guterres, poi, ha stretto legami importanti con l’Ambasciatrice USA Nikki Haley, anche lei all’ONU, tra l’altro, con l’obiettivo di promuovere un perocrso di riforma. Nonostante, a oggi, la dichiarazione di Trump in supporto alla riforma dell’ONU sia stata sottoscritta da 128 Paesi, la posizione ostile sino-russa complica il progetto. Anche se le tensioni internazionali non porteranno a una frattura insanabile all’interno del Consiglio di Sicurezza, infatti, l’ostilità di Mosca e Pechino rende difficile ipotizzare un successo del tentativo di riformare una struttura oramai inadeguata a rispondere alle sfide del presente.

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Fig. 3 – Il Presidente americano insieme al National Security Advisor H.C. McMaster e il Vice Presidente Mike Pence

CONTRADDIZIONI E RICHIAMI AL PASSATO – Concludendo, nonostante il discorso di Trump non abbia aggiunto nulla di nuovo a quanto già noto, ci permette di delineare quelle che saranno le posizioni e le priorità dell’amministrazione americana nei prossimi anni. È probabile, ad esempio, che i tratti fondamentali di quanto dichiarato nel discorso a New York fungano da base per il nuovo documento dedicato alla dottrina di sicurezza nazionale americana. Nello stesso, però, dovranno essere chiarite alcune contraddizioni. Nello specifico, si può percepire come l’intervento di Trump sia soprattutto la fusione di due visioni del mondo non sempre ben amalgamate. Per semplificare, da una parte quella che fa capo a James Mattis e H. R. McMaster, dall’altra quella sostenuta da collaboratori vicini alle teorie di Steve Bannon e Michael Flynn (oramai non più alla Casa Bianca). Si scontrano, in sostanza, due modi di vedere la realtà internazionale: il primo più aperto, classico e internazionalista, sicuramente pronto all’utilizzo della forza militare – anche unilateralmente – quando necessario, ma ben radicato nella tradizione di politica estera americana wilsoniana e attento al rispetto dei diritti umani nel mondo; il secondo, quello più chiuso, focalizzato sulla dimensione domestica e patriottico – o nazional-populista, a seconda dell’interpretazione – dell’America First, che non è altro che l’espressione dell’eccezionalismo statunitnese, a tratti bellicoso, coltivato dalla parte del partito Repubblicano che non si riconosce nei valori espressi dai loro colleghi più moderati. Anche in quest’ultimo caso, però, non bisogna dimenticare come non sia una novità trumpiana ma, piuttosto, il riemergere di una modalità espressiva già vista con le due amministrazioni di Bush junior – ad esempio, il richiamo agli Stati canaglia e l’utilizzo di parole fortemente connotate in modo morale come «evil» – e che trova le sue origini in una concezione jacksoniana della politica estera, eccezionalista e dai toni molto duri. I richiami alla volontà di rafforzare economicamente gli Stati Uniti e alla necessità di concentrarsi sui propri interessi nazionali da una parte e la spinta “isolazionista” presente in alcune parti del discorso dall’altra mostrano, tuttavia, come la Presidenza stia provando a soddisfare anche le altre due anime – oltre a quelle wilsoniana e jacksoniana – che, secondo il politologo W. R. Mead, muovono la politica estera USA: rispettivamente quella hamiltoniana e quella jeffersoniana (vedi Chicco in più). È probabile che il futuro dell’amministrazione sarà segnato dal tentativo di soddisfare le suddette quattro anime: un compito indubbiamente arduo per chiunque, soprattutto in un periodo di turbolenze simili nel sistema internazionale. Il discorso di Trump è servito a darci un assaggio di tutto questo: ora non resta che attendere il seguito.

 

Simone Zuccarelli

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

Le quattro tradizioni che alimentano la politica estera americana, secondo Mead, sono:

  • Hamiltoniana: deriva da A. Hamilton, primo Segretario del Tesoro statunitense e stretto collaboratore di Washington. Tale tradizione ritiene che il primo compito del Governo degli Stati Uniti dovrebbe essere quello di difendere e promuovere le aziende americane in patria e nel mondo.
  • Jeffersoniana: deriva dal terzo Presidente statunitense, T. Jefferson. Questa seconda tradizione è la più “isolazionista” e focalizzata sugli affari domestici. Inoltre ritiene indispensabile preservare la purezza della rivoluzione americana, soprattutto il suo portato di libertà e democrazia.
  • Jacksoniana: deriva da A. Jackson, settimo presidente statunitense. Anche questa tradizione condivide con la precedente il desiderio di preservare i caratteri unici dell’esperienza americana. A differenza dei jeffersoniani, però, i jacksoniani esprimono un carattere più bellicoso e sono più proni a sostenere l’eccezionalismo americano nel mondo.
  • Wilsoniana: deriva da W. Wilson, ventottesimo presidente americano. Quest’ultima tradizione, forse la più conosciuta, si fonda sulla convinzione che sia necessario lottare per rendere il mondo un posto sicuro per la democrazia, in quanto ritiene le liberal-democrazie molto più affidabili e meno bellicose dei sistemi autocratici.

Potete leggere la trascrizione del discorso di Trump all’ONU qui

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Simone Zuccarelli
Simone Zuccarelli

Classe 1992, sono dottore magistrale in Relazioni Internazionali. Da sempre innamorato di storia e strategia militare, ho coltivato nel tempo un profondo interesse per le scienze politiche. 

A ciò si è aggiunta la mia passione per le tematiche transatlantiche e la NATO che sfociata nella fondazione di YATA Italy, sezione giovanile italiana dell’Atlantic Treaty Association, della quale sono Presidente. Sono, inoltre, Executive Vice President di YATA International e Coordinatore Nazionale del Comitato Atlantico Italiano.

Collaboro o ho collaborato anche con altre riviste tra cui OPI, AffarInternazionali, EastWest e Atlantico Quotidiano. Qui al Caffè scrivo su area MENA, relazioni transatlantiche e politica estera americana. Oltre a questo, amo dibattere, viaggiare e leggere. Il tutto accompagnato da un calice di buon vino… o da un buon caffè, ovviamente!

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