Il Partito Repubblicano è sempre stato l’amico/nemico di Trump. Una rapida rassegna su quali sono le posizioni e la mentalità dei conservatori – tra Congresso e società civile – su tre maggiori sfide internazionali. Quanto il partito di maggioranza potrà influenzare, sia favorendo che ostacolando, le politiche del Presidente?
COREA DEL NORD
Si tratta probabilmente del fronte più caldo, su cui è in corso un dibattito estremamente intenso, sotto la spinta delle dichiarazioni e azioni che quotidianamente si sentono da Pyongyang e Washington.
Sul tema il Partito Repubblicano presenta una certa compattezza, condividendo per di più le stesse opinioni della Casa Bianca – cosa non da poco di questi tempi. La questione nordcoreana è sempre stata avvertita in modo significativo dal Partito, come dimostrato anche dalla Republican Platform del 2016, ovvero il documento programmatico che la Direzione repubblicana prepara in occasione delle elezioni presidenziali, esponendo le linee ufficiali sui temi principali, tra cui quelli di politica estera. Ovviamente non sono direttive da prendere come oro colato, in quanto i membri del Congresso e l’Amministrazione si riservano sempre una certa autonomia. Tuttavia, è un testo che permette di capire quale è la mentalità attuale del Partito di maggioranza, che annuncia qui il suo totale supporto agli storici alleati sudcoreani e giapponesi per contrastare fermamente Pyongyang.
È significativo un comunicato di Ed Royce, Presidente della Commissione esteri della Camera, in cui viene dichiarata inaccettabile la minaccia nucleare nordcoreana e si esortano ulteriori sanzioni economiche. Senatori importanti – e spesso critici verso il Presidente – quali McCain e Cruz, hanno disapprovato certe dichiarazioni di Trump, ma sono convinti che gli Usa debbano mostrarsi forti e risoluti. Marco Rubio, altro senatore che si è molte volte scontrato con il magnate newyorkese, ha dichiarato il suo pieno appoggio alla linea del Presidente, concordando persino con le sue parole di scatenare un ipotetico “fuoco e furia” sul Paese asiatico.
La linea dura pare inoltre essere condivisa da una consistente parte della società civile. Secondo un sondaggio di Gallup, il 58% degli statunitensi sarebbe a favore dell’uso della forza contro la Corea del Nord se gli sforzi sul fronte diplomatico e economico fallissero, una percentuale che è aumentata di undici punti rispetto a un sondaggio del 2003. L’elettorato conservatore ha una posizione ancora più netta: l’82% è favorevole, cifra cresciuta addirittura di 23 punti rispetto al 2003.
Un altro aspetto rilevante per capire gli umori del fronte conservatore, e di come questi possano influire sul policy-making della Casa Bianca, è una notizia riportata dal Washington Post, secondo cui Pyongyang sta approcciando analisti vicini al Partito Repubblicano, per capire quali sono le reali intenzioni di Trump e eventualmente imbastire un dialogo. Il Governo nordcoreano aveva infatti invitato Bruce Klingner, analista della Heritage Foundation, un think tank di orientamento conservatore che ha una notevole influenza sul Presidente. Klingner ha tuttavia rifiutato, affermando che Pyongyang avrebbe dovuto interloquire direttamente con il Governo statunitense.
Fig. 1 – i principali candidati alle primarie. Rubio e Cruz sono oggi membri di importanti Commissioni in Senato (rispettivamente per le Relazioni Estere e Forze Armate)
IRAN
La posizione che i repubblicani hanno sull’Iran è legata a doppio filo con la questione dell’accordo sul nucleare, raggiunto tra Teheran e l’Amministrazione Obama. Durante le primarie repubblicane, praticamente tutti i candidati si sono dichiarati categoricamente contrari all’accordo, additandolo come un atto di debolezza da parte di Obama e promettendone l’uscita nel caso in cui fossero stati eletti. Tale linea è stata mantenuta e rinvigorita da Trump una volta raggiunta la nomination, trattandosi peraltro di una delle tematiche su cui il tycoon è sempre stato in linea con l’establishment del Partito – come rimarcato anche nel suo primo discorso alle Nazioni Unite.
A questo proposito, la già citata GOP Platform, oltre a denunciare la pericolosità di Teheran, afferma di considerare l’Iran Deal nulla più di un accordo personale tra l’Amministrazione democratica e Teheran, e che, in caso di elezione di un repubblicano alla Casa Bianca, l’accordo sarebbe stato rigettato, in quanto non ratificato dai due terzi del Senato. Per più, viene dichiarato pieno appoggio all’alleato israeliano, attore chiave in questa partita in quanto potenza storicamente anti-iraniana e minacciata direttamente da Teheran.
Eppure, in queste ultime settimane, proprio quando il tema è tornato di fortissima attualità, la situazione sul campo appare diversa e i repubblicani risultano meno coesi del previsto, sia nell’Amministrazione che nel Congresso.
Trump ha di recente annunciato la decertificazione dell’accordo, passando la palla ai repubblicani del Campidoglio. Attualmente, è sul tavolo un disegno di legge dei senatori Corker e Cotton, tradizionalmente “falchi” nei confronti di Teheran, che ritengono possa “riparare gli errori del patto”. Questa proposta prevede maggiori limitazioni sull’Iran e la reintroduzione di sanzioni se il Paese fosse ritenuto capace di preparare una bomba nucleare nell’arco di un anno.
Il GOP proverà a unirsi su questa proposta, anche per superare un probabile ostruzionismo democratico. Tuttavia, oltre a diversi indecisi, Rubio e Cruz si sono già detti contrari, preferendo un approccio più radicale.
Fig. 2 – Elettorato repubblicano a un comizio di Trump
RUSSIA
Tante volte abbiamo sentito da Trump parole di stima e collaborazione verso la Russia di Putin. Questo però durante la campagna elettorale. Sul tema dei rapporti con Mosca, infatti, è evidente come la burocrazia di Washington e l’establishment repubblicano abbiano – per così dire – “messo in riga” il Presidente, riportandolo su posizioni più vicine alla visione prevalente nel GOP – quella incarnata dalle tonanti dichiarazioni di esponenti quali McCain, Romney e Rubio, per intenderci. L’atto forse più evidente è stata l’approvazione, da parte del Congresso, di nuove sanzioni per Mosca, con maggioranze schiaccianti e a prova di veto presidenziale: 419 voti alla Camera e 98 al Senato. Non va dimenticato che, su questo gesto e su questo clima, pesa l’attuale diffidenza degli Stati Uniti verso il Cremlino causata dalle interferenze durante le elezioni presidenziali.
Per di più, la Republican Platform è estremamente chiara: la Russia viene indicata come una minaccia a tutti gli effetti, da fronteggiare mantenendo – e all’occorrenza innalzando le sanzioni -, fino a che l’Ucraina non avrà riottenuto la sua integrità territoriale. Viene inoltre dichiarato pieno appoggio agli alleati della NATO e a Kyiv, promuovendo assistenza e coordinamento. A questo proposito, nonostante le posizioni ondivaghe di Trump, gli elettori repubblicani non hanno mai smesso di considerare importante la NATO.
Considerando tuttavia le opinioni dei repubblicani verso la Russia, sta emergendo una certa distanza di vedute tra elettorato e i vertici del Partito. Se dunque l’establishment del GOP – intendendosi con ciò, in particolare, gli esponenti del Congresso e dell’Amministrazione – appare ancora saldamente “anti-russo”, non si può dire lo stesso della base del Partito. Infatti, il numero di elettori conservatori che hanno un’opinione “estremamente sfavorevole” verso Putin nel 2016 era solamente al 14%, mentre nel 2014 era al 51%. Di pari passo, l’apprezzamento per Putin tra i repubblicani è salito dal 10 al 37%. Inoltre, gli elettori del GOP che hanno un’opinione favorevole verso la Russia sono passati dal 20 al 35% negli ultimi due anni.
Pertanto, sebbene l’opinione pubblica conservatrice sia ancora prevalentemente ostile al Presidente russo, il cambiamento di vedute pare essere stato notevole. Ciò è collegato a una netta spaccatura generazionale, in cui la maggior parte dei giovani vede Mosca in maniera amichevole, mentre tra gli elettori anziani è il sentimento anti-russo a prevalere. Insomma, i segni della storia restano sempre evidenti.
Antonio Pilati
[box type=”shadow” align=”” class=”” width=””]Un chicco in più
In tutto questo, c’è una fazione interna al Partito Repubblicano, per quanto minoritaria, che è spesso una voce fuori dal coro: sono i libertari, che si contraddistinguono per le loro posizioni anti-interventiste in politica estera. Il più noto esponente è il senatore Rand Paul, che è ad esempio contrario all’uscita dall’Iran Deal e ha posizioni più dialoganti verso Russia e Corea del Nord.[/box]
Foto di copertina di Arend Vermazeren Licenza: Attribution License