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Cosa manca per avere un esercito europeo?

Analisi 10 punti per spiegare che quello che manca alla difesa europea non sono gli uomini, ma la volontà politica e tutta l’organizzazione a supporto (che a sua volta richiede tempo e denaro).

Dopo l’Afghanistan è ritornato con forza il dibattito circa la necessità che l’Europa si doti di uno strumento militare autonomo, spesso esemplificato dall’espressione “Esercito Europeo”. Ne ha parlato ad esempio proprio Josep Borrell, Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, citando l’intenzione di dotarsi di una forza di reazione rapida di 5mila uomini circa, successivamente espandibile a 20-30mila. Come molti analisti hanno notato, però, il mantra dell’”Esercito Europeo” viene spesso richiamato senza citare le vere problematiche che finora ne hanno impedito la realizzazione, e che appaiono ancora ostacoli notevoli. Le riassumiamo in 10 punti perché siano comprensibili anche dai non addetti ai lavori.

1. I SOLDATI CI SONO GIÀ

Si può sicuramente parlare di nuove formazioni militari, così come di cifre relativi a quanti uomini e quanti mezzi… ma chi ne parla spesso sembra non ricordare che un esercito europeo in questi termini in realtà esiste già. Oltre all’Eurocorps a base franco-tedesca esiste il sistema dei Battlegroups europei (EUBG), di cui abbiamo parlato già nel 2013 (non proprio una novità quindi), che costituiscono proprio una forza di reazione rapida come quella delineata da Borrell:

“An European Union Battlegroup (EUBG) is the minimum militarily effective, credible and coherent, rapidly deployable force package capable of stand-alone operations or for the initial phase of larger operations. The EUBG is to be deployed in a distance of 6.000 km from Brussels. It is to be capable of achieving initial operational capability in theatre within 10 days after decision of the European Council has been taken to launch the operation.”

Molti però non ne hanno mai sentito parlare, anche perché non sono mai stati impiegati. Il che infatti porta al problema principale.

2. MANCA LA VOLONTÀ POLITICA

Un paragrafo scritto nel nostro articolo del 2013 è perfetto per spiegare, oggi come allora, il vero ostacolo all’utilizzo non solo dei BG europei, ma anche di qualsiasi altra forza.

“Abbiamo detto che “(…)è previsto che una volta presa la decisione di inviare le truppe, un BG(…)”. Il problema sta proprio nella frase in corsivo: prima che tutto si attivi, l’UE, cioè in pratica gli Stati membri, devono essere d’accordo nel farlo. Ed è qui il punto: in un’Europa dove le posizioni in politica estera risultano essere così differenti tra i vari componenti, è oltremodo difficile giungere a un consenso su cosa fare, come farlo e, ancor peggio, se inviare truppe comunitarie. Se pensiamo alle posizioni sul conflitto in Libia, o in Siria, o perfino in Mali, è facile pensare a nazioni poco disposte ad autorizzare l’invio di BG che contengano i propri militari, mentre altre spingono per intervenire comunque. In quest’ottica, a poco importa che i BG possano essere operativi entro 15 giorni: è la decisione precedente che potrebbe prendere mesi, o non essere mai presa, tra discussioni infinite e tensioni politiche. Il ritardo potrebbe essere tale da rendere nel frattempo inutile ogni operazione.”

Fig. 1 – I BG europei sono stati creati per l’impiego rapido… una volta presa la decisione politica

3. ESEMPI ESTREMI DI OPINIONE PUBBLICA: FRANCIA E ITALIA

Non è solo una questione di mancanza di politica estera unica, ma anche di opinione pubblica (che comunque, va detto, è elemento importante nell’influenzare l’approccio alla politica estera). Francia e Italia sono due esempi quasi agli estremi. In Francia non esiste quasi dibattito pubblico sulla politica estera e sugli interventi militari, con la popolazione che accorda generalmente un elevato grado di fiducia alle decisioni dei vertici circa quando e come intervenire senza porsi troppe domande sugli aspetti etici delle stesse. Ne sono testimonianza le operazioni condotte in Africa di questi ultimi anni (ricordiamo l’Operazione Serval e l’Operazione Barkhane). In Italia ogni decisione in politica estera diventa motivo di aspro scontro politico a tutti i livelli e l’impiego dello strumento militare è spesso tenuto sotto traccia, mascherato (pensate ai riferimenti alle “missioni di pace”) e generalmente condizionato da pesanti limitazioni. Entrambi gli approcci sono problematici: il primo contiene poca riflessione sugli effetti, il secondo è fin troppo condizionato da un dibattito spesso immaturo (e influenzato da attori esterni).

4. COMUNQUE NON BASTANO I SOLDATI

Come hanno notato numerosi osservatori, parlare di numeri di soldati però non ha molto senso senza considerare altri aspetti fondamentali. Alessio Patalano, professore di War & Strategy in East Asia al King’s College di Londra ha riassunto la problematica ricordando che servono “A. Adequate command and control structure; B. Canvass of capabilities; C. Standards in training, doctrine, exes; D. Harmonised priorities in capabilities development”. Proviamo a spiegare in breve cosa significhino questi punti.

5. UN SISTEMA DI COMANDO E CONTROLLO

È quello che sia chiama “struttura di comando interforze”, cioè un sistema di comando e controllo che armonizzi forze terrestri, aeree, navali e (recentemente) cyber, e le tenga in contatto con i decisori politici. Facile a dirsi, comporta costi molto elevati per costruire tutta l’infrastruttura (incluso l’apparato tecnologico di comando e controllo integrato) e decisioni chiare circa la catena di comando e le responsabilità, che inevitabilmente vanno a confrontarsi (e anche scontrarsi) con quelle politiche data la necessità almeno teorica di confrontarsi e superare – quando necessario – resistenze e sovranità dei singoli stati per le necessità comuni. Tale struttura deve poi essere permanente e costantemente addestrata e sviluppare dottrine di impiego proprie. Finora ci si è appoggiati agli analoghi comandi NATO, da cui sicuramente le FFAA dei Paesi europei hanno tratto insegnamento ed esperienza, ma la base è sempre costituita dagli standard USA e creare una struttura nuova con specificità europee richiede un impegno finora mai messo in atto in maniera comunitaria se non in situazioni limitate ad hoc.

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Fig. 2 – Soldato irlandese del Nordic Battlegroup. Questo BG è composto da svedesi, irlandesi, finlandesi, estoni, lettoni, lituani e norvegesi. Le prime tre nazionalità sono partner, ma non membri, della NATO

6. INSIEME DI CAPACITÀ

Questo si lega a un altro aspetto. Se, come scritto recentemente, l’autonomia strategica può essere sostanzialmente definita come “l’abilità dei Paesi dell’Unione Europea di operare militarmente senza essere (troppo) dipendenti da Paesi terzi“, la domanda successiva rimane “operare come?”. In particolare, si tratta di capire che cosa un esercito europeo debba saper fare “da solo” senza aver eccessiva necessità di ricorrere ad asset esterni, e questo non implica solo soldati, ma anche aspetti di logistica, addestramento, trasporti… Se pensiamo che solo una manciata di Paesi europei sono in grado di impiegare fuori dal proprio territorio, se necessario, tutte e tre le armi (aviazione, marina ed esercito) proprio perché farlo richiede strutture di supporto notevoli, decidere cosa serva, cosa manchi e come coprirlo diventa una priorità maggiore rispetto al solo affermare “ci servono soldati europei”. Altrimenti il rischio è avere, come ora, Forze Armate che in realtà non sono in grado di operare autonomamente fuori confine, mentre è proprio questo il vero obiettivo dell’iniziativa di autonomia. Per ora si procede in maniera mirata su singoli aspetti, basti pensare al progetto Franco-Tedesco di creazione di una squadriglia mista di C130J: passi avanti utili, ma ancora limitati a casi e Paesi specifici.

7. STANDARD NELL’ADDESTRAMENTO, DOTTRINA ED ESERCITAZIONI

Spesso non ci si pensa ma eserciti che combattono insieme devono essere anche abituati a farlo. Servono procedure e linguaggio comuni (ricordiamo che parliamo di nazioni con lingue anche molto diverse), usare gli stessi termini per dire le stesse cose e, per citare uno tra i tanti temi, i software devono potersi “parlare” per un corretto scambio di informazioni e dati. Se ricordiamo le difficoltà anche solo delle nostre regioni nel condividere i dati dei cittadini, possiamo ben comprendere come non sia un aspetto così immediato. Va pensato e creato appositamente. Le forze NATO si addestrano insieme proprio per questo motivo e l’Alleanza ha un elevato numero di accordi di standardizzazione (STANAGs – STANdardization AGreements) che indicano come i vari Paesi membri devono fare le cose (dalla costruzione dei mezzi, alla programmazione, al linguaggio, alle munizioni…) per essere efficienti insieme. Per citare un esempio banale ma che può avere una sua rilevanza nella concitazione di un combattimento, pensiamo che il numero “9” in inglese si pronuncia in maniera molto simile alla parola “no” in tedesco: la NATO ha superato il problema usando il termine “niner” (e non “nine”) per dire “9”, evitando eventuali confusioni durante i momenti critici. Analogamente si usa munizionamento compatibile e codici di comunicazione convenzionati che rendano chiaro a tutti cosa si intenda con certi termini e certe sigle, mentre l’addestramento aiuta a rendere il loro uso naturale. Considerando che l’UE comprende anche Paesi non-NATO, o tutti accettano di adeguarsi a quegli standard oppure servono nuovi standard EU che non siano comunque in contrasto con le esigenze NATO.

8. PRIORITÀ ARMONIZZATE DI SVILUPPO DELLE CAPACITÀ

Molti Paesi EU hanno proprie industrie della difesa e propongono i propri prodotti, spesso in competizione l’uno con l’altro. Mentre tutti sanno che combinare le forze permetterebbe di produrre più mezzi a prezzi più competitivi, magari coordinando meglio cosa produrre e dove con forti benefici nel lungo periodo, le resistenze industriali e politiche locali portano a rimanere competitor per paura di perdere commesse, posti di lavoro e, in definitiva, voti nel breve. Per ora si procede dunque con progetti specifici “con chi ci sta” e condivide la stessa visione (si veda il progetto FCAS di Francia, Germania e Spagna), con il rischio però di progetti duplicati (l’Italia che invece finanzia il progetto Tempest con UK) a causa di interessi industriali (Leonardo in questo preferisce i partner britannici) e sfiducia nella coerenza politica di altri Paesi (Francia e Germania nei confronti dell’Italia). Se non si marcia insieme nella stessa direzione, si alzano i costi e diminuisce l’efficienza.

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Fig. 3 – Un caccia multiruolo francese Rafale in volo a settembre 2021. In Europa è attualmente impiegato solo dalla Francia (in futuro anche Croazia e Grecia)

9. NATO E BERLIN PLUS

Normalmente l’Europa ha sempre avuto l’opzione di appoggiarsi alla NATO per quanto riguardava questi temi. Esiste infatti un accordo internazionale (denominato “Berlin Plus”) che consente all’UE di chiedere e ottenere asset militari che normalmente apparterrebbero alla NATO – così da poter sfruttare mezzi e architetture già esistenti e pronte. Tuttavia i Paesi membri della NATO devo approvare questo impiego, tramite la regola del “consensus” (sostanzialmente una unanimità). Anche in questo caso le diverse sensibilità e politiche estere la fanno da padrone: in particolare la Turchia – Paese membro della NATO ma non dell’UE – si oppone all’impiego di questi asset in aree (Medio Oriente, Nord Africa) dove ha importanti interessi, rendendo quindi di fatto inutile l’accordo stesso proprio nelle aree dove l’UE potrebbe aver maggiormente bisogno di impiegarlo.

10. IN CONCLUSIONE, COME SEMPRE, NON ‘COSA’ MA ‘COME’

Come spesso accade, il problema non è quindi semplicemente riconoscere che c’è bisogno di un certo strumento, ma anche e soprattutto come fare per realizzarlo. Volontà politica, tempo e denaro sono gli elementi necessari e sicuramente prima si parte e prima si arriverà a risultati sufficienti per avere effetti reali. Tuttavia il “come” affrontare gli ostacoli rimane il grande assente dal dibattito pubblico. L’idea che la nuova forza militare – come suggerito da Borrell – funzioni a “maggioranza” e non a unanimità è sicuramente un primo passo per uscire dai veti di singoli Paesi (soprattutto i più piccoli, a inferiore vocazione internazionale), ma non cambia il problema di avere, anche tra i Paesi maggiori, interessi e influenze internazionali a volte contrastanti, né consente di superare l’ostacolo di vedere ogni integrazione europea come una ulteriore “perdita di sovranità”, tema di sempre difficile marketing elettorale.

Lorenzo Nannetti

Immagine di copertina: “stemma Eurocorps“, immagine di pubblico dominio.

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Perchè è importante

  1. I soldati ci sono già
  2. Manca la volontà politica
  3. Esempi estremi di opinione pubblica: Francia e Italia
  4. Comunque non bastano i soldati
  5. Un sistema di comando e controllo
  6. Insieme di capacità
  7. Standard nell’addestramento, dottrine ed esercitazioni
  8. Priorità armonizzate di sviluppo delle capacità
  9. Nato e Berlin Plus
  10. In conclusione, come sempre, non “cosa” ma “come”

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Lorenzo Nannetti
Lorenzo Nannetti

Nato a Bologna nel 1979, appassionato di storia militare e wargames fin da bambino, scrivo di Medio Oriente, Migrazioni, NATO, Affari Militari e Sicurezza Energetica per il Caffè Geopolitico, dove sono Senior Analyst e Responsabile Scientifico, cercando di spiegare che non si tratta solo di giocare con i soldatini. E dire che mi interesso pure di risoluzione dei conflitti… Per questo ho collaborato per oltre 6 anni con Wikistrat, network di analisti internazionali impegnato a svolgere simulazioni di geopolitica e relazioni internazionali per governi esteri, nella speranza prima o poi imparino a gestire meglio quello che succede nel mondo. Ora lo faccio anche col Caffè dove, oltre ai miei articoli, curo attività di formazione, conferenze e workshop su questi stessi temi.

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