5 domande 5 risposte – Non sappiamo bene chi sia stato davvero a farlo – anche se lo zampino dell’Iran, anche solo indiretto, appare molto probabile – ma possiamo spiegarvi alcuni punti che forse non avete trovato altrove.
1. I giornali per mesi hanno parlato di crisi nello stretto di Hormuz… e invece è successo questo. Come mai?
La protezione dei flussi di petrolio dal Golfo Persico si è concentrata troppo sulla protezione dello stretto di Hormuz in questi anni. Tale protezione è importante e necessaria, ma analisti con background energetico da tempo indicano come le reali vulnerabilità siano altrove: impianti, terminali di oleodotti, porti e navi ancorate… tutti obiettivi non ben protetti e spesso considerati “sicuri” quasi a prescindere da chi usa una lente solo geopolitica e non tecnica. Serve invece conoscere come funziona l’industria degli idrocarburi per identificare le vulnerabilità. Spesso tali avvertimenti sono stati ignorati o considerati superflui ed esagerati, ora invece l’uso di nuove tecnologie e tattiche sta mostrando come ignorare tali rischi sia stato controproducente.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – La petroliera britannica sequestrata dall’Iran
2. Perché le difese saudite hanno fallito? Non hanno forse ricevuto materiale moderno dagli USA?
Ancora non si sa bene perché il sistema difensivo saudita non abbia funzionato. Questa incertezza è dovuta in parte alle polemiche persistenti sul modo in cui sono stati condotti gli attacchi. Alcune fonti del Governo statunitense sostengono infatti che sono stati usati missili balistici o missili da crociera per colpire gli impianti sauditi, ma l’ipotesi viene respinta con forza da parecchi analisti che invece propendono per un’operazione condotta con droni. Il possibile uso dei droni in questa vicenda rimarca quanto osservato negli ultimi anni (2015 in Siria il primo ordigno artigianale portato da un drone, 2017 a Mosul i primi droni commerciali usati in gran numero da terroristi dell’ISIS contro truppe occidentali): la difesa antiaerea tradizionale non copre l’uso di droni, che volano bassi e non sono facilmente rilevabili, le protezioni antidrone sono generalmente inadeguate (ancora a livello di “proviamo qualcosa e speriamo funzioni”) e non sistematiche (alcune cose protette, altre no, con sistemi diversi non coordinati). Il concetto stesso di fronte/retrovie non esiste più come un tempo: un obiettivo può essere molto all’interno del territorio nemico e comunque raggiungibile, come in questo caso. Inoltre, come segnala Becca Wasser, analista della RAND, nel caso specifico la difesa saudita ha un problema di divisione delle competenze: gran parte della difesa antiaerea è delle Forze Armate, ma la protezione dei siti è del Ministero dell’Interno e le due forze non collaborano adeguatamente. Quindi c’era una vulnerabilità anche organizzativa.
Embed from Getty ImagesFig. 2 – L’Ayatollah Khamenei, Guida Suprema iraniana
3. Chi ci perde di più da un aumento della tensione?
Oltre all’Arabia Saudita, colpita direttamente, paradossalmente il Paese che più ha da perdere da una escalation è la Cina. Pechino (in generale gran parte dell’Asia) importa una parte considerevole del suo fabbisogno di idrocarburi dal Golfo Persico, quindi il flusso deve continuare e i prezzi non devono alzarsi troppo. La diplomazia cinese già in passato ha lavorato sotto traccia al riguardo, ma allora USA e Cina collaboravano su questo tema. Ora? Prezzi alti favoriscono lo shale USA e per quanto Washington non gradisca la tensione, è da vedere se punti a un’immediata riduzione delle tensioni o no, anche solo per il rischio di perdere la faccia. Allo stesso tempo però la Cina si era già premunita contro alcuni di questi rischi: secondo la banca d’affari Bernstein, ha oltre un miliardo di barili di riserve, che potrebbero coprire quasi due anni di mancate importazioni saudite se necessario. Difficile si arrivi a tanto, visto che Ryhad sta già ripristinando parte della produzione.
Embed from Getty ImagesFig. 3 – Il Presidente USA Trump e il Principe ereditario saudita bin Salman
4. Quale è l’obiettivo? Distruggere il mercato del petrolio?
Gli Houti (o chi per loro) non vogliono certo distruggere il mercato del petrolio, che danneggerebbe tutti e in definitiva farebbe volgere tutte le potenze contro di loro, ma mandare un forte messaggio: il prezzo del conflitto per l’Arabia Saudita ora si alza. Tuttavia esiste un grosso problema… Quale è infatti il rischio? Colpire installazioni petrolifere è come “passare un limite” autoimposto: una volta fatto, rifarlo o rispondere analogamente non è più un tabu (fa parte di quel fenomeno chiamato scala dell’escalation). Servirà dunque che tutti gli attori tengano i nervi saldi per evitare di cadere in un conflitto peggiore. In tutto questo la strategia USA contro l’Iran continua a non essere ben focalizzata. Il Presidente Trump sembra vada quasi a rimorchio di sauditi e israeliani, invece di guidare. I risultati finora mancano o sono negativi e confermano quanto questa sia una prospettiva fallimentare e pericolosa per la stabilità regionale.
Fig. 4 – L’andamento del prezzo del petrolio. Si vede il prezzo oltre 100$/barile tra 2010 e 2014, e i livelli attuali più bassi
5. Il prezzo del petrolio ha subìto un forte rialzo?
In quasi tutti i giornali si legge così, e in effetti il rialzo in percentuale appare alto, ma se andiamo a vedere con attenzione in realtà esso è modesto… Teniamo presente che recentemente (periodo 2010-2013) bastava una variazione di più o meno 1 milione di barili al giorno per portare da surplus a deficit di produzione, e si era arrivati a un prezzo del petrolio di oltre 100$/barile. Ora ne sono mancati 5,7 milioni e il rialzo è stato modesto (siamo ancora sotto ai 70$/barile). Perché tale differenza? Ci sono vari motivi; innanzi tutto l’aspettativa, che è la dinamica principale che regola i prezzi: ci si aspetta che il calo di produzione duri poco e sia comunque coperto dall’immissione di riserve strategiche (ad esempio quelle USA, ma anche quelle cinesi indicate prima). In pratica non ci si attende che sul mercato manchi il petrolio. Tale valutazione peggiorerà però se le riparazioni dovessero durare troppo o se si temessero seriamente (o peggio si verificassero) altri attacchi, perché questo indicherebbe un rischio a lungo termine. Secondariamente la reazione ridotta è dovuta al fatto che ormai il concetto di “peak oil” (cioè che il petrolio mondiale stia per finire) non è più considerato valido da anni e si sa che prezzi alti significano possibilità di sfruttare giacimenti che altrimenti costerebbero troppo. In altre parole, se i prezzi si alzano altri giacimenti diventano convenienti a dunque altre quantità di petrolio diventeranno disponibili. Va detto però che 5,7 milioni di barili non si rimpiazzano dall’oggi al domani, perché non sono immediatamente disponibili… quindi per prima cosa si punterà a far ripartire la quota di produzione saudita interrotta.
Lorenzo Nannetti