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A far la pace comincia tu

Il Giro del mondo in 30 Caffè – Nulla di nuovo sul fronte mediorientale, tra Israeliani e Palestinesi. I primi presi (ovviamente) dalla questione Iran, i secondi ancora impegnati su un faticosissimo tentativo di riconciliazione interna. Morale: le possibilità di ripresa di un dialogo tra le parti a breve non solo sembrano prossime allo zero, ma non paiono neanche un’urgenza per nessuno. Ma lasciare in secondo piano l’esigenza di un ritorno al confronto rappresenta, oltre che una sconfitta per tutti, un pericolo da non sottovalutare

 

QUI ISRAELE – Scena uno. Oggi, a Washington. Il premier israeliano Netanyahu da Obama. In agenda un solo tema: l’Iran, il suo nucleare, le paure israeliane, e le possibilità di reazione. Cosa accadrà? Da una parte, l’equilibrio del terrore, tipico della Guerra Fredda; dall’altra, l’intervento militare e la guerra, da non considerare più solo un teorico caso studio catastrofista, ma ormai una possibilità. Il governo israeliano freme, convinto di essere ormai vicini al punto di non ritorno relativamente al programma di arricchimento dell’uranio israeliano. Ahmadinejad non arretra di un passo, le minacce verbali proseguono (“Ci serviranno nove minuti per spazzare via Israele”, così parlo Ali Reza Forghani, capo del tema strategico del leader supremo Ali Khamenei). Gli Usa vorrebbero gettare acqua sul fuoco, non possono permettersi un conflitto che potrebbe sconvolgere l’intera regione mediorientale. Ma Israele non la vede così. Nell’incontro del 19 febbraio con il consigliere americano della Sicurezza nazionale Tom Donilon, Netanyahu non ci ha visto più. Le fonti americane raccontano frasi tutt’altro che diplomatiche: “Con tutto il rispetto, voi non siete a un tiro di schioppo dal vostro peggior nemico. Decidiamo noi quando, come, chi attaccare, quando è in gioco la nostra stessa esistenza”. Quando Donilon parla di “soluzione condivisa della crisi”, con un mix di nuove sanzioni, colloqui serrati e azioni d’intellingence mirate, Netanyahu non ci sente, non tollera questa politica di appeasement, che gli ricorda “l’atteggiamento accomodante di Regno Unito e Francia prima della Seconda guerra mondiale, e le conseguenze catastrofiche per il popolo ebraico”. Anche se le parole non fossero state proprio queste, i concetti sono chiarissimi, cristallini. Stessa sorte per l’incontro preparatorio del 29 febbraio a Washington tra il Ministro della Difesa israeliano Ehud Barak e Leon Panetta, segretario americano alla difesa: nessun via libera all’intervento, si punterà sulla diplomazia. L’incontro odierno sarà dunque privo di convenevoli. Per Obama è una bella patata bollente, e Netanyahu non si farà intimidire (e magari minaccerà velatamente il ritiro dell’appoggio elettorale a Obama dell’Aipac, potente gruppo di pressione filoisraeliano a Washington) anche perché teme che la questione siriana prenda il sopravvento, facendo così considerare meno urgente la situazione iraniana, e regalando così altro tempo a Teheran. Il fatto – di per sé clamoroso – che Israele non abbia mai preso una posizione netta contro le azioni del regime siriano di Assad (perfino Hamas si è espresso in questi termini) si spiega esattamente così. Intanto, continuano le schermaglie indirette: Teheran dichiara esplicitamente di rafforzare l’esercito libanese (con l’aiuto non troppo nascosto dei russi), composto per buona parte dai miliziani anti-israeliani di Hezbollah, mentre Israele manda uomini esperti di sicurezza e vende caccia, difese anti-missile e droni all’Azerbaijan, paese confinante con l’Iran e amico di Tel Aviv e Washington da cui sono partiti gli uomini che nei mesi scorsi hanno eliminato alcuni scienziati iraniani. Toccherà a Obama tentare di sbrogliare una matassa quanto mai intricata. Non possiamo dire con certezza come andrà l’incontro. Di certo, ci sembra verosimile immaginare questa scenetta finale. Una voce sullo sfondo, timida e incerta, che dice: “E i palestinesi?”. E Netanyahu, un po’ stranito, che si volta e risponde, scontroso e un po’ seccato: “Quali palestinesi?”

 

QUI PALESTINA – Scena due. Poco meno di un mese fa, a Doha. Sotto la regia del Qatar, Fatah e Hamas, i due partiti palestinesi che da cinque anni si fronteggiano e si combattano (i primi due anni anche a fasi alterne con una vera e propria guerra civile), firmano un accordo di riconciliazione, si accordano sul nome del Presidente dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) Abu Mazen (Fatah) come premier ad interim del futuro governo di unità nazionale, promettono elezioni presidenziali nel 2012. Una svolta per la politica palestinese, dopo che dal 2007 le due regioni palestinesi sono divise non solo geograficamente (Hamas controlla Gaza, Fatah la Cisgiordania)? Così sembrerebbe, ma ancora una volta le strette di mano rischiano di essere valide solo davanti ai fotografi. Il punto è che le forti divisioni non sono solo tra questi movimenti, ma all’interno di questi. E in questa occasione, l’accordo siglato tra Abu Mazen e Khaled Meshaal, leader di Hamas, è malvisto da diversi dirigenti di Hamas, la cui leadership è suddivisa tra l’ufficio politico centrale di Damasco, lì posto in seguito ai continui arresti di dirigenti da parte di Israele, e i vertici del partito che controllano Gaza. La discussione nel partito islamista è forte, i toni aspri. Una parte di Hamas – in particolare, quella di Gaza – resiste ancora all’idea di una riconciliazione intrapalestinese, a una compartecipazione di diverse anime alla vita politica palestinese, sul modello tunisino post-rivoluzione. L’ala pragmatica di Hamas considera questa strada come l’unica percorribile, l’ala radicale ancora non riesce ad immaginarla ipotizzabile, e continua inoltre a denunciare pubblicamente che non accetterà mai lo Stato d’Israele. Isamil Hanyeh, leader di Hamas a Gaza, tutt’altro che allineato alla posizione di Meshaal – che da anni non vive nei Territori Palestinesi – anche nel suo recente viaggio in Iran non ha perso l’occasione per ribadire che le armi sono l’unica risposta possibile allo Stato d’Israele. Insomma, nulla è ancora definito, le elzioni in fondo sono rinviate da anni, e grande è (ancora) la confusione sotto il cielo palestinese. Dal canto suo, Abu Mazen ha riproposto nei giorni scorsi l’ipotesi di un nuovo tentativo per un riconoscimento dello Stato Palestinese da parte delle Nazioni Unite, dopo il fallimento dello scorso anno. E l’ipotesi di un nuovo confronto con Israele, la possibilità di risiedere assieme al tavolo delle trattative? A questa domanda, l’espressione di Abu Mazen (per non parlare dei dirigenti di Hamas) assomiglierebbe terribilmente a quella di Netanyahu qualche riga sopra. “Confronto? Quale confronto?”

 

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CON LA TESTA ALTROVE – Insomma, se ci chiediamo come stanno andando e come andranno nel breve periodo le relazioni tra Israeliani e Palestinesi, il clima di sfiducia è forte. Verrebbe da dire che non ci sono particolari novità: tutto sommato, si potrebbe rileggere quanto era stato scritto nel Giro del Mondo di un anno fa, per vedere che è cambiato davvero poco. Anzi, in fondo, una novità c’è, ed è per certi versi la più amara. Non solo le possibilità di una ripresa dei negoziati di pace non registrano alcun passo avanti, ma sembra addirittura che i tentativi di tornare a confrontarsi non siano neanche in agenda. Il confronto tra le parti non sembra ora una priorità per nessuno. Entrambi sono “in altre faccende affaccendati”: tra i Palestinesi si fatica a mettere il naso oltre le proprie problematiche interne, Israele non distoglie nessuna attenzione da Teheran, e se proprio deve volgere la testa ad altre questioni, anche qui ci si tuffa nella politica interna, con i dissidi tra laici e ortodossi di cui già abbiamo parlato in un’altra tappa del Giro del Mondo, o le piccole beghe di partito (vedi le primarie del Likud, in cui Netanyahu si è riconfermato leader contro lo sfidante Moshe Feiglin, ancor più a destra di lui). Il 26 gennaio vi è stato un incontro ad Amman tra Yitzhak Molcho, collaboratore di Netanyahu, e Saeb Erekat, storico capo negoziatore palestinese. Timida ripresa di trattative? Macchè, solo uno specchietto per allodole per far contento il Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu), mentre da entrambe le parti ci si affrettava a negare qualsiasi ipotesi di rilancio del processo di pace. I Palestinesi insistono per un blocco totale dell’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania come precondizione imprescindibile per i negoziati, gli Israeliani non ci sentono (anzi, prima delle primarie del Likud voci insistenti mai confermate sostenevano la volontà di Netanyahu di legalizzare tutte le colonie, anche se probabilmente era solo uno stratagemma per farsi votare dai coloni), e siamo fermi a questa situazione da circa tre anni, senza minimamente ipotizzare la possibilità di affrontare le questioni più rilevanti, Gerusalemme in primis. L’unico confronto che ora pare possibile è quello del venerdì, all’ora della preghiera nella mosche di Al Aqsa, Spianata delle Moschee, sopra il Muro del Pianto (vedi foto), cuore nevralgico della Città Vecchia e di una buona fetta di tutte le tensioni tra le parti. In due degli ultimi tre venerdì vi sono stati scontri tra i fedeli palestinesi e i poliziotti israeliani: alcuni giovani palestinesi hanno lanciato pietre sulla piazza sottostante del Muro del Pianto, la polizia è entrata sulla Spianata con i lacrimogeni. Il 12 febbraio, la polizia ha bloccato la visita provocatoria alla Spianata di Feiglin, avversario di Netanyahu alle primarie, dopo che erano stati ritrovati volantini inneggianti alla ricostruzione del Terzo Tempio distruggendo la Spianata delle Moschee (che sorge sulle rovine del Tempio di Salomone, di cui il Muro del Pianto è l’unico contrafforte rimasto).

 

NON DISTOGLIERE LO SGUARDO – Insomma, non ci si aspetta grandi cambiamenti nell’anno in corso. Ci aspettiamo un anno in cui parleremo molto di Israele, senza citare però i Palestinesi. Un anno in cui parleremo spesso della situazione palestinese, senza alcun confronto con gli Israeliani. Eppure, appare davvero pericoloso per entrambe le parti derubricare la questione israelo-palestinese a un affare di secondo piano, una necessità non primaria. Lo spiega molto bene, in un editoriale odierno sulla Stampa, Abraham Yehoshua. Per risolvere la questione iraniana, occorrerebbe “Riprendere con energia, onestà e serietà il processo di pace con i palestinesi e arrivare a ciò che persino l’attuale governo di destra ha apertamente dichiarato essere un obiettivo politico: due Stati per due popoli. (…) E se ciò sarà fatto gli iraniani saranno costretti ad abbandonare la loro retorica esaltata e le loro perfide minacce. (…) Sono sicuro che ogni vero passo verso la pace con i palestinesi farà sì che questi ultimi si uniscano alla ferma richiesta di fermare le minacce di guerra iraniane perché un eventuale conflitto fra Israele e Iran distruggerebbe ogni possibilità di indipendenza nella loro patria”. Per quanto ci riguarda, non c’è nient’altro da aggiungere.

 

Alberto Rossi

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Alberto Rossi

Classe 1984, mi sono laureato nel 2009 in Scienze delle Relazioni Internazionali e dell’Integrazione Europea all’Università Cattolica di Milano (Facoltà di Scienze Politiche). La mia tesi sulla Seconda Intifada è stata svolta “sul campo” tra Israele e Territori Palestinesi vivendo a Gerusalemme, città in cui sono stato più volte e che porto nel cuore. Ho lavorato dal 2009 al 2018 in Fondazione Italia Cina, dove sono stato Responsabile Marketing e analista del CeSIF (Centro Studi per l’Impresa della Fondazione Italia Cina). Tra le mie passioni, il calcio, i libri di Giovannino Guareschi, i giochi di magia, il teatro, la radio.

Co-fondatore del Caffè Geopolitico e Presidente fino al 2018. Eletto Sindaco di Seregno (MB) a giugno 2018, ha cessato i suoi incarichi nell’associazione.

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