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Questo luogo e questa data, 11 febbraio 2011: quando la cronaca è già storia

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Le foto simbolo: Piazza Tahrir in festa

Le foto simbolo: Piazza Tahrir in festa

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Esercito e folla in festa assieme: un'immagine che da sola può spiegare molto più di tante analisi una delle chiavi di volta per eccellenza di quanto avvenuto in questi giorni

MuSBARAK

Momenti che passeranno alla storia. Il Faraone si è dimesso, e si è rifugiato a Sharm. L'annuncio di Suleiman. Il potere ai militari. Il Cairo in festa. Piazza Tahrir esplode.

E una domanda: sarà vero cambiamento o solo un passaggio di consegne tra gli esponenti di quella dittatura militare che ha governato l'Egitto dagli anni '50 in poi, per placare la piazza?

Seguite su Al Jazeera English la diretta live

Altro link utile: gli aggiornamenti live dal sito del Guardian

In tv, diretta live anche sulla CNN

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Nella foto: esercito e folla festeggiano assieme fianco a fianco.

Loro la vedono così

Focus Egitto – Lo scenario egiziano è in completa evoluzione. Le dimissioni di Mubarak sono cronaca, e già storia. Impossibile fare previsioni ora. È importante però notare come alcuni grandi attori internazionali guardino a quanto sta avvenendo. Ieri, nella prima parte di questa analisi, abbiamo visto il ruolo degli Stati Uniti. Oggi tocca ad altri tre grandi attori. E allora, occhi puntati su Israele, che si preoccupa, e sull'Iran, che gongola. L'Europa? Non pervenuta. E sì che il Mediterraneo era il Mare Nostrum…

(segue da L'enigma della sfinge)

LA PARANOIA ISRAELIANA – Israele è l’attore che, dopo Washington (o forse ancor di più), è maggiormente preoccupato per ciò che sta accadendo. Così come per gli Stati Uniti, vi è dire un appoggio sicuro ad alcune proprie politiche, fondato su un reciproco riconoscimento. Israele ha in Mubarak uno dei pochi interlocutori nell’area. Più che con Mubarak, si dovrebbe dire proprio con quel Suleiman nominato vice-Presidente e papabile uomo traghettatore verso una nuova fase. Tel Aviv, però, vede anche nel Cairo l’unico vero freno al propagarsi dell’influenza di Hamas, sia a livello politico che logistico. Il governo egiziano controlla una parte del valico di Rafah, al confine con la Striscia di Gaza, ed è proprio l’Egitto che sta costruendo dei muri sotto terra per evitare il contrabbando di armi e persone tramite i famosi tunnel che collegano il Paese alla Striscia di Gaza. Più di una volta le Forze di Sicurezza egiziane hanno sparato e ucciso cittadini palestinesi che valicavano senza permesso il confine. Inoltre, alcune rotte di rifornimento per Hamas passerebbero dal Mar Rosso, rendendo il controllo egiziano cruciale per una tattica di contro-insurrezione e prevenzione del traffico illecito verso la Striscia. Talmente cruciale che, spesso, lo stesso Egitto è stato accusato di essere complice delle politiche israeliane nei confronti dei Palestinesi, da parte di più di un attore arabo. Israele non ha fatto mistero del fatto che a tutti i costi vorrebbe che Mubarak rimanesse al potere, perché la sua politica e le sue relazioni esterne sono da sempre basate su un unico, assillante e a volte accecante concetto: la sicurezza. E per Tel Aviv sicurezza vuol dire stabilità ai propri confini, ciò che sembra nuovamente mancare da un po’ di tempo a questa parte.

Israele è attualmente al centro di almeno due zone scottanti e altrettante perlomeno calde: Libano ed Egitto, Palestina e Giordania. Il Libano è di nuovo a rischio destabilizzazione, dopo la caduta del governo Hariri e la nomina di Mikati come nuovo Primo Ministro, il tutto con la spada di Damocle del Tribunale Internazionale sull’assassinio di Rafiq Hariri che pende sulla pace del Paese. L’Egitto, al confine con la Striscia di Gaza, è ormai nel caos e, qualunque sarà l’esito della situazione, Israele avrà ai propri confini meridionali un Paese, almeno nel breve periodo, indebolito. A ciò si aggiunga la rabbia palestinese scatenata dalle rivelazioni circa i negoziati tra Fatah e gli Stati Uniti e una Giordania in cui le manifestazioni di piazza non sembrano per il momento mettere in discussione la monarchia hashemita, ma se non altro sono sintomo di un malessere diffuso. Israele è in mezzo a tutto ciò, come non nutrire preoccupazioni? Anche alla luce della crisi politica interna che ha visto il Labour porre le basi per la sua definitiva scomparsa dal panorama politico e dei dissidi che hanno contraddistinto i primi due anni di Presidenza Obama con gli Stati Uniti, Tel Aviv ha le sue buone ragioni per non sentirsi sicura. E quando Israele non si sente sicuro, nella regione potrebbe accadere di tutto.

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L’EUROPA RESTA A GUARDARE – Il momento è dunque quanto mai cruciale per il futuro degli equilibri mediorientali e, adesso che a bruciare non è solo la piccola Tunisia, ma l’Egitto, si può dire. L’unico attore che sembra ancora stordito da tali avvenimenti, al punto da non esercitare un’effettiva ed efficace influenza sui Paesi del Mediterraneo meridionale e quasi da non esprimere un’opinione propria, sembra essere quello che in realtà dovrebbe preoccuparsene maggiormente: l’Unione Europea. L’UE ha interessi, eccome, nell’Egitto e non dovrebbe essere questa analisi a ricordarlo ai decisori della politica estera comune (poco estera e poco comune, a dire il vero). Prima di tutto, il retaggio storico-culturale: si pensi solo al fatto che la stessa storia del Medio Oriente moderno, per convenzione, si fa partire dal 1798, anno in cui Napoleone invase l’Egitto, dando il via, per reazione, al processo di modernizzazione dell’area (guarda caso partito sempre dall’Egitto ad opera dell’illuminato Mehmet Ali Pasha). Da non dimenticare, venendo al secondo dopoguerra, che l’Egitto è anche il terreno su cui Francia e Gran Bretagna hanno sparato le loro ultime cartucce circa l’interesse coloniale e la possibilità di mantenere un minimo di influenza sul Medio Oriente, prima di lasciarlo del tutto nelle mani degli Stati Uniti: la Guerra di Suez del 1956 ha suggellato tale passaggio di consegne. Ancora oggi, comunque, Parigi risulta essere uno dei maggiori investitori stranieri nel Paese, con un flusso che è arrivato anche a superare i 10 miliardi di dollari annui, a testimonianza della volontà di Sarkozy di riportare Parigi in Medio Oriente.

E poi l’economia: si pensi che attraverso il Canale di Suez passa una buona fetta del commercio internazionale via mare e, per motivazioni geopolitiche evidenti (la vicinanza delle due sponde del Mediterraneo, di cui quella settentrionale è in Europa), l’UE è interessata in prima persona. O almeno lo sono e lo dovrebbero essere alcuni Stati membri: più del 70% del traffico totale che, dal Mediterraneo in direzione Sud passa attraverso il Canale di Suez, proviene infatti da Italia, Spagna, Paesi Bassi e Regno Unito. Cifre che rendono meglio l’idea dell’importanza strategica dell’Egitto, a cui si somma il fatto che sul territorio egiziano, via Canale o oleodotto, passano circa 3 milioni di barili di petrolio al giorno, diretti verso l’Europa: quasi il 20% del consumo totale di tutta l’UE. Solo l’italiana ENI ha in Egitto circa il 13% della propria produzione totale di petrolio. Cifre che dovrebbero allarmare chiunque, nel momento in cui il Paese cade verso un’instabilità che non ha precedenti nella sua recente storia. Anche le politiche di sicurezza e migrazione vedono Bruxelles direttamente coinvolta: non è un mistero che, adesso che le coste libiche sembrano essere molto più pattugliate, il traffico dell’immigrazione clandestina in Europa potrebbe trovare proprio attraverso l’Egitto nuove rotte. Anche nel caso dell’UE, più l’Egitto è importante dal punto di vista geopolitico e strategico, più si fanno investimenti materiali e politici sul Paese e più c’è apprensione di fronte ad una crisi come quella odierna. O dovrebbe esserci perlomeno. Nei fatti, a parte qualche dichiarazione, l’UE, distratta dall’allargamento verso Est e forse convinta che la sponda Sud del Mediterraneo fosse ormai “conquistata”, negli ultimi anni non ha ancora sviluppato una politica di lungo termine nell’area. E il vuoto che va formandosi rischia di essere quanto mai profondo. Un maggiore impegno in quest’area del mondo e del proprio vicinato sembra essere una priorità di fronte alla quale urgono risposte in tempi brevi.

A TEHERAN SI GONGOLA – Ma non solo cattive notizie, o almeno non per tutti, arrivano da Piazza Tahrir e dintorni. C’è anche chi, probabilmente, guarda a questa crisi con una certa soddisfazione, e ciò di nuovo turba i sonni di Obama, di Israele e degli europei: l’Iran. Teheran e Il Cairo sono ormai ai ferri corti già da anni, proprio come conseguenza dell’allineamento egiziano alle politiche occidentali e del mai sopito scontro politico-culturale per l’egemonia del mondo musulmano, in cui l’Iran persiano e sciita si contrappone all’Egitto e all’Arabia Saudita, arabi e campioni dell’ortodossia sunnita. E la contrapposizione, se è vero che due anni fa cellule di Hezbollah sono state arrestate in Egitto con l’accusa di pianificare attentati sul suolo egiziano, non sarebbe soltanto ideologica. Teheran assiste da anni al logoramento del soft power dell’Egitto, Paese che era al centro dell’asse con Arabia Saudita e Giordania per la risoluzione delle controversie diplomatiche regionali e che da un po’ di tempo sembra non aver più il peso specifico di una volta, come già detto. E ciò a favore di nuove realtà come il piccolo Qatar, l’ormai affermata Turchia e la Siria che, pian piano, sta rientrando nei ranghi della comunità internazionale. Tutti attori con cui Teheran dialoga e intrattiene rapporti privilegiati. Meno Egitto uguale più Iran, dunque. A meno che non avvenga una transizione democratica talmente perfetta e limpida da indurre lo stesso regime iraniano a ritenere che sia pericolosa la ripercussione degli eventi egiziani sulla propria società civile. Ma nel breve-medio periodo, l’Iran ne esce vincitore. Senza colpo ferire. E non è un caso, ma fa parte della tattica della “guerra di nervi” di Teheran con i suoi competitori, se il Ministro degli Affari Esteri iraniano Ali Akbar Salehi si sia lanciato in una profezia: “la rivolta in Egitto creerà un Medio Oriente islamico”. Per il momento ancora tutto sembra possa ancora accadere, ma la posizione di Teheran, in tale congiuntura, è sicuramente privilegiata, rispetto a quella statunitense, israeliana ed europea.

Stefano Torelli [email protected]

La diretta dal Cairo di Al Jazeera

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http://english.aljazeera.net/watch_now/

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L’enigma della Sfinge

Focus Egitto – Mentre in queste ore la situazione in Egitto si fa sempre più incerta (dapprima l'annuncio di dimissioni di Mubarak, poi mutato in un conferimento delle deleghe al vicepresidente Suleiman), ecco un'analisi in due puntate per capire che cosa potrà accadere nel mondo mediorientale. Dal Cairo si potrebbe scatenare un “effetto domino” in grado di spazzare via gli altri regimi autoritari della regione? E quale ruolo per i protagonisti esterni, a cominciare dagli Stati Uniti?

L’EGITTO E IL SUO MODELLO – Una prima considerazione spiega quali potrebbero essere le preoccupazioni di carattere geopolitico che stanno attraversando il mondo occidentale: l’Egitto, lui sì, ha le potenzialità per produrre un effetto domino sulla regione, come già successo altre volte nella storia. Per gli Stati Uniti in particolar modo, l’alleanza con il regime del Cairo ha sempre voluto dire, almeno da 30 anni a questa parte, un maggiore controllo su una porzione di Medio Oriente e un minimo di stabilità assicurata nella regione. Se è vero, infatti, che l’Egitto è in qualche modo il Paese più importante del mondo arabo e sunnita, per ragioni di carattere storico, politico e culturale, avere un governo alleato in quel Paese è un interesse vitale di Washington. Si pensi che gli Stati Uniti danno ogni anno circa un miliardo e mezzo di dollari in aiuti -militari e non- al Cairo e che, di contro l’Egitto ripaga con un controllo abbastanza serrato sul movimento della Fratellanza Musulmana all’interno dei propri confini e, al di fuori, con un rapporto privilegiato con lo Stato di Israele. Il Cairo è insieme alla Giordania l’unico Paese arabo ad aver riconosciuto Israele e a intrattenere rapporti diplomatici con Tel Aviv. Di più: Il Cairo fu l’apripista dell’apertura di un certo mondo arabo “moderato” (o ritenuto tale in Occidente, secondo una caratterizzazione che si basa sulla vicinanza o meno con Israele e sull’importanza geopolitica del Paese in questione, vedi l’Arabia Saudita) nel fare delle aperture ad Israele. Così, nel 1979, il Paese fu il primo attore arabo a firmare un accordo di pace con Tel Aviv. L’allora Presidente Sadat pagò con la vita tale scelta, ma l’Egitto, da quel momento in poi, è stato sotto l’ala protettrice di Washington, diventando un punto di riferimento della politica mediorientale degli Stati Uniti.

FRATELLI D'EGITTO – Inoltre, come appena accennato, si tratta del Paese in cui ha preso vita il movimento della Fratellanza Musulmana ormai più di 80 anni fa (ironia della sorte: era il 1928, anno di nascita di Mubarak). Un movimento che oggi, in tutto il panorama mediorientale, è l’unico nel suo genere a mantenere una vera presa sociale, pur senza imbracciare le armi (come è stato a volte il caso di Hamas nei Territori Palestinesi o di Hezbollah in Libano). Un movimento, dunque, che non può essere ignorato e che da anni lavora dal basso per guadagnare consensi aspettando il momento in cui il panorama politico cambierà e la popolazione potrà scegliere i leader che davvero vuole. Adesso quel momento potrebbe essere alle porte e gli Stati Uniti devono scegliere in fretta come comportarsi. L’Egitto è stato funzionale all’interesse geopolitico, strategico e politico in senso stretto, di non permettere che movimenti ispirati all’Islam politico potessero prendere il sopravvento all’interno del Paese simbolo del mondo arabo e sunnita. Gli Stati Uniti, direttamente o meno, hanno per anni tollerato un regime non propriamente democratico, in nome di un’apparente laicità dello Stato e dell’estromissione delle forze politiche islamiche dalla scena egiziana. E questo perché un Egitto in cui la Fratellanza Musulmana avesse influenza e potere decisionale, equivarrebbe a un Medio Oriente che potrebbe prendere la stessa piega, vista la capacità attrattiva delle politiche egiziane su tutta l’area (si veda l’epoca del pan-arabismo nasseriano, su tutte). E gli Stati Uniti hanno bene in mente quanto accaduto in Algeria negli anni ’90 e a Gaza nel 2006, quando elezioni libere e democratiche portarono al potere forse islamiste, provocando il non riconoscimento di tali risultati da parte della comunità internazionale e dell’Occidente stesso, provocando vere e proprie guerre civili, il cui unico effetto è stato quello di far perdere credibilità all’Occidente stesso.

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COME SCARICARLO – Se l’Arabia Saudita rappresenta il baluardo degli interessi strategici e economici di Washington in Medio Oriente, l’Egitto ne rappresenta dunque quelli politici. E forse ciò rende Il Cairo ancora più importante anche di Riyadh. Gli Stati Uniti hanno scommesso sull’Egitto per mantenere un certo ordine nella regione mediorientale e non è un caso che Obama abbia scelto proprio la capitale egiziana per il suo famoso discorso a tutto l mondo musulmano. Come dire: per noi, il mondo musulmano è rappresentato dall’Egitto. Una scommessa che, adesso, potrebbe essere persa o che, al contrario, potrebbe essere vinta, a seconda di come Washington sceglierà di comportarsi nel medio-lungo periodo e di quanto la Fratellanza Musulmana (è inutile nascondersi dietro falsità: tanto è vero che in Tunisia un movimento islamico sembra essere lontano dal popolo e quindi è difficile che acquisti influenza, tanto lo è che in un Egitto democratico i Fratelli Musulmani avrebbero eccome il loro peso) voglia spingersi oltre il limite. Vi è da dire, comunque, che la Fratellanza non è al-Qaeda, e neanche Hamas. Si tratta di un movimento che fa sicuramente parte della galassia dell’Islam politico, ma non ha le caratteristiche radicali di altri movimenti ispirati all’islamismo. D’altro canto, gli Stati Uniti potrebbero cogliere l’occasione per appoggiare una transizione democratica nel Paese e migliorare la propria immagine agli occhi delle popolazioni mediorientali. Ma è qui che arriva il dilemma statunitense: come scaricare Mubarak, alleato di ferro trentennale, all’improvviso e senza ritorsioni? Se Mubarak rimanesse al potere, come potrebbe agire nel caso in cui avesse avuto l’impressione che Washington voleva disfarsene? Sarebbe sicuramente uno scenario da non sperimentare.

IL DILEMMA DI WASHINGTON – Allo stesso tempo, che esempio danno gli USA nell’abbandonare un alleato di così lunga data? Cosa penserebbero gli altri regimi “amici” in tutto il mondo e in quell’area, dallo Yemen, alla Giordania, all’Arabia Saudita? La preoccupazione è che una mossa tropo azzardata verso l’abbandono politico di Mubarak possa creare turbamenti anche in altre capitali arabe e, di conseguenza, possibili nuovi giochi di alleanze. Gli Stati Uniti potrebbero però avere una buona notizia dalla cacciata di Mubarak: se è il popolo a mandarlo via, e non un colpo di Stato o un complotto internazionale, né tantomeno le pressioni dovute all’ingerenza di mani terroristiche (si veda l’attentato contro i copti ad Alessandria la notte di Capodanno), ciò potrebbe togliere terreno alla propaganda dell’islamismo radicale. Quell’islamismo che ha in Mubarak un acerrimo nemico, ma che ha sempre puntato l’indice anche contro l’Occidente per sostenerlo, come dire: se gli egiziani sono vittime di un regime autoritario è anche colpa del mondo occidentale. Un Mubarak che uscisse di scena grazie alla spinta popolare, sarebbe un argomento in meno per la nebulosa di al-Qaeda, che non potrebbe più fare propaganda anti-occidentale chiamando in causa la collusione con il regime egiziano. E questo per gli Stati Uniti, insieme all’eventuale appoggio di una soluzione di transizione democratica guidata dalla società civile egiziana (semmai ciò dovesse accadere), sarebbe un gran colpo di immagine agli occhi di tutto il Medio Oriente. Il vero problema, che non è nuovo a dir la verità, è che l’Egitto ha perso l’influenza che aveva nella regione fino agli anni Novanta. Per gli Usa, dunque, il dilemma sarebbe dovuto essere arrivato già prima, nel momento in cui ci si rendeva conto che Mubarak stava diventato ormai inattivo e che qualcosa si stava muovendo. Per esempio a favore della Turchia. Per esempio verso Damasco. Per gli Stati Uniti, dunque, l’Egitto rappresenta un lato della medaglia degli equilibri mediorientali che si è deciso di forgiare e mantenere. Per tutte queste ragioni, Il Cairo non è esattamente Tunisi ma molto, molto di più.

(1. continua)

Stefano Torelli [email protected]

Un mese dopo

Non solo Egitto… a quasi un mese dall'inizio della rivolta, torniamo a vedere quanto avviene in Tunisia. Cosa sta succedendo, dopo la clamorosa fuga di Ben Alì? Ripercorriamo velocemente le tappe della vicenda, e scopriamo le prime mosse del Governo di transizione, dedicate ai giovani e allo sviluppo delle zone più povere del Paese

RICAPITOLANDO – È passato quasi un mese da quando la piazza tunisina ha rigurgitato con forza anni di oppressione e sopportazione. Anni in cui la marcata crescita economica del PIL (quasi il 5% annuo) aveva reso forse un po’ più accettabili le restrizioni poste dal regime a tutte le libertà civili e politiche, in favore dell’aumento del benessere in buona parte del Paese.

Non in tutto. Ad una zona costiera sempre più competitiva e con una Tunisi in grado di reggere il confronto con le maggiori capitali europee, si contrapponeva un entroterra sempre più emarginato e impoverito. Uno scenario tipico dei tempi moderni, dove spesso all’incremento della ricchezza non corrisponde l’equa distribuzione della stessa, causando un sottobosco di insoddisfazione che quasi sempre è destinato ad incendiarsi.

La crisi economica che ha colpito il mondo intero dal 2009 in poi non ha risparmiato nemmeno la Tunisia, la quale si è trovata tutto a un tratto privata dell’unico beneficio garantito dal regime di Ben Ali: la crescita economica.

E così ecco il gesto simbolo, la classica goccia finale: giovane laureato senza occupazione, a Mohamed Bouazizi viene impedito di vendere da ambulante frutta e verdura per mantenersi; la polizia infierisce, lo umilia e il 17 dicembre 2010 al giovane non resta che darsi fuoco, innescando quella che verrà ricordata come una delle più clamorose rivoluzioni di questi decenni.

Una rivoluzione partita dal basso, senza alcuna guida né partitica né religiosa, spinta solo dall’insofferenza diffusa ed organizzata attraverso i social network, nemici giurati di ogni regime.

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E ORA? – In poco più di due settimane si perviene alla fuga di Ben Alì e all’avvio di una reale transizione democratica. I morti sono oltre 150, e il Paese ha profonde ferite, eppure oggi a distanza di un mese dall’inizio delle prime intense manifestazioni di piazza, le scuole e le università sono riaperte, il coprifuoco quasi azzerato, le fabbriche funzionano a pieno ritmo e il Paese guarda al futuro con una fiducia che non conosceva da vent’anni.

Il mondo intero ha osservato con il fiato sospeso la rivolta inaspettata di un Paese pacifico, ricordato per le spiagge da sogno e che in pochi forse credevano capace di tanto coraggio. Il Presidente americano Obama nei giorni più duri della rivolta ha voluto ricordare davanti al Congresso americano quel popolo in grado di mettere a repentaglio la propria vita per i valori tanto cari agli Stati Uniti: libertà e democrazia. Le sue parole sono state accolte con una standing ovation da parte del Congresso che ha voluto così omaggiare la tenacia del popolo tunisino, capace di sradicare in una manciata di giorni la dittatura di Ben Alì.

I PRIMI FATTI – Ed è sempre con questa rapidità decisionale, che il governo di transizione sta mettendo a punto tutta quella serie di riforme necessarie al riequilibrio delle condizioni di vita nel Paese.

Tra le tante riforme avviate, vi è stata la creazione di un Ministero per lo sviluppo regionale, interamente dedicato al sostegno delle zone più povere del Paese, che mai più devono sentirsi emarginate.

Si è passati poi a quel 44% di giovani laureati in cerca di occupazione da mesi; per loro è stato previsto l’impiego part-time in una sorta di servizio civile nostrano, con borse di studio in grado di fornire un concreto sostegno economico, in attesa che possano finalmente inserirsi in maniera stabile nel mondo del lavoro.

Non sono state tralasciate nemmeno le oltre 3000 imprese straniere che hanno impiantato i loro stabilimenti in Tunisia. Ad esse è stato garantito il massimo supporto nella prosecuzione delle loro attività produttive, con la consapevolezza di trovarsi ora in un Paese più libero, dove lotta alla corruzione, trasparenza e sicurezza economica saranno le parole d’ordine del futuro.

Chiara Maria Leveque [email protected]

Mangia, prega…paga

Dal "nuovo cigno nero" egiziano allarghiamo il cerchio. Vediamo nel complesso la questione della crisi dei prezzi alimentari, che incorpora in sè una forte componente finanziaria. Avviso ai naviganti: non sarà un'analisi semplicissima da leggere e comprendere (cerchiamo di aiutarvi con un piccolo glossario nel chicco in più), ma siamo convinti che sia fondamentale cogliere le dinamiche sottese a questo fenomeno, che hanno ricadute non solo a livello finanziario, ma anche geopolitico, fino alla vita quotidiana dei consumatori.

Questa analisi è preceduta da “Un nuovo cigno nero”, che lega il tema della crisi dei prezzi alimentari con quanto accade in Egitto.  

Troverete alcune parole in grassetto “color caffè”: sono quelle per le quali abbiamo preparato un piccolo glossario nel chicco in più, in fondo all'analisi.

CIBO E FINANZA – All’inizio di novembre, subito dopo le elezioni di mid term, la Federal Reserve vara la seconda fase di quantitative easing (allentamento quantitativo, QE2), operazioni di mercato aperto con cui la banca centrale acquista titoli e immette ampia liquidità nel sistema finanziario, 6-700 mld di dollari. L’allentamento porterebbe di per sé a un deprezzamento del dollaro, ma di fatto questo avviene più che altro sui mercati delle commodities (dove il biglietto verde domina incontrastato, come mezzo di pagamento), perché molte economie – soprattutto le emergenti ed export driven, come la stessa Cina – mantengono per scelta l’ancoraggio al dollaro, preferendo immettere a loro volta vaste quantità delle rispettive valute sui mercati (e così generando un focolaio di inflazione), anziché lasciare fluttuare liberamente il cambio. L’effetto netto è dunque, per questi paesi, un aumento di prezzo reale nell’import di beni fungibili.

Paesi che non adottano questa politica si trovano a subire un drastico apprezzamento del cambio, e un duro colpo alla competitività dell’export (è il caso del Brasile). Alcune economie, come la Cina, si proteggono dall’influsso di hot money dagli Usa e relativa pressione inflazionista, grazie a un solido controllo dei movimenti di capitale, ma la muraglia regge fino a un certo punto: anche nell’impero di mezzo si manifestano forti aumenti dei prezzi, soprattutto nel nevralgico settore alimentare, e nell’immobiliare. 

All’inflazione (alimentare) interna ai singoli paesi, si accoppia il rialzo sui mercati globali delle commodities. Questo è ancora più forte, perché, se negli strumenti finanziari classici e più complessi (azioni, hedge fund), sui mercati immobiliari e sui sistemi bancari si è cominciata a introdurre qualche forma di regolamentazione (con la riforma dei mercati voluta dal presidente Obama nel 2010, e con il passaggio delle banche ai parametri di Basilea 3), futures  ed hedge fund su petrolio, metalli e agroalimentari, rimangono in gran parte terreno vergine e particolarmente ospitale per la speculazione, per accogliere la nuova liquidità generata dalla Fed. Nel corso dell’autunno le quotazioni al mercato di Chicago (la Wall Street delle commodities) macinano record su record.

A questo punto le economie più dipendenti dall’estero per il fabbisogno alimentare si trovano tra due fuochi: alla corsa dei prezzi interni sostenuti da dinamiche strutturali – dal rialzo del petrolio e dalle scelte di politica espansiva della Fed – corrisponde un mercato internazionale in parte razionato dai blocchi all’export, e in forte tensione per gli acquisti preventivi di alcuni paesi e il flusso di hot money speculativo – una valvola di sfogo difettosa o bloccata.

RIALZI IN VISTA – La situazione sembra destinata addirittura a peggiorare, il Food Price Index della Fao (relativo ai prezzi internazionali di cinquantacinque beni alimentari) ha toccato questa settimana i massimi di sempre, superando di slancio il picco del giugno 2008, l’anno nero dei prezzi alimentari (e delle crisi sociali e rivolte del pane). Se il 2010 è stato un anno pessimo per l’agricoltura – tra incendi russi, torrenziali monsoni indiani, gelate in Sudamerica e Usa – il 2011 non si annuncia migliore, con inondazioni e cicloni nel Queensland (Australia), raccolti devastati in Indonesia, fenomeni che rientrano nel sistema della Niña. Le quotazioni petrolifere hanno accelerato la corsa al rialzo, in un feedback perverso ma inevitabile con i timori di una destabilizzazione geopolitica, e sul versante finanziario non accenna a placarsi la tempesta perfetta della liquidità. Un segnale ancora più inquietante viene dalle stime del Grain Council americano, che vede un import di cereali da parte cinese in crescita esponenziale per il 2011-12, acquisti pari a 9 milioni di tonnellate (rispetto agli 1.3 del 2010-11) – un dato senza precedenti per quel paese, ma soprattutto il possibile inizio di un trend rialzista destinato a portare le importazioni cinesi a livelli ben superiori (si parla di 25 milioni di tonnellate per il 2015) nel giro di pochi anni.

PERCHE' L'EGITTO E' COINVOLTO – Torniamo a sottolineare che la crisi egiziana merita attenzione alle proprie specifiche dinamiche, sia per quanto riguarda le origini che, soprattutto, la vasta e varia portata delle sue implicazioni geopolitiche, sul teatro africano e sullo scacchiere mediorientale – nondimeno essa rientra in qualche misura nella più vasta destabilizzazione globale (della crisi) dei prezzi alimentari e dell’energia. Lo si può agevolmente dedurre dalla varietà di misure intraprese dai governi di diverse regioni del mondo per prevenire gravi deficit dell’offerta e crisi sociali, dalle misure anti-export e a favore delle importazioni di New Delhi, al Messico che ricorre agli hedge fund sul mercato di Chicago per premunirsi contro il rialzo dei cereali, alla Corea del Sud che progetta una trading company di stato per coprire parte del fabbisogno di frumento da qui al 2020.

Eppure esiste un vasto ventaglio di contromisure, di breve e medio periodo, utili a invertire la rotta sul mercato degli alimentari.

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CHI BLOCCA L’EXPORT – La questione dell’export: alcuni paesi, in particolare Russia e Ucraina, si dimostrano particolarmente inaffidabili, bloccando completamente le esportazioni nei momenti più critici, e così gettando benzina sul fuoco dei timori, degli accaparramenti preventivi e della speculazione sui futures. Eppure, secondo alcuni osservatori, il mercato stesso potrebbe incaricarsi di punire e dissuadere certi comportamenti, la Russia con questa mossa forse si è giocata i mercati strategici del Medio Oriente e dell’Africa, ora gravitanti sull’offerta Usa. Perché ciò avvenga, però, il mercato internazionale (e americano in particolare) deve produrre un surplus che offra agli importatori possibilità di scelta. Il presidente della Banca Mondiale propone, fra altro, sistemi di aiuto a esborso rapido per prevenire il pericoloso automatismo shock all’offerta/blocco dell’export.

Forse, se si realizzerà che l’agroalimentare sta diventando un mercato critico e di forte impatto geopolitico, si potrà pervenire alla fondazione di una Opec (l'organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio) del settore, in possesso di un elevato potere di controllo su flussi e prezzi, ma anche attore strategico responsabile.

L’AFRICA: QUALE FUTURO? – Il deficit alimentare è un problema in particolare per l’Africa, e sempre più lo sarà almeno nei prossimi quattro decenni.  E’ l’unica regione dove negli ultimi quaranta anni si è assistito a una caduta della produzione per abitante, mentre le importazioni aumentavano di sei volte. Il continente nero è anche quello dove però esistono i migliori margini, dove non è avvenuta la Rivoluzione Verde che a partire dagli anni’70 ha moltiplicato raccolti e produttività dell’Asia meridionale e orientale, e dove gli aiuti internazionali e i bilanci dei governi hanno praticamente dimenticato per decenni di investire nel settore agricolo. Questo può avere un potente rilancio se si concentrano risorse a favore di un utilizzo intensivo dei suoli, avvalendosi di fertilizzanti e sviluppando varietà di colture più adeguate a clima e disponibilità idriche dei territori, ma anche puntando su tecniche più intensive di lavoro, per la gestione delle acque e il trattamento di suoli e humus.  Soprattutto è strategico mettere mano a misure e risorse per sviluppare i mercati locali, attraverso la costruzione di infrastrutture, la disseminazione di know-how, il sostegno alla formazione di cooperative per la gestione post-raccolto (stoccaggio e trasporto), il ricorso al microcredito e a forme originali di copertura finanziaria/assicurativa del rischio (meteorologico, dei prezzi energetici), le riforme a favore della piccola proprietà.

Andrea Caternolo [email protected]

Un nuovo protagonista

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Andiamo ad analizzare l’anno che è stato e l’anno che verrà di un attore che aspira ad essere uno dei maggiori protagonisti dei nuovi equilibri geopolitici internazionali: la Turchia. Sempre più coinvolta nelle faccende mediorientali e sempre più attenta a cosa accade ad Est, Ankara non sembra però aver perso di mira l’obiettivo più importante della sua politica estera: l’adesione all’UE. Pesa in tutto ciò il rapporto ancora difficile, se non ostile, con la Repubblica di Cipro.

LA TURCHIA EUROPEA – E’ già difficile di per sé decidere in che area geografica inserire un Paese come la Turchia, figuriamoci parlarne e cercare di inquadrare con le solite categorie la propria politica estera. Il 2010 è stato per Ankara, così come lo sarà il 2011, un anno colmo di avvenimenti e sfide per Ankara e per le scelte da compiere al di fuori dei propri confini. Prima di tutto c’è da sottolineare che, se il Presidente Abdullah Gul ha vinto il Premio di Chatham House per il 2010 e se il Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan ha sfiorato, così pare, la copertina del Times come uomo dell’anno, un motivo dovrà pure esserci. Si tratta di un riconoscimento internazionale, in ogni caso, alla straordinaria (nel senso più neutrale del termine) prestazione della Turchia, sia in campo interno, che regionale e internazionale. Il Caffè ha deciso di mettere la Turchia virtualmente in Europa, per vari ordini di motivi: uno è un auspicio che la controversia che da anni ormai vede coinvolte l’Unione Europea e la Turchia possa finire, non per spirito filo-turco, ma piuttosto filo-europeista: prendere una posizione comune e definitiva su una delle questioni più scottanti dell’agenda europea potrebbe essere un primo passo verso un’UE più incisiva anche sul piano internazionale, qualunque sia la decisione finale. In secondo luogo, come si avrà modo di approfondire anche in seguito, la Turchia è legata ad alcuni fatti e attori europei che, nel bene o nel male, ne condizionano le politiche: il caso di Cipro è emblematico. Infine, gli stessi policy makers turchi, da Erdogan al Ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, insistono sul fatto che l’ingresso nell’UE rimane la priorità strategica della politica estera di Ankara.

LA POLITICA MEDIORIENTALE – In effetti tante polemiche sono sorte in questo 2010 passato, e ne sorgeranno indubbiamente nell’anno entrato, circa la posizione della Turchia nel contesto internazionale, soprattutto in merito alla sua politica in Medio Oriente. Il Paese ha da poco concluso un accordo con Siria, Libano e Giordania, che istituisce di fatto una zona di libero scambio tra tali Stati, all’interno della quale saranno garantite libertà di movimento e circolazione di beni e persone. I rapporti con la Siria, fino a pochissimi anni fa del tutti invisa all’Occidente e agli Stati Uniti, ancora formalmente in stato di guerra con Israele e da poco rientrata in punta di piedi nei ranghi della comunità internazionale (anche se accolta ancora con molto sospetto), vanno a gonfie vele e Erdogan stesso ha più volte parlato di una vera e propria integrazione tra Ankara e Damasco. Allo stesso tempo, la Turchia non fa mistero delle sue relazioni con l’Iran, in nome delle quali Ankara si è anche proposta come mediatrice nella controversia che mette contro Teheran e l’Occidente in merito alle ambizioni nucleari di Ahmadi-Nejad. E di contro, il 2010 è stato l’anno della rottura (almeno momentanea, si intende) con Israele, dopo mesi di tensione diplomatica; rottura avvenuta in seguito all’attacco israeliano alla Mavi Marmara, la nave di attivisti turchi diretta verso Gaza con l’obiettivo di rompere il blocco imposto da Tel Aviv, e all’uccisione da parte delle Forze armate israeliane di 9 cittadini turchi. Di fronte a tutto ciò, continuano a susseguirsi le profezie di una Turchia sempre più islamica e meno occidentale e di un Erdogan amico degli islamisti e in qualche modo doppiogiochista con l’Occidente.

IL REALISMO DI ANKARA – In realtà, i rapporti con gli attori mediorientali sembrano essere improntati al più classico realismo: si tratta di Paesi confinanti, con cui la Turchia non può non intrattenere rapporti, in un mondo ormai relativamente aperto e non più costretto alle ferree e stabili logiche bipolari della seconda metà del secolo scorso. Ankara ha in Teheran, per esempio, un alleato economico e commerciale. L’Iran fornisce alla Turchia grandi quantità di idrocarburi e rappresenta, d’altro canto, un mercato di naturale espansione per l’industria turca. Lo stesso vale per i Paesi citati sopra con cui Ankara ha concordato l’istituzione della zona di libero commercio. Si tratta, dunque, di una politica estera improntata ad un classico pragmatismo, più che dettata da legami di tipo ideologico con i Paesi musulmani o, addirittura, ostili all’Occidente. In tal modo, inoltre, la Turchia tenterebbe di portare lo stesso mondo occidentale, UE e Stati Uniti, più vicini al Medio Oriente, come testimonia il tentativo, compiuto insieme ad un’altra potenza regionale emergente, il Brasile, di raggiungere un accordo per il nucleare iraniano, per il momento arenatosi. Ma sembra esserci un altro fattore che, insieme al realismo appena accennato, sembra spingere Ankara verso Est (anche la Russia rappresenta un interlocutore importante per la Turchia attuale): la politica quantomeno ambigua di Bruxelles.

L’UE CHE GUARDA E LA QUESTIONE DI CIPRO – Di fronte ai tentennamenti europei circa il possibile ingresso turco nell’UE, Ankara percepisce la minaccia di rimanere isolata nel medio-lungo periodo, qualora il processo di adesione all’organizzazione dovesse fallire del tutto. In un simile scenario, risulta più comprensibile la scelta dei politica estera della Turchia di non rivolgersi solo ed esclusivamente al mondo occidentale (come fatto sostanzialmente fino all’inizio degli anni Novanta), ma di allargare il raggio della propria politica estera. In ambito europeo rimane una sostanziale situazione di stallo in quella che, più di altre, sembra essere la questione che condiziona le relazioni tra Ankara e Bruxelles: lo status di Cipro. La Repubblica di Cipro, membro dell’Unione Europea dal 2004, è in realtà un territorio ancora diviso in due. L’isola infatti è costituita per due terzi dalla parte greco-cipriota e internazionalmente riconosciuta come Stato di Cipro, mentre il rimanente terzo, nella parte settentrionale dell’isola, è sotto la sovranità della comunità turco-cipriota e gode del riconoscimento della sola Turchia. Questa condizione pone un ostacolo, allo stesso tempo, allo sviluppo del processo di integrazione di Ankara dell’Unione Europea, ma anche alla crescita e allo sviluppo economico e commerciale di Cipro. La Turchia non riconosce la Repubblica di Cipro come Stato sovrano e il fatto che quest’ultima sia entrata, seppur tra le polemiche per l’annessione solo di una porzione del territorio dell’isola e non di tutta l’area isolana, a far parte dell’UE, crea di fatto una situazione di stallo nei negoziati. Come possono coesistere all’interno della stessa organizzazione due Paesi che non intrattengono tra di loro rapporti diplomatici bilaterali?

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UN FRENO ALLO SVILUPPO E ALLA COOPERAZIONE – Per ciò che concerne lo sviluppo di Cipro, sia Repubblica greco-cipriota, che Repubblica Turca di Cipro Nord (RTCN), invece, basti pensare al fatto che la Turchia non permette alle navi e agli aerei ciprioti di arrivare sul proprio suolo, così come, di fatto, l’UE ha imposto un blocco commerciale a tutte le navi della RTCN, non riconoscendone la sovranità. E’ evidente come questa situazione pesi sugli scambi commerciali e sulla crescita economica dell’intera isola, che ha un grande potenziale soprattutto nel settore del turismo e degli investimenti esteri ad esso connessi. Vi è infine da ricordare come la crisi diplomatica (e non solo) che interessa Ankara e Nicosia, non si esaurisca nell’impasse del processo di adesione turco all’UE, o nel freno allo sviluppo dell’isola di Cipro nel suo complesso. Per citare solo uno dei campi in cui l’ostracismo vicendevole tra Turchia e Cipro rischia di diventare un vero e proprio ostacolo alle politiche di cooperazione, si pensi che a farne le spese è anche la stessa cooperazione tra la NATO e l’Unione Europea. In virtù dei cosiddetti accordi di Berlin plus, infatti, Bruxelles e la NATO collaborano in molti settori che riguardano la sicurezza comune e hanno messo in piedi un meccanismo di cooperazione istituzionale che prevede anche incontri congiunti ad alti livelli di rappresentanza. La Turchia, che fa parte della NATO ma non dell’UE, ha più volte ostacolato tali riuinioni in cui prenderebbe parte anche Cipro, a sua volta membro UE ma non della NATO. Ufficialmente, il cavillo cui Ankara fa appello nel suo ostracismo verso Cipro, è rappresentato dal fatto che, come stabilito negli accordi del Berlin plus, chi fa parte di tale meccanismo di cooperazione dovrebbe allo stesso tempo essere anche membro del programma Partnership for Peace (PfP), che include la NATO e i Paesi europei e dell’ex Unione Sovietica non facenti parte dell’organizzazione atlantica. E Cipro, così come Malta, non fa parte del PfP. Risulta comunque abbastanza evidente, come la scelta di Ankara, seppur legalmente non discutibile, sia funzionale a ostacolare Cipro stessa, così come a porre all’attenzione quanto la questione cipriota possa essere importante anche per altri ambiti regionali ed internazionali. La questione di Cipro, ancora una volta, resta così il nodo principale da sciogliere per una politica europea della Turchia più collaborativa ed è su tale questione che dovrà concentrarsi in buona parte la diplomazia di Ankara.

Stefano Torelli

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Un nuovo cigno nero

Focus Egitto – Vediamo quanto accade in Egitto sotto un'altra prospettiva. Tra le varie cause che hanno portato a questa rivolta, ce n'è una, meno immediata di altre, che coinvolge il mondo intero: il drastico aumento dei beni alimentari. Proviamo a capire, in due analisi distinte, le dinamiche che hanno portato a questa crisi nella crisi. E se volete capire anche il titolo… ve lo spieghiamo nel chicco in più

QUANTO CONTA L'EGITTO PER IL MONDO – In questi giorni l’Egitto è in fiamme. Ma prima è caduto il regime in Tunisia, ci sono stati e continuano moti e suicidi dimostrativi in Algeria, dimostrazioni in Yemen, tensioni in Libia, Libano e Siria, dopo i violenti disordini nel Mozambico, a settembre. Naturalmente la crisi egiziana riflette tensioni e contraddizioni proprie di quel Paese, ignorate o represse per decenni, e quelle decideranno (assieme a nevralgiche relazioni internazionali) l’esito di questa fase insurrezionale – tra guerra civile, rivoluzione democratica o islamica, o repressione. Oltre a questo aspetti, l'Egitto presenta anche profili geopolitici particolarmente nevralgici:

_ si tratta del più grande, importante Paese arabo (a parte, forse, la superpotenza energetica saudita);

_ è un alleato-chiave degli Usa nel mondo arabo e islamico, storicamente moderato e amico di Israele;

_ una discreta potenza energetica (nel gas naturale);

_ controlla la giugulare dei traffici commerciali globali, Suez, e la via del Mar Rosso (cruciale per la proiezione strategica degli Usa). Le stesse operazioni in Iraq e Afghanistan ne dipendono per la logistica;

_ le forze armate sono in possesso di asset tecnologici e di intelligence strategici, per il loro stretto rapporto con gli Usa e Israele.

MERCA(U)TI – Se pure i mercati hanno dimostrato finora un notevole sangue freddo (forse anche eccessivo) rispetto alle convulsioni arabe ed egiziane, si tratta di aspetti che non mancheranno di pesare sulle quotazioni petrolifere, nei mesi (o anni) a venire. Sullo scenario egiziano gioca anche un terrorismo islamista particolarmente aggressivo e organizzato, che periodicamente colpisce nei siti più importanti dell’industria turistica, e recentemente ha preso di mira la minoranza cristiana. Incombe inoltre una gravissima crisi internazionale – con gli altri paesi rivieraschi del Nilo – che può minare il fragile sviluppo del paese, la sua stessa sostenibilità economica, e degenerare in conflitto armato.

IL RUOLO DEI BENI ALIMENTARI: DOMANDA – Nondimeno è in origine anche questa, come le altre, una crisi del pane, l’esasperazione generata dal forte aumento dei prezzi alimentari.

La crescita dei prezzi agroalimentari ha a che fare con trend di medio periodo e violente distorsioni a breve, con problematiche sul lato dell’offerta e su quello della domanda. E’ anche il punto d’incrocio di alcune tendenze fondamentali del nostro tempo: l’ascesa dei paesi di nuova industrializzazione in Asia orientale; il Peak Oil (picco del petrolio: momento in cui la l'estrazione del petrolio a livello mondiale raggiunge il suo valore massimo); il mutamento climatico; la finanziarizzazione sregolata dell’economia e una politica del dollaro molto unilaterale da parte degli Usa.

Esiste chiaramente una tendenza strutturale al rialzo dei prezzi: lo sviluppo vorticoso delle economie Bric e di altri emergenti (soprattutto in Asia orientale, America Latina e penisola arabica), l’espansione delle rispettive classi medie, comporta una domanda crescente di beni alimentari, in particolare carne e tutte le colture implicate nella filiera (come foraggio). Aldilà della crescita dei redditi esiste anche una pressione crescente derivante da una transizione demografica (verso un equilibrio di tipo occidentale, o anche cinese) ancora agli inizi in quasi tutta l’africa subsahariana, e tuttora in corso nel resto del continente: da qui alla metà del secolo la popolazione dell’Africa raddoppierà il miliardo attuale.

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IL RUOLO DEI BENI ALIMENTARI: OFFERTA – Sul lato dell’offerta si deve scontare una continua (se pure soggetta ad accelerazioni e rallentamenti) perdita di suolo agricolo e di produzione a causa di:

_ processo di desertificazione in atto, soprattutto in parte dell’Africa (ma colpisce anche molti paesi del nord Mediterraneo, Italia compresa); in particolare una fase del processo consiste del deterioramento o distruzione del topsoil, lo strato di suolo superficiale, il più organico e fertile, spesso a causa di (più frequenti) eventi climatici estremi

_ Urbanizzazione (particolarmente intensa nei paesi dell’Africa subsahariana), che da un lato sottrae terreno arabile, dall’altro altera l’equilibrio nella distribuzione territoriale dei rifiuti organici;

_ espansione della domanda e produzione di biofuel. Questa ha pure natura ciclica, aumenta drasticamente con i forti rialzi nel prezzo del petrolio;

_ declino della popolazione agricola nei territori della Russia e in generale della ex-Unione Sovietica.

Il peak oil che si profila per i prossimi anni, con forti aumenti e alta volatilità nei prezzi degli idrocarburi, ha così un duplice impatto negativo sull’offerta agroalimentare: da un lato, appunto, sottrae terreno alle colture alimentari a favore del biofuel, dall’altro, in agricolture sempre più ad alta intensità di idrocarburi (meccanizzazione e ampio utilizzo di fertilizzanti chimici), incide pesantemente sui costi.  

L'INIZIO DELLA CRISI – Quando, nel 2010, un’estate di incendi falcidia i raccolti della Russia, il quadro è già in tensione, con un po’ tutti i prezzi di alimentari, petrolio, metalli e cotone in rialzo da mesi. E’ l’innesco della crisi, con il blocco all’export di grano decretato da Putin. Di per sé il danno ricevuto dalle colture russe non avrebbe un impatto molto pesante e durevole sui mercati, ma da Mosca viene un 13% delle esportazioni mondiali di frumento e il blocco innesca a sua volta i primi acquisti di panico, un principio di accaparramento da parte dei paesi più dipendenti dall’estero per il fabbisogno – il più importante di questi è l’Egitto. I prezzi salgono ulteriormente. Al blocco di Mosca seguono misure analoghe nello spazio post-sovietico, da parte di Ucraina (altro importante esportatore) e Kazakhstan. In Mozambico, a inizio settembre, esplodono i primi moti di disperazione, le rivolte del pane, dopo un aumento dei prezzi del 30% nel giro di ventiquattro ore.

In realtà è un anno particolarmente sventurato per l’agricoltura, ai disastri russi seguiranno piogge anomale e danni alle colture in India, con una fiammata dell’inflazione alimentare e ricorso alle importazioni addirittura dall’odiato Pakistan; raccolti mediocri negli Usa (che da soli valgono più della metà dell’export mondiale di grano) e forti tensioni in Messico; cattivi raccolti in Indonesia.

Da metà autunno il petrolio ricomincia la sua cavalcata, assieme ai metalli (rame in particolare), sull’onda della ripresa Usa. A questo punto si profila la manovra della Federal Reserve, dall’impatto fortemente inflazionista.

(1. continua)

Andrea Caternolo [email protected]

La geopolitica di Damasco: tra ambizioni e problemi

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Il 2011 si è aperto per la Siria con una serie di nuovi dilemmi. Il regime di Bashar al-Assad, da tempo in cerca di un ruolo più centrale nella definizione degli equilibri regionali, si è trovato a confrontarsi con l’onda tellurica degli eventi che ha colto impreparati tutti i regimi arabi. Ecco quali sono le prospettive per Damasco

 

AMBIGUITA’? – Il vuoto di potere regionale che affligge il mondo arabo e musulmano dalla caduta del regime di Saddam Hussein e l’affacciarsi sulla scena di molti aspiranti egemoni non perfettamente in grado di farsi riconoscere da tutti gli altri attori come tali, ha fatto montare negli ultimi anni le ambizioni siriane sulla possibilità di eleggersi a nuovo “faro” della regione – ma soprattutto del mondo arabo – rispolverando niente più che uno dei principali e più datati cavalli di battaglia della propaganda baathista, che vede la Siria come fulcro naturale della “arabità”. Al contempo, tuttavia, numerose difficoltà interne hanno imposto al regime una discreta cautela nel muoversi sullo scacchiere regionale, facendogli prediligere una politica estera improntata alla multidirezionalità – una sorta di riproduzione meno strutturata della dottrina turca “0 problemi con i vicini” – che serve al regime per prendere tempo di fronte ai dilemmi sul futuro assestamento della regione. La Siria infatti nell’ultimo periodo ha rafforzato le sue relazioni con il Golfo, con l’Iran, con la Turchia e – sebbene sotto il segno dell’ambiguità – anche con i paesi occidentali. La gestione della crisi politica del vicino Libano, che nelle ultime settimane ha portato alla caduta del governo filo-occidentale di Saad Hariri e ad uno spostamento di maggioranza a favore della coalizione capeggiata dal partito di Hezbollah – direttamente sostenuto dal regime di Bashar al-Assad –è esemplificativa del pragmatismo che modella la politica estera siriana. Sul piano strutturale l’obiettivo della Siria, costretta dopo la “rivoluzione dei Cedri” del 2005 a rimuovere il controllo militare che esercitava sul Libano fin dal 1976, è quello di riprendere ad avere quanto meno una preminente influenza politica sul paese. Nel perseguire questo scopo, Bashar al-Assad ha mantenuto un tavolo privilegiato con l’Arabia Saudita, anch’essa direttamente coinvolta negli affari interni del Libano per la vicinanza con la famiglia Hariri e per i suoi ingenti investimenti nel settore dell’edilizia libanese; contemporaneamente il presidente siriano si è mosso in modo da non urtare i suoi rapporti con l’Iran, ideologicamente e politicamente legato all’Hezbollah libanese. La Siria ha strettamente bisogno dell’Arabia Saudita per motivi principalmente economici. Le relazioni commerciali tra i due paesi sono nella fase più fiorente della loro storia (nel 2010 gli scambi hanno raggiunto i 2 miliardi di dollari annui) e anche gli investimenti sauditi in Siria sono cresciuti notevolmente.

 

I RAPPORTI CON TEHERAN… – Dall’altro lato, tuttavia, il regime siriano, legato da un duplice filo di alleanza e rivalità con Teheran, sembra orientata a voler mantenere salda la relazione con il regime degli Ayatollah. Le ambizioni egemoniche iraniane in realtà disturbano Damasco, che di certo non ha gradito l’ovazione sciita con cui Ahmadinejad è stato accolto in Libano nell’Ottobre 2010 (anche perché è proprio a partire dal Libano che la Siria vorrebbe accrescere il suo potere geostrategico) ed è rassicurata dalle sanzioni internazionali che almeno per il momento pongono un freno all’ascesa iraniana. Tuttavia la Siria sembra essere cauta al cospetto dell’Iran, timorosa di poter perdere eventuali ricadute positive dipendenti dalla ascesa egemonica di Teheran.

 

E CON WASHINGTON – Sul versante occidentale il regime siriano ha cercato negli ultimi anni di normalizzare anche le relazioni con USA e Unione Europea. La rinomina dell’ambasciatore americano a Damasco nel febbraio 2010 (che era stato ritirato nel 2005 a seguito dell’omicidio dell’ex premier libanese Rafic Hariri, di cui la Siria fu ritenuta mandante) è stato, se non un segno di disgelo delle relazioni USA-Siria, quanto meno un forte riavvicinamento. Anche in questo contesto è bene sottolineare che la riconciliazione non è stata tanto orientata dagli USA ma piuttosto dalla Siria. Sul piano economico interno, infatti, il regime ha negli ultimi anni aperto moltissimo alla liberalizzazione e al settore privato, mettendo in pratica una serie di riforme tese ad attirare sempre più investimenti da parte dei paesi occidentali. Grazie alla recente apertura economica il tasso di crescita del 2010 è stato del 4% (così anche nel 2009). Se però in questo momento alla Siria non conviene inimicarsi troppo l’Occidente, tuttavia, la normalizzazione delle relazioni non è stata priva di ambiguità. Gli USA infatti non accettano che Damasco continui a finanziare Hezbollah e Hamas, entrambi ritenuti dall’amministrazione americana gruppi terroristici (Obama ha infatti rinnovato nel marzo 2010 il Syria Accountability Act, che prevede una serie di sanzioni economiche e diplomatiche contro il paese) e la cosa non piace di certo neppure a Israele, che più volte di recente ha prospettato la possibilità di un confronto militare aperto.

 

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LE QUESTIONI INTERNE – Sul piano interno, nonostante la crescita economica positiva degli ultimi anni, i problemi non mancano. Con le rendite petrolifere in calo costante da oltre 10 anni e le stangate che i cambiamenti climatici stanno dando all’agricoltura, principale settore produttivo del paese, la Siria ha sul tavolo una serie di sfide non poco impegnative, cui ha cercato di rispondere con l’adozione dell’economia sociale di mercato. A ciò si aggiunge una popolazione giovanissima (il 34,7% della popolazione ha meno di 15 anni) e in rapida crescita che si confronta con un tasso di disoccupazione quasi al 10% (non elevatissimo ma consistente).

 

RISCHI? – Il malcontento della popolazione nella repubblica siriana non è differente da quello del resto delle piazze arabe che in questi giorni stanno facendo il giro delle TV mondiali e la natura repressiva del regime non ha fatto da tampone all’effetto contagio della protesta: da due giorni infatti circolano su Facebook appelli a manifestazioni contro il governo di Bashar al-Assad. I vertici del partito Baath non si differenziano certo dagli standard degli regimi arabi autoritari sia per l’alto tasso di corruzione sia per i benefici di cui godono le élites politiche. Certo, qualora le proteste esplodessero anche nelle piazze siriane, la risposta dei militari sarebbe dura e devastante. Tuttavia è chiaro anche al regime che; se il pugno di ferro potrebbe inibire l’esplosione del malcontento, l’agenda delle riforme sociali non potrà essere procrastinata ancora per molto.

 

Marina Calculli

L’Egitto visto da qui

Focus Egitto – Proseguiamo il nostro dialogo tra giovani mediterranei, per provare a capire meglio come i nostri coetanei egiziani vivano questo momento. “A cosa serve la tua vita se non puoi lasciare un’impronta in questo mondo?”: intervista a uno studente egiziano sulle sommosse che stanno scuotendo il regime di Mubarak

MOHAMED OMAR è un ragazzo egiziano di ventotto anni. Dopo la laurea in economia e commercio è partito per il nostro paese con un obiettivo: assicurarsi un futuro stabile, degno, all’altezza delle sue capacità e aspettative. Un sogno negato alla maggior parte dei suoi coetanei egiziani. Arrivato a Perugia, ha frequentato brillantemente l’Università per Stranieri, laureandosi in Lingua e cultura italiana.

Il Caffè lo ha incontrato per parlare della sollevazione popolare che sta cambiando la storia dell’Egitto e del Medio Oriente. Sulla portata epocale della crisi egiziana non ci sono dubbi: rappresenta un punto di non ritorno per la vita politica egiziana e un potenziale fattore di destabilizzazione per tutta l’area mediorientale, dove l’Egitto di Mubarak rappresenta la testa di ponte del sistema di alleanze americano nonché il termometro delle relazioni arabo-israeliane.

Mohamed non ama i giri di parole, è laconico e diretto nell’esprimere le sue idee. Lo sguardo è sicuro, le opinioni, taglienti, sono espresse con fermezza. La voce non tradisce particolari emozioni, se non quando rivela la rabbia rispetto alla condizione di milioni di egiziani che vivono sotto la soglia di povertà e la frustrazione di una generazione, la sua, formata da studenti qualificati ma senza prospettive.

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L'INTERVISTA

Caffè: Mohamed, è un piacere poter raccogliere le tue impressioni su quello che sta succedendo in Egitto. Quali sono le tue sensazioni rispetto agli eventi degli ultimi giorni?

Mohamed: Provo dolore per i miei connazionali immolatisi prima dell’inizio della rivolta e per quelli caduti durante gli scontri (NDR almeno cento, forse 150, come riportato da autorevoli agenzie di stampa internazionali) e sono preoccupato per i miei cari. Per sedare la rivolta, per evitare che l’informazione circoli liberamente, il governo ha tagliato internet e anche le comunicazioni per alcune compagnie di telefonia mobile, quindi le notizie arrivano confuse e frammentate. Ma oltre al dolore e alla preoccupazione quello che sento è un profondo orgoglio e rispetto per il popolo egiziano che si sta sollevando per cambiare la propria condizione.

Caffè: A cosa ti riferisci?

Mohamed: Mi riferisco al fatto che milioni, forse decine di milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà. Il nostro è un paese potenzialmente ricco, abbiamo molte risorse: i porti, il turismo, un’agricoltura fiorente, siamo autosufficienti in campo energetico. Ma i salari rimangono bassissimi mentre l’inflazione è alle stelle.

Caffè: La stampa internazionale pone l'accento sul fatto che il governo ha bloccato l’inflazione grazie al calmieramento dei prezzi dei prodotti di base.

Mohamed: Non è così, o comunque questo corrisponde solo parzialmente alla realtà. I prezzi continuano a fluttuare; per farti un esempio, i miei genitori mi hanno detto che due settimane fa il prezzo di un chilo di pomodori ha superato la soglia dei due euro, in linea con i prezzi italiani. Ma i salari egiziani sono più di dieci volte inferiori a quelli italiani. Oggi il dollaro vale sei lire egiziane, l’euro otto, ma dieci anni fa la nostra moneta valeva il doppio. E comunque anche la manipolazione artificiosa dei prezzi rivela la debolezza del governo, che non può permettere che il mercato determini i prezzi con la naturale interazione tra domanda e offerta.

Caffè: La povertà diffusa è l’unico problema?

Mohamed: La povertà è un problema enorme. Chi ha un lavoro vede il proprio stipendio dissolversi già alla seconda settimana del mese. Le paghe sono assolutamente inadeguate rispetto al costo della vita. Ma povertà ed eccessivo costo della vita non sono l’unico problema. Una delle più grandi questioni irrisolte riguarda la situazione di milioni di giovani che non riescono a trovare un lavoro.

Caffè: Qual è l’ampiezza di questo fenomeno?

Mohamed: Si tratta di un fenomeno che ha una portata enorme, la disoccupazione interessa un giovane su due e il governo non ha adottato nessuna misura per contrastarla. Le risorse del paese non sono usate per creare lavoro: una parte viene assorbita dalle imprese straniere che effettuano investimenti in Egitto senza che ci sia una ricaduta positiva sul paese. Un’altra parte rilevante viene usata per mantenere la polizia che protegge Mubarak e il suo entourage. Le privatizzazioni selvagge degli ultimi anni non hanno fatto che aggravare la situazione.

Caffè: La disoccupazione riguarda solo i giovani o colpisce tutti gli egiziani?

Mohamed: Il tasso di disoccupazione generale si attesta ufficialmente poco oltre il 10%. A prescindere dall’attendibilità di questi dati, quello che noi egiziani percepiamo è che, per quanto riguarda i giovani, metà di essi siano disoccupati. Non si parla d’altro. In Egitto molti dei miei amici non hanno prospettive, io stesso ho preferito cercare la mia strada altrove, il mercato del lavoro è apparentemente saturo. I giovani sono disperati e le proteste di questi giorni sono portate avanti proprio da questa massa di disoccupati senza un futuro. A cosa serve la vita se non puoi lasciare un’impronta in questo mondo?

Caffè: Eppure la stampa internazionale descrive il quadro egiziano come un caso di relativa prosperità nel contesto arabo.

Mohamed: Il regime di Mubarak è amico dell’Occidente, di cui fa gli interessi in campo politico, garantendo la pace con Israele, ed economico, aprendo agli investimenti stranieri. Se la stampa occidentale dipinge la situazione egiziana in questo modo, è solo per legittimare la presenza di un dittatore in un paese alleato. Le statistiche sul PIL non tengono conto dell’ingiusta distribuzione della ricchezza che si ha nel mio paese. Le risorse sono in mano a un’élite formata da poche persone. Dall’altra parte c’è la società vera, composta anche da milioni di affamati. Possiamo schematizzare la società egiziana dividendola in alcune classi.

Ci sono i contadini, che vivono per lo più lungo il Nilo e sono in gran parte analfabeti, perciò controllabili. Vivono in un mondo chiuso, non si rendono conto della loro miseria, perciò sono tradizionalmente favorevoli a Mubarak. Coltivando i campi riescono a sostenersi, a sopravvivere con i frutti del loro lavoro, e questo è per loro sufficiente; non li preoccupa il fatto che siano altri a decidere della loro vita, e i problemi delle altre classi non li riguardano.

Come ho già detto, c’è poi un esercito di affamati che vive sotto la soglia della povertà.

C’è una classe media, creata ai tempi di Nasser, che si sta riducendo e appiattendo verso la povertà. Prendiamo una famiglia del ceto medio: vive in città, il padre ha un lavoro discreto nell’amministrazione. I suoi figli però stentano a trovare lavoro, quindi a uscire di casa, a rendersi autonomi. Hanno i mezzi culturali per aspirare a una posizione decente, spesso sono qualificati, ma non hanno prospettive. Le proteste provengono innanzitutto da questa classe, che non accetta l’assenza di possibilità. In questi giorni lo scontro generazionale è cessato, perché anche i genitori si sono resi conto che la situazione è insostenibile. Anche la tradizionale contrapposizione tra campagna e città è venuta meno, i numeri delle manifestazioni parlano chiaro, tutto il popolo vuole un cambiamento.

Caffè: Vedi un legame tra la rivoluzione tunisina e quello che sta succedendo in Egitto?

Mohamed: Certamente. Innanzitutto il background culturale, religioso e linguistico è lo stesso. Inoltre i due paesi hanno in comune l’assenza di democrazia, la presenza di regimi longevi e autoritari, la disoccupazione giovanile, l’inflazione ecc. Grazie a internet e ad Al Jazeera le notizie sulla rivoluzione tunisina sono arrivate in Egitto. Anche gli egiziani, di solito abituati e rassegnati alla sottomissione, hanno preso coraggio. La gente non ha più paura e sfida apertamente il governo.

Caffè: Al di là degli eventi delle ultime settimane, che ruolo ha avuto l’opposizione in questi anni?

Mohamed: Nell’ultimo decennio la manifestazione di opinioni avverse al regime era ammessa, ma era destinata a non produrre alcuna conseguenza. In pratica si poteva criticare liberamente il regime, ovviamente con accortezza, ma mai questo avrebbe prestato ascolto alle richieste della gente. L’opposizione è stata combattuta e sedata attraverso la propaganda di regime. L’unico movimento sempre fedele a se stesso nell’opposizione al governo è stato quello dei Fratelli Musulmani; sin dall’ascesa al potere Mubarak l’ha temuto e per questo ha sempre mantenuto lo stato di emergenza nazionale (NDR vigente dal 1981, data dell’assassinio dell’ex presidente di Sadat e dell’ascesa a presidente di Mubarak) che permette di usare il pugno duro contro gli oppositori. La cricca di Mubarak non si cura minimamente dei problemi del paese, della fame, della disoccupazione, dell’inflazione. Al massimo cerca di limitare le situazioni negative affinché il malcontento non sfoci in un’aperta opposizione che possa metterne a rischio il potere.

Caffè: Quale ruolo ha il parlamento? Non rappresenta anche le istanze dell’opposizione?

Mohamed: Il Parlamento è uno specchietto per le allodole. Serve a far credere all’opinione pubblica occidentale, di fronte alla quale le classi politiche americana ed europea devono giustificare l’amicizia con la dittatura di Mubarak, che questo regime è aperto, che sta confluendo verso i valori democratici. Ma non è così, il parlamento non svolge alcuna funzione. L’opposizione è sterilizzata dal monopolio dei media; le elezioni sono truccate. La vera opposizione viene dai movimenti extraparlamentari, come Kefaya, il Movimento politico per il cambiamento, che si oppone al passaggio di consegne da Hosni Mubarak al figlio Gamal ventilato nei mesi scorsi. C’è il movimento del 6 aprile, nato nel 2008 in reazione al forte aumento dei prezzi dei beni di prima necessità che si verificò in quell’anno. C’è il partito di El Baradei, una figura di prestigio a livello internazionale che si auspica una transizione democratica. E ci sono i Fratelli musulmani.

Caffè: A proposito dei Fratelli Musulmani, pensi che rappresentino davvero un pericolo per la società egiziana, come descritto da parte dei media occidentali? Se arrivassero al potere, nel dopo Mubarak, cosa significherebbe per il futuro del paese?

Mohamed: Credo che quello della presunta minaccia rappresentata dai Fratelli Musulmani e dai movimenti terroristici islamici sia un tema utilizzato strumentalmente dai politici occidentali per legittimare, di fronte all’opinione pubblica cui devono rispondere, il protrarsi della dittatura di Mubarak.

Caffè: La strage dei copti non è indice dell’inaffidabilità dei gruppi politici di matrice islamica?

Mohamed: Onestamente metto in dubbio la ricostruzione che è stata data dalla stampa rispetto a questo drammatico avvenimento. Non sono sicuro che siano stati gruppi terroristici di matrice islamica. Ho il sospetto che i mandanti siano altri, che sia un episodio creato ad arte per giustificare l’esistenza del regime di Mubarak, il paladino della lotta ai gruppi terroristici, di fronte ad americani ed europei. In questi giorni di caos totale, in cui le forze dell’ordine non hanno ben sotto controllo la situazione, perché i gruppi fondamentalisti non ne approfittano per fare altre stragi di cristiani, se la loro eliminazione è davvero il loro obiettivo? Gli egiziani cristiani e musulmani hanno sempre convissuto pacificamente. Da quanti anni c’è l’Islam in Egitto? Mille e trecento. Eppure ci sono ancora almeno dodici milioni di cristiani in Egitto.

Caffè: Ti auspichi che siano gruppi di matrice religiosa a succedere a Mubarak?

Mohamed: Non è questo il punto. Credo che la mia religione, quella musulmana, non rappresenti alcun ostacolo per la vita politica di un paese. La religione è come un semaforo, così come questo regola il traffico, essa regola il comportamento delle persone. Il precetto “non rubare” deriva da una norma di senso comune ma anche da un principio di origine religiosa. Non c’è niente di male se i politici seguono un comportamento ispirato all’etica della religione islamica. L’importante è che anche le altre comunità religiose siano rispettate e salvaguardate, com’è sempre stato per i cristiani.

Caffè: La situazione dei cristiani egiziani preoccupa l’opinione pubblica occidentale. Come descriveresti la convivenza tra cristiani copti e musulmani in Egitto?

Mohamed: Pacifica. Prendi il mio esempio. Sono musulmano sunnita ma ho frequentato una scuola che si trovava nel cortile di una chiesa copta. Molti miei compagni di classe erano cristiani copti. Molti miei amici sono copti.

Caffè: E questo non è dovuto anche al carattere laico del regime di Mubarak?

Mohamed: Il regime di Mubarak dura da trent’anni, ma non è eterno. Già prima ci sono stati secoli di convivenza pacifica tra cristiani e musulmani. Chi protegge i cristiani non è Mubarak, ma è il popolo egiziano.

Caffè: Credi che Mubarak riuscirà a tenere in pugno la situazione? Quale evoluzione prevedi?

Mohamed: Fare previsioni è davvero molto difficile. So solo che la l’incertezza prevarrà a lungo. Milioni di persone, come me, sono nate sotto Mubarak e non hanno mai conosciuto altro regime. Non siamo un popolo abituato ai cambiamenti. Gli egiziani non sono abituati a decidere per loro stessi. Negli ultimi cinquant’anni, sebbene sia venuta meno l’influenza dei regimi coloniali, siamo sempre stati governati da militari. La leadership egiziana si è sempre affermata con il potere delle armi, mai come espressione della volontà del popolo. Sempre che sia un obiettivo davvero raggiungibile, la distanza tra l’Egitto e la democrazia è enorme. Ci vorrebbe un processo di transizione graduale.

Caffè: A prescindere dalla crisi attuale, il malcontento verso Mubarak è sempre stato così forte, anche se magari sommerso?

Mohamed: No, la situazione economica del paese è precipitata negli ultimi dieci anni. Prima la gente sosteneva il presidente; ma nell’ultimo decennio i consensi sono scesi inesorabilmente, anche se ufficialmente tutto andava bene e il presidente veniva eletto con percentuali altissime. I fenomeni di cui ti ho parlato, come l’inflazione, la povertà, la disoccupazione, la corruzione, sono diventati più consistenti negli ultimi anni. Mubarak è invecchiato, ha ottantadue anni, non ha più la forza per dirigere un paese di ottanta milioni di persone. Progressivamente il potere, pur rimasto simbolicamente nelle sue mani, è passato al suo entourage, alla polizia di regime, a una serie di famiglie ricche, a uomini d’affari corrotti e senza scrupoli che si sono arricchiti indebitamente. Chi ne ha fatto le spese è la gente comune, che ora non ne può più. La rabbia è tanta, il paese sta scoppiando, una delle sfide più impegnative in questo momento è quella di contenere la rabbia del popolo egiziano.

Caffè: Qual è il ruolo dell’esercito?

Mohamed: L’esercito ha peso fondamentale. I soldati hanno il potere delle armi, quello egiziano è uno degli eserciti più numerosi al mondo, il più forte nel mondo arabo.

Caffè: Mubarak non si è preoccupato di tenerlo a bada?

Mohamed: Certo, e non dimenticare che Mubarak viene dall’esercito. Ma nel corso degli anni si è servito sempre di più della polizia per proteggersi e sedare le rivolte. L’esercito è ben visto dalla popolazione, mentre la polizia di regime è odiata. Ma, a prescindere dall’appoggio o meno dato a Mubarak dall’esercito, questo potrebbe comunque fare ben poco contro la rivolta di milioni di persone disperate e pronte al sacrificio.

Caffè: E’ la fine per Mubarak?

Mohamed: il suo primo errore strategico è stato concedere la possibilità che si tenessero elezioni parlamentari nel 2005. Per quanto falsate e mosse da fini strumentali, esse hanno fatto germogliare nell’inconscio del popolo egiziano l’idea che un cambiamento è possibile. Venendo al 2008, in concomitanza con la crisi alimentare mondiale, si è verificata una sollevazione popolare molto forte, di cui si è parlato in tutto il mondo. La mia città, El-Mahalla El-Kubra è stata l’epicentro della rivolta. Vi si trova il più grande impianto tessile di tutto l’Egitto, dove lavorano decine di migliaia di operai. Chiedevano aumenti perché il loro stipendio raggiungeva a malapena il corrispettivo di cinquanta euro al mese. Le proteste sono state represse con la forza ma hanno lasciato un ricordo indelebile nelle menti di molti egiziani. Ora, grazie alle notizie giunte dalla Tunisia, la gente si è fatta coraggio ed è decisa a cambiare la storia.

 

La Redazione (intervista a cura di Mattia Corbetta)

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Focus Nord Africa e Medio Oriente

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Il Caffè segue con attenzione le vicende del Maghreb: ecco in evidenza gli articoli che i nostri autori hanno proposto nei giorni passati. Un Focus importante, che continueremo ad aggiornare per provare a dare una visione chiara e diretta di quello che sta succedendo e di quali siano i punti chiave di queste difficili vicende. Cliccate sui titoli per leggere le nostre analisi

La resurrezione del colonnello – 16/03/2011, di Lorenzo Nannetti

Libia – Nei giorni scorsi la controffensiva di Gheddafi contro l’est ribelle del paese è proseguita e le forze fedeli al Colonnello appaiono aver ripreso i nodi petroliferi di Ras Lanuf e Marsa el-Brega, avanzando ulteriormente verso est. Le chiavi della superiorità dei lealisti sono molteplici, e a nessuna al momento gli insorti possono opporre una sufficiente contromisura. Nel suo piccolo, ad analizzarla è una lezione di scienza militare

Crisi libica: una “patata bollente” o un'occasione? – 14/03/2011, di Paolo Iancale

L’attuale scenario di crisi in Libia sta portando a galla alcuni dubbi relativi alla reale efficacia del tradizionale sistema di sicurezza internazionale basato su organizzazioni di matrice occidentale. Gli avvenimenti che si sono susseguiti dal 2001 in poi, nonché la crescente multi-polarizzazione del sistema internazionale, acuiscono la crisi di fiducia in seno agli organi transnazionali che abitualmente percepiamo come “guardiani” dell’ordine internazionale. La crisi libica potrebbe portare a consolidare i dubbi esistenti oppure costituire una possibilità di riscatto per tali organi

E ora, quali scenari? – 12/03/2011, intervista al Gen. Cascone di Chiara Maria Leveque

Dopo lo speciale “I perchè del Maghreb in rivolta”, il Gen. Cascone ci ha concesso un'intervista, in cui a 360 gradi delinea qualche ulteriore punto oscuro e prova ad ipotizzare scenari per il futuro, ovviamente per il breve periodo. Quali sviluppi per la Tunisia? Quale ruolo per i militari e i Fratelli Musulmani in Egitto? La Libia sarà un nuovo Afghanistan? Come affrontare il tema immigrazione? Cerchiamo di fare luce su queste e altre questioni

La svolta delle democrature? – 11/03/2011, del Gen. Saverio Cascone

Ultima parte del documento in esclusiva del Gen. Cascone. Tra piazze e fasi di transizione, è possibile sin d'ora indentificare alcuni fili rossi comuni che hanno caratterizzato le rivolte nei vari Paesi, il ruolo della politica e della religione, le conseguenze possibile e i diversi aspetti ancora da definire. Infine: cosa vuol dire “democrature”? Lo scopriremo solo leggendo…

I perchè del Maghreb in rivolta – III – 11/03/2011, del Gen. Saverio Cascone

Terza puntata del documento del Gen. Cascone, che in esclusiva illustra le dinamiche che hanno portato agli eventi nel Maghreb delle ultime settimane. Dopo Egitto e Tunisia, come tutti sappiamo è toccato alla Libia. Come si è arrivati alla cronaca degli ultimi giorni? Ripercorriamo come tutto ha avuto inizio in Libia, allargando il cerchio anche ad altre situazioni meno note: Algeria, Gibuti, Giordania, Bahrein

I perchè del Maghreb in rivolta II – 10/03/2011, del Gen. Saverio Cascone

Seconda puntata del focus speciale del Gen. Cascone sugli storici eventi di queste settimane. Si torna in Egitto: in un'unica analisi, ripercorriamo le prime scintille di rivolta, i dietro le quinte, le motivazioni delle decisioni più rilevanti della piazza e di Mubarak, le ultime disperate mosse del Faraone e i primi provvedimenti del post-Mubarak.

I perchè della rivolta del Maghreb I – 08/03/2011, del Gen. Saverio Cascone

Focus – Pubblichiamo in esclusiva, in quattro puntate, un documento del Generale Saverio Cascone, che con estrema chiarezza riesce ad illustrare nel suo complesso quanto sta avvenendo in Maghreb e nel Medio Oriente, mostrando i sottili fili rossi che stanno dietro le trame degli eventi di queste settimane. Una lettura imperdibile, per cogliere le dinamiche più profonde dei fatti che stanno cambiando la storia di quelle regioni, e non solo. Dopo una breve panoramica generale, partiamo oggi dalla Tunisia

Drogati!” Così parlò Gheddafi – 28/02/2011, Stefano Torelli

Libia – Perchè Gheddafi ha apostrofato i ribelli con il termine “drogati”? Se la parola può apparire come una semplice invettiva da parte di un dittatore accerchiato che cerca di mostrare i muscoli, in realtà nel contesto arabo e islamico il vocabolo ha un'accezione molto chiara e che deriva da una lunga storia. Che vi spieghiamo in questo articolo

Non solo Formula 1 – 26/02/2011, di Lorenzo Nannetti

Bahrein – Mentre Gheddafi continua nella sua resistenza a oltranza facendo sprofondare la Libia nella guerra civile, esistono anche altri focolai di rivolta in Nord Africa e Medio Oriente. Ne è un esempio il Bahrein, che però in Italia viene ricordato solo in seguito alla notizia dell’annullamento del primo GP di Formula 1 dell’anno. Il piccolo paese del Golfo Persico andrebbe osservato invece per motivi ben più rilevanti…

Algeri può attendere – 25/02/2011, di Mattia Corbetta

Algeria – Dopo Tunisia, Egitto e (forse) Libia, quale sarà il prossimo regime a cadere? Nonostante le previsioni di molti media occidentali, in Algeria il potere di Bouteflika sembra ancora saldo e non pare destinato a crollare da un momento all’altro. Il Governo in carica può vantare infatti alcuni meriti in campo sociale, oltre al fatto di aver riportato la pace dopo anni di guerra civile.

Giù la maschera, Colonnello Gheddafi – 24/02/2011, di Stefano Torelli

Libia – Quello che accade in Libia è sotto gli occhi di tutti. Al di là dei drammatici eventi di queste ore, proviamo ad analizzare alcuni aspetti fondamentali. Il significato delle parole di Gheddafi, il carattere prettamente politico della rivolta, i rischi dei possibili scenari futuri. In ogni caso, comunque vada a finire, la strada del Colonnello – passato negli anni da leader di uno Stato canaglia a interlocutore ottimale di diversi Stati – è ormai segnata, soprattutto dal punto di vista dei rapporti internazionali

Fuga dalla Tunisia: perchè adesso? – 22/02/2011, di Chiara Maria Leveque

Tunisia – Si fa sempre più tesa la situazione a Lampedusa e la preoccupazione cresce di ora in ora in Italia, soprattutto alla luce delle evoluzioni in Libia. Tra le migliaia di migranti che rappresentano il volto forse più drammatico di questo periodo di fermento nel Maghreb, ci sono anche moltissimi tunisini. Ma chi sono le migliaia di persone in fuga dalla Tunisia?

L'ora di Tripoli – 21/02/2011, di Lorenzo Nannetti

Libia – Le rivolte popolari colpiscono Benghazi e Tripoli, mercenari assoldati dal regime e aviazione sparano sulla folla, il figlio di Gheddafi Saif minaccia guerra civile mentre l’esercito si spacca. La situazione in Libia assomiglia poco alla pacifica Piazza Tahrir egiziana, e ancora meno la possibile evoluzione degli eventi…

Un milione di “no” per il Faraone – 21/02/2011, di S.A.

Pubblichiamo l'ultima parte del racconto di S.A., la ragazza egiziana che ci ha inviato la sua testimonianza diretta della rivolta egiziana. La cronaca che ci offre S.A. ripercorre gli ultimi giorni della crisi, esattamente fino a poco prima delle dimissioni definitive di Mubarak, ormai ex “faraone”.

Iran = Egitto? – 16/02/2011, di Lorenzo Nannetti

Allargando il cerchio: Egitto e Iran. Dopo il Cairo e la cacciata di Mubarak, sono iniziate proteste anche a Teheran, Isfahan e altre città iraniane, chiedendo che ad andarsene sia Ali Khamenei. Iran come Egitto dunque? Prima di lasciarsi prendere da facili entusiasmi, è bene ricordare alcune importanti differenze. Il regime degli ayatollah non è come quello del “faraone” Mubarak.

Si vis pacem para bellum? – 14/02/2011, di Lorenzo Nannetti

Allargando il cerchio: Egitto e Israele. A nord e a sud di Israele sono avvenuti grandi rivolgimenti. Il governo di Mubarak è stato rovesciato da una pacifica rivolta della popolazione appoggiata dall’esercito, mentre in Libano Hezbollah ha ottenuto un governo a sé favorevole tramite la nomina di Miqati. Per Israele si intravedono nuovi conflitti all’orizzonte? Non ora, non necessariamente…

Ma quale modello turco? – 14/02/2011, di Stefano Torelli

Il paradigma del modello turco sembra essere uno dei prismi più gettonati per analizzare in prospettiva futura l’Egitto. Adesso che Mubarak si è fatto da parte (in misura più o meno spontanea…), cosa rappresenterebbe davvero il modello turco? Più che al modello attuale, rappresentato dal partito islamico al governo e messo a confronto con la Fratellanza Musulmana in Egitto, si dovrebbe ripercorrere la storia e tornare al 1980. Da lì partì il modello turco, con alcune similitudini con l’attuale Egitto

Quel venerdì 28, tra paure e speranze – 12/02/2011, di S.A.

Prosegue il racconto di S.A., ragazza egiziana che ha vissuto in prima persona gli eventi di questi giorni. La seconda puntata ci racconta di venerdì 28 gennaio, un giorno cruciale, in cui la rabbia dei manifestanti è letteralmente esplosa. Il Museo egizio in fiamme, i trentamila prigionieri usciti dalle carceri, il discorso notturno di Mubarak, che scarica il governo e ne fa un capro espiatorio. Sembra passato un secolo, sono solo quindici giorni. Di certo è un privilegio poter leggere una testimonianza così, e rivivere tappa per tappa quanto avvenuto per comprendere come si è arrivati alla storica giornata di ieri, che già segna la “Nuova era” dell'Egitto

Loro la vedono così – 11/02/2011, di Stefano Torelli

Lo scenario egiziano è in completa evoluzione. Le dimissioni di Mubarak sono cronaca, e già storia. Impossibile fare previsioni ora. È importante però notare come alcuni grandi attori internazionali guardino a quanto sta avvenendo. Ieri, nella prima parte di questa analisi, abbiamo visto il ruolo degli Stati Uniti. Oggi tocca ad altri tre grandi attori. E allora, occhi puntati su Israele, che si preoccupa, e sull'Iran, che gongola. L'Europa? Non pervenuta. E sì che il Mediterraneo era il Mare Nostrum…

Le cronache del Cairo – 11/02/2011, di S.A.

Dal Cairo – Pubblichiamo, in più puntate, una preziosa e toccante testimonianza sulla crisi che sta scuotendo l’Egitto, dove il regime del Presidente Hosni Mubarak, al potere da ormai trent’anni, sembra avere i giorni contati. Questa lettera, scritta da una giovane egiziana, è una coinvolgente cronaca delle sommosse arricchita da interessanti considerazioni di carattere politico, e giunge direttamente dall’Egitto, più precisamente dal Cairo, l’epicentro della rivolta. Ecco il racconto dei primi giorni della rivolta.

L'Enigma della Sfinge – 10/02/2011, di Stefano Torelli

Mentre in queste ore la situazione in Egitto si fa sempre più incerta (dapprima l'annuncio di dimissioni di Mubarak, poi mutato in un conferimento delle deleghe al vicepresidente Suleiman), ecco un'analisi in due puntate per capire che cosa potrà accadere nel mondo mediorientale. Dal Cairo si potrebbe scatenare un “effetto domino” in grado di spazzare via gli altri regimi autoritari della regione? E quale ruolo per i protagonisti esterni, a cominciare dagli Stati Uniti?

Un mese dopo – 09/02/2011, di Chiara Maria Leveque

Tunisia – Non solo Egitto… a quasi un mese dall'inizio della rivolta, torniamo a vedere quanto avviene in Tunisia. Cosa sta succedendo, dopo la clamorosa fuga di Ben Alì? Ripercorriamo velocemente le tappe della vicenda, e scopriamo le prime mosse del Governo di transizione, dedicate ai giovani e allo sviluppo delle zone più povere del Paese

Un nuovo cigno nero – 07/02/2011, di Andrea Caternolo

Vediamo quanto accade in Egitto sotto un'altra prospettiva. Tra le varie cause che hanno portato a questa rivolta, ce n'è una, meno immediata di altre, che coinvolge il mondo intero: il drastico aumento dei beni alimentari. Proviamo a capire, in due analisi distinte, le dinamiche che hanno portato a questa crisi nella crisi. E se volete capire anche il titolo… ve lo spieghiamo nel chicco in più

La fotogallery di Arabawy04/02/2011 – Redazione

Tramite la giornalista Paola Caridi (imperdibile, in questi giorni, il suo blog Invisible Arabs, una delle ricostruzioni live più puntuali, efficaci, chiare e dettagliate di quanto accade in questi giorni) condividiamo le foto della rivoluzione di Arabawy, uno dei blogger del Cairo più attivi, che chiede di diffondere i suoi scatti perchè si capisca cosa sta avvenendo.

L'Egitto visto da qui – 04/02/2011, di Mattia Corbetta

Proseguiamo il nostro dialogo tra giovani mediterranei, per provare a capire meglio come i nostri coetanei egiziani vivano questo momento di scontri e fermento nel loro Paese. “A cosa serve la tua vita se non puoi lasciare un’impronta in questo mondo?”: intervista a uno studente egiziano sulle sommosse che stanno scuotendo il regime di Mubarak.

 

Le paure di Tel Aviv – 03/02/2011, di Lorenzo Piras

Dalla Knesset, il Parlamento israeliano, e dalle strade di Gerusalemme e di Tel Aviv, si guarda con apprensione agli avvenimenti che hanno infiammato prima la Tunisia e ora stanno cambiando il volto politico del gigante nordafricano, l’Egitto. Il premier israeliano Netanyahu si è premurato di consigliare ai membri del suo governo un silenzio stampa riguardo gli avvenimenti del Cairo, ma nonostante la mancanza di dichiarazioni ufficiali non è difficile captare quali siano le impressioni, e le preoccupazioni, della leadership politica dello Stato ebraico.

 

La fine. E l'inizio? – 02/02/2011, di Marco di Donato

Nuovi scontri, quest'oggi, ma una certezza: il regno di Hosni Mubarak, anche se (forse) non nell'immediato, è ormai giunto al termine, dopo che anche l'esercito sembra ritenere legittime le proteste del popolo. È una svolta storica, una nuova pagina per l'Egitto e per tutto il Medio Oriente, anche se per ora l'incertezza regna sovrana, con tanti altri scenari (Siria, Giordania, Algeria, Yemen) in ebollizione.

 

Fuori Controllo – 30/01/2011, di Marco di Donato

Continuiamo a seguire gli eventi egiziani, anche raccogliendo alcune testimonianze dal Cairo. Due giorni di black-out, linee telefoniche staccate ed un intero paese senza connessione internet. Solo alcuni privilegiati, vicini ovviamente al PND di Mubarak, riescono ancora ad utilizzare i telefoni e a navigare sul web. Nel frattempo la protesta dilaga sempre più violenta ed apparentemente inarrestabile. Le poche e frammentate notizie che giungono all'orecchio dell'opinione pubblica danno solo una parziale idea del dramma che sta vivendo un'intera nazione.

Le nuove piaghe d'Egitto – 28/01/2011, di Marco di Donato

La cronaca di questi giorni, le tensioni, i morti, spiegano da soli il nostro titolo. E sullo sfondo, c'è qualcosa in ballo ancora più importante. La fine del mondo per gli egiziani potrebbe arrivare un anno in anticipo rispetto al 2012. Certamente la fine di “un mondo” quello del Faraone Mubarak vedrà la luce il prossimo autunno. Spiegare il 2010 dell'Egitto e provare ad immaginare il suo 2011 diventa difficile, a non dire impossibile, se non si tiene nel giusto conto l'enorme peso delle prossime elezioni presidenziali, quelle che vedranno salire in carica un nuovo presidente egiziano dopo i 30 anni di reggenza Mubarak.

 

Inoltre, vi proponiamo anche una riflessione più ampia su questo periodo turbolento che sembra colpire l'area mediterranea e che, nonostante contemporaneità e affinità, presenta peculiarità ben definite.

“Tunisizzazione” ed effetto domino: il significato delle parole – 19/01/2011, di Stefano Torelli

La crisi in Tunisia e i possibili risvolti nella regione: troppo spesso e con troppa faciloneria si tende a trattare la regione mediorientale e maghrebina come un tutt’uno. Ma non è detto che ciò che accade in un Paese abbia inevitabilmente ripercussioni sugli altri. Prima, bisognerebbe approfondire la natura di ogni attore regionale.

Inseriamo nel focus anche l'analisi su quanto avvenuto ad Alessandria d'Egitto nella notte di Capodanno: la strage di cristiani copti all'uscita da Messa, e le implicazioni dell'attentato sullo scenario egiziano, un mese dopo già completamente stravolto

Cristiani sotto attacco03/01/11, di Marina Calculli

L’autobomba esplosa nella notte di Capodanno ad Alessandria d’Egitto che ha provocato la morte di 21 cristiani all’uscita dalla messa di mezzanotte è solo l’ultimo anello di una catena d’odio religioso che sta drammaticamente cavalcando le fragili fratture della società in tutto Medio Oriente. In Egitto i cristiani copti costituiscono il 10% circa della popolazione: la violenza e le discriminazioni nei loro confronti, sintomo di un crescente antioccidentalismo, potrebbero causare problemi anche per la stabilità politica del regime di Mubarak?

Al seguente link potete infine trovare una schematizzazione dei gruppi che si oppongono a Mubarak (Fonte: Stratfor)

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La Redazione

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