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Fuga dalla Tunisia: perchè adesso?

Si fa sempre più tesa la situazione a Lampedusa e la preoccupazione cresce di ora in ora in Italia, soprattutto alla luce delle evoluzioni in Libia. Tra le migliaia di migranti che rappresentano il volto forse più drammatico di questo periodo di fermento nel Maghreb, ci sono anche moltissimi tunisini. Ma chi sono le migliaia di persone in fuga dalla Tunisia?

TUNISIA, TEMPISTICA DA CAPIRE – L’analisi di questi sbarchi merita un’attenzione particolare. In molti si interrogano sulla tempistica: perché scappare ora, a rivoluzione avvenuta, con un Paese che potrebbe affacciarsi alle soglie della democrazia, che potrebbe dare l'opportunità di modificare in maniera significativa lo le condizioni precedenti?

L’analisi è complessa. Fonti tunisine segnalano alcuni dati su cui vale la pena soffermarsi.

Molti dei tunisini che hanno intrapreso la via del mare in questi giorni, sognavano verosimilmente da anni una fuga dal Paese e certo è che, se prima ciò era severamente impedito dalle strette maglie dei controlli statali, il vuoto di potere lasciato da Ben Alì ha agevolato ogni possibilità di fuga.

Il Paese, intento a ricostruire il cuore della propria Nazione, non ha fatto in tempo a riprendere il controllo delle periferie, le quali non si sono fatte sfuggire la possibilità di inseguire il sogno italiano covato per anni.

E' stato inoltre riportato che, all’atto della fuga di Ben Alì, alcune carceri abbiano aperto le proprie porte e c’è certamente da temere che, sui “barconi della speranza” sbarcati a Lampedusa, vi siano detenuti in fuga dalla giustizia tunisina.

Ma andando oltre la eventuale conferma di queste informazioni, fonti di possibile allarme (o allarmismo), la questione da tenere in assoluta considerazione è comprendere chi realmente abbia diritto di godere della protezione offerta dal Diritto internazionale ai popoli in fuga da evidenti pericoli alla sicurezza personale.

Salta all’occhio come la maggior parte dei barconi sia composta da giovani uomini e non, come nel corso di altre crisi, da famiglie; tuttavia ciò non consente di poter trarre alcuna conclusione. L’unico dato certo è che l’Italia avrà un bel filo da torcere per poter ricostruire le storie personali di ognuno, in modo che eventuali fughe ingiustificate dalla Tunisia non eclissino le ragioni di chi, al contrario, un motivo per scappare ce l’ha davvero.

COME STA DAVVERO LA TUNISIA? – Sicuramente la speranza dell’ottenimento dello status di rifugiato politico o quantomeno di un visto per motivi umanitari, fa sì che si sprechino descrizioni della Tunisia come di un Paese in ginocchio, nel quale il caos regna sovrano e dove nessuno è in grado di ristabilire l’ordine.

Queste dichiarazioni non forniscono un reale quadro della situazione tunisina dove ancora si registrano focolai di protesta, ma dove la situazione è tornata pressoché alla normalità, con la riapertura delle scuole, delle università, con la fine degli scioperi e con il coprifuoco oramai cessato.

E se è vero che i governi italiano e francese ancora sconsigliano i viaggi nel Paese, essi segnalano altresì un notevole miglioramento delle condizioni di sicurezza, in particolare nella zona costiera, verso la quale la Francia si è assunta la responsabilità del nulla osta alla ripresa dei flussi turistici dei propri cittadini. 

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NUOVO ORDINE – È trascorso soltanto un mese dalla fuga di Ben Alì e il Paese sta già facendo tanto per ristabilire l’ordine e per affrontare questa nuova emergenza: da alcuni giorni l’esercito presidia il porto di Zarzis, principale punto di partenza dell’esodo di questi giorni e la volontà è quella di lavorare per far cessare i massicci flussi migratori.

Taïeb Baccouche (foto), portavoce del governo tunisino di transizione, dopo aver rifiutato offerte che avrebbero potuto avere un impatto forte sul contesto locale, come quella del Ministro Maroni di inviare contingenti di poliziotti italiani per fermare le partenze dalla Tunisia, ha più volte dichiarato che il Paese è assolutamente pronto a cooperare con il resto d’Europa e, ovviamente, con l’Italia, per trovare una soluzione adatta alla corretta gestione del problema.

La speranza è che l’innegabile emergenza che sta vivendo Lampedusa non distolga l’attenzione generale dal successo che Tunisia ed Egitto hanno ottenuto, in virtù della loro capacità di sradicare in pochi giorni governi decennali.

La speranza, ancora, è che la forte richiesta di democrazia, scaturita dalle piazze, si potrà concretizzare nella creazione di Istituzioni in grado di decide in maniera autonoma, senza alcun bisogno di imposizioni esterne, il miglior governo per il proprio Paese.

Chiara Maria Lévêque

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Corto circuito

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In Vietnam, una delle nuove “Tigri” asiatiche, il mercato dell’energia è stato tradizionalmente monopolio del governo. Negli ultimi vent’anni la scena economica del Paese ha visto spuntare complessi industriali come funghi, grazie ad un sistema d’incentivi a sostegno della crescita. Un sistema industriale in espansione ha bisogno però di infrastrutture che lo sorreggano. Nell’ultimo anno il numero dei blackout è schizzato alle stelle e la situazione inizia a essere preoccupante. Il Vietnam si trova dinanzi alla sfida di una riforma strutturale del settore energetico

VIETATO FERMARSI – Un’economia in corsa non può fermarsi per bere, ha bisogno di continuo carburante: dagli inizi degli anni ’90 il Vietnam si è sviluppato a ritmo galoppante e così la sua domanda di energia. Se, infatti, l’economia è cresciuta del 6.7% nel 2010, il fabbisogno di energia elettrica ha subito un incremento annuo di oltre il 20% nell’ultimo biennio. Il problema è che il sistema di generazione e gestione dell’energia riesce a far fronte solo a un aumento del 12.5% e per questa ragione il numero dei “vuoti di corrente” ha raggiunto un picco inaudito nell’estate 2010. A farne le spese sono stati principalmente i piccoli produttori, coltivatori e imprenditori delle zone rurali e più remote del paese, dove è più difficile far arrivare l’energia. Il dato più allarmante riguarda la distribuzione dei flussi energetici all’interno del paese: nel corso della scorsa estate molte province hanno registrato tagli nell’allocazione di energia, mentre la domanda è stata pienamente soddisfatta nelle cosiddette industrial zones, zone adibite allo sviluppo di complessi industriali, dove imprenditori esteri e locali godono di incentivi e sgravi fiscali.

COME STANNO LE COSE – Le cause principali sono di natura strutturale, economica e politica. Il Vietnam si presenta con un sistema di gestione e infrastrutture inadeguate ad ogni livello: nella produzione, nella trasmissione e nella distribuzione. La generazione di energia dipende solo per il 60% dagli impianti termici che utilizzano gas, carbone e petrolio. Infatti, nonostante il paese sia ricchissimo di gas e greggio, non è ancora presente una struttura per lo sfruttamento e per la lavorazione di queste risorse, tanto che il governo si limita a venderle e ricomprarle lavorate, con un impatto fortemente negativo sulla bilancia commerciale.

Il restante 40% della produzione totale è fornito da impianti idroelettrici, che in combinazione con l’instabilità della portata dei corsi d’acqua, accresce enormemente la volatilità dei volumi di energia prodotta.

Il governo controlla direttamente circa il 70% del mercato dell’energia attraverso tre colossi statali: EVN per l’elettricità, Petrovietnam per il petrolio e Vinacoal per il carbone. EVN è gestisce i sistemi di distribuzione e trasmissione attraverso otto grandi compagnie, mentre gran parte della generazione è affidata a una cinquantina di subcontactors. La forte ingerenza governativa nel settore e la mancanza di concorrenza hanno creato un disincentivo sia verso gli investimenti negli impianti e nell’accumulo di riserve di energia, sia verso l’ampliamento e la manutenzione della rete elettrica. L’elettrificazione nel 2007 ha raggiunto il 95% del paese, ma l’obsolescenza della rete è causa di sprechi sempre più elevati.

TENTATIVI DI RIFORMA – Dinanzi ai primi shortages e tagli di corrente, il governo ha reagito siglando accordi d’importazione con Cina e Laos, ma il ritmo incalzante della crescita ha palesato la necessità di una riforma strutturale. Nel 2007 il governo ha varato un pacchetto di interventi per favorire lo sviluppo del sistema energetico estendendo il processo di equitization (offerta pubblica e vendita delle azioni) anche a EVN.

Con il Sixth Development Plan del 2007, il governo ha calcolato che per far fronte alla domanda fino al 2015 il sistema richiederà investimenti strutturali per un totale di 80 miliardi di US$, ai quali EVN potrà contribuire solo per il 40%. Il piano prevede di introdurre gradualmente investitori privati nella produzione e di sviluppare un mercato concorrenziale per la determinazione del prezzo dell’energia. Questo porterà alla riduzione della quota di mercato di EVN a 37% e renderà autonoma la rete di centrali sotto il suo controllo. In una prima fase EVN manterrà il monopolio sui mercati della distribuzione e della trasmissione, che poi verranno a loro volta liberalizzati entro il 2025.

Dunque una richiesta di capitale estero per una maggiore efficienza, testimoniata anche da politiche di collaborazione con partner esteri o privati come joint ventures, progetti a debito, alleanze, ma che tuttavia rimane inadeguata a causa di forti resistenze.

TRA DIRE E IL FARE… Se sulla carta queste riforme accendono una speranza, di fatto il governo continua ad avere una posizione piuttosto ambigua: la fonte di tutti i mali sembra essere proprio la compagnia statale EVN, tra i cui dirigenti vi sono numerosi e influenti membri del partito, contrari all’attuazione delle linee guida varate nel 2007. La società, infatti, avvalendosi della partecipazione dello stato, tiene il prezzo dell’energia forzatamente basso, rendendo la competizione di fatto impossibile per i pochi impianti di generazione privati, presenti nel paese già dal 2004. Quest’ultimo aspetto, combinato con elevati requisiti di capitale e pratiche poco trasparenti, scoraggiano l’entrata di nuovi investitori, che non intravvedono margini di profitto.

Inoltre, sebbene il governo abbia svenduto parecchi impianti per ridurre la quota di mercato di EVN, in realtà continua ad avere partecipazioni di maggioranza in tutte le società che fanno parte dell’indotto dell’energia. Infine l’equitization va considerata più da vicino, perché le azioni di molte società pubbliche sono state trasferite solo nominalmente, passando dallo stato a membri del partito, manager, lavoratori e solo in minima percentuale a operatori privati.

Valeria Giacomin

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Seguire la Libia live con Al Jazeera

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Potete seguire live quanto accade in Libia tramite Al Jazeera in due modi:

qui tramite la diretta di Al Jazeera English

qui tramite il Live Blog Libya

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    Un milione di ‘no’ per il Faraone

    Dal Cairo – Focus Egitto – Pubblichiamo l'ultima parte del racconto di S.A., la ragazza egiziana che ci ha inviato la sua testimonianza diretta della rivolta egiziana. La cronaca che ci offre S.A. ripercorre gli ultimi giorni della crisi, esattamente fino a poco prima delle dimissioni definitive di Mubarak, ormai ex “faraone”.

    5° GIORNO, SABATO 29 GENNAIO

    Il mattino seguente, sabato 29 gennaio, mio cognato, ufficiale dell’esercito, ha portato mia sorella e il suo bambino a stare a casa nostra, perché è stato chiamato dalla sua unità e non sapeva quando sarebbe tornato. Allo stesso modo mio fratello è rimasto con i suoi suoceri, tutti stavano con le loro famiglie, i parenti, e tutto scivolava verso l’ignoto. Siamo rimasti a casa a seguire i telegiornali che riportavano gli sviluppi della crisi. Verso mezzogiorno il presidente ha annunciato il suo nuovo vice e il subentrante primo ministro. La tv nazionale ha anche mostrato il capo dell’esercito in un incontro con il presidente e con il nuovo vice-presidente, sottolineando che l’esercito non avrebbe voltato le spalle al presidente, con il quale era in totale armonia. Tutto il giorno abbiamo seguito le notizie da Al Jazeera, dalla BCC, dalla CNN e dal canale arabo della BBC, ed eravamo irritati dal loro modo di stilizzare le notizie e darle in pasto all’opinione pubblica apposta per far crescere nella gente la rabbia contro il regime.

    Inoltre i giornali quel giorno hanno pubblicato tutti i retroscena della distruzione delle carceri; così come centinaia di manifestanti sono state ferite durante le proteste, anche centinaia di rispettabili poliziotti sono stati uccisi quando i beduini hanno fatto irruzione nelle carceri con i bulldozer costringendo i prigionieri alla fuga.

    Il mio cuore era sinceramente afflitto quando ho visto nei giornali i corpi di tutti quei rispettabili poliziotti crivellati di colpi e ridotti come colapasta sotto i colpi dei beduini. Non c’è bisogno di dire che questi agiscono sotto il comando di forze esterne, che vanno da paesi “amici” ai paesi nemici della regione. Una cosa evidente, è che tutti quei prigionieri politici che sono stati liberati rappresentano per qualcuno il target primario. Così, uno dei fuggitivi ha chiamato Al Jazeera e ha iniziato a parlare a nome dei Fratelli musulmani; le autorità egiziane hanno reagito tagliando la trasmissione di Al Jazeera, così in quel momento ci siamo trovati contemporaneamente sotto un coprifuoco esteso, tagliati fuori dalle reti telefoniche mobili e da internet, e non potevamo più vedere Al Jazeera. Non che io sia innamorata di quest’emittente, ma per farvi capire come ci siamo sentiti quando abbiamo capito di essere tagliati fuori dal mondo. Per me, la BBC araba era tanto irritante quanto Al Jazeera, se avessi voluto, avrei potuto tentare di ripristinare Al Jazeera attraverso il satellite Hotbird o avrei potuto sintonizzarmi su Al Jazeera International, ma l’una vale l’altra. Comunque quella tra sabato o domenica è stata un’altra notte di paura, abbiamo sentito spari e seguivamo i nostri uomini camminare su e giù per la strada tentando di catturare i ladri. Inoltre, ogni cinque secondi ricevevo una telefonata da uno dei miei amici che mi chiamava per raccontarmi dei ladri catturati in altri quartieri.

    6° GIORNO, DOMENICA 30 GENNAIO:

    NUOVO GOVERNO, STESSI MINISTRI!

    Un nuovo governo si è insediato domenica 30 e ciò non ha fatto che scatenare nuovamente la rabbia, essendo il “nuovo” governo composto per almeno la metà dei suoi membri da esponenti del governo precedente. Quanto è stupida questa mossa? Ovviamente i manifestanti conoscono i membri del vecchio governo, e hanno annunciato una grande marcia, la Marcia del Milione, per martedì. La televisione nazionale a quel punto stava diffondendo la richiesta di affrontare innanzitutto la questione sicurezza, e poi il lato politico della crisi. La dimensione delle perdite nell’economia egiziana era senza precedenti, si calcola si siano bruciati 40 miliardi di dollari americani. Osservatori ed economisti legati al regime hanno affermato che ogni giorno di protesta conta quanto un intero anno di lavoro e un altro anno di riforma. Il Fondo Monetario Internazionale ha offerto il suo aiuto all’economia egiziana una volta che la leadership fosse stata in grado di prendere decisioni (beh, grazie mille, caro Fondo Monetario Internazionale!).

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    7° GIORNO, LUNEDÌ 31 GENNAIO

    Non c’è bisogno di dire che i giorni ci sembravano legati l’un l’altro e che non si poteva ben distinguere il giorno dalla notte, così lunedì 31 la rabbia per la formazione del nuovo governo è divampata nuovamente e i giovani hanno iniziato ad annunciare per il giorno successivo la Marcia di un Milione di persone verso Eliopoli, dove si trova la residenza di Mubarak, per chiedergli di dimettersi. Tutti gli altri cercavano di capire la posizione di Mohamed El Baradei e la tv nazionale e i telegiornali erano concentrati principalmente sui temi del recupero della pace e della sicurezza, nonché sulla necessità di ripulire le città e cancellare le tracce di fuochi, distruzione e danni. Così verso mezzogiorno gli uomini della nostra strada stavano pulendo l’immondizia lasciata per una settimana lungo la strada e questo è quello che stava succedendo in ogni angolo dell’Egitto. Aggiungete a questo il fatto che tutti i gruppi di difesa locale, così come sono stati ribattezzati, sono riusciti a restituire alla polizia molti degli oggetti rubati e che le moschee sono state usate come punto di raccolta. Molto significativo è che le forze di polizia sono state schierate nuovamente lungo le strade egiziane, mentre erano scomparse totalmente nei due giorni precedenti. Comunque, la gente si stava già preoccupando per la scarsità nell’approvvigionamento del cibo come risultato della chiusura dell’economia per diversi giorni; questo che ha portato a una domanda massiccia di pane, verdura, carne e altri alimenti di prima necessità, con lunghe code presso le stazioni di benzina.

    8° GIORNO, MARTEDÌ 1 FEBBRAIO: LA MARCIA DEL MILIONE (DEI MILIONI?)

    Martedì 1 febbraio già dalla mattina presto stavamo seguendo l'aumento del numero di manifestanti a piazza El Tahrir e speravamo che non avesse luogo alcuno scontro tra i dimostranti e il personale della sicurezza (sia esercito che polizia) perché non volevamo che nessun egiziano uccidesse i propri fratelli. Nessuno voleva che si spargesse il sangue di un milione di giovani egiziani. L’atmosfera si è surriscaldata e ancora una volta abbiamo atteso una reazione forte del presidente o del nuovo vice, notando che negli ultimi giorni avevamo sentito un discorso del capo del parlamento in cui prometteva che avrebbe accettato la decisione della corte suprema deputata a indagare sui brogli verificatisi durante le ultime elezioni. Alla fine, verso le 23 è arrivato il discorso di Mubarak, in cui affermava che non si sarebbe ricandidato per le elezioni e che avrebbe aperto i canali del dialogo con tutte le forze dell’opposizione e che avrebbe ordinato alle corti di investigare sui motivi per i quali forze di polizia si erano ritirate drasticamente e su che cosa avesse portato allo stato di insicurezza e caos che gli egiziani avevano sotto gli occhi. Ha anche parlato di se stesso come un uomo che ha servito per tutta la vita, l’Egitto. Personalmente ho trovato rispettabile questo discorso rispetto al primo e sono rimasta toccata dalla sua insistenza sull'intenzione di morire nella sua terra e dal coraggio di affrontare la contestazione e non lasciare il paese.

    9° GIORNO, MERCOLEDÌ 2 FEBBRAIO: LA BATTAGLIA DI TAHRIR

    Oggi 2 febbraio, mercoledì, un nuovo gruppo è apparso, i pro-Mubarak, cioè quelli che reclamano la stabilità immediata, che sostengono che il paese si debba rialzare dopo i giorni di crisi e che si oppongono ai dimostranti non soddisfatti delle ultime aperture. La cosa strana in tutto questo è che non sappiamo a cosa condurrà questa contrapposizione: sono forse le prime avvisaglie di una guerra civile in Egitto? Abbiamo assistito a scontri tra i due gruppi per tutto il giorno e siamo rimasti incredibilmente spaventati dalla vista di egiziani che gettavano pietre su altri egiziani. L'unica cosa positiva che è successa oggi è stata la dichiarazione del ministro degli esteri che ha rifiutato esplicitamente il consiglio del presidente americano di iniziare la transizione pacifica del potere "ora". E' una delle poche volte in cui la diplomazia egiziana prende posizione in modo così netto e risoluto contro l'unica superpotenza del pianeta. Ora sono le 19.55 e sto testimoniando un altro picco della crisi; le forze armate hanno mandato un sms a tutti i manifestanti che si trovano a El Tahrir chiedendo loro di evacuare immediatamente la piazza poiché secondo alcune voci essa sarà bruciata, inclusi i dimostranti. Tutto rimane incerto.

    Ho raccontato tutto ciò cui ho assistito finora. Prego per il mio Egitto e chiedo a voi tutti di pregare per noi.

    S.A.

    Traduzione a cura di Mattia Corbetta

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    Dove non arriva l’economia…

    Il Giro del Mondo in 30 Caffè – … può arrivare il diritto? Il colosso cinese sembra pronto a prendere in mano le redini dell’economia mondiale, ma a che punto è il suo impegno sul fronte dei diritti fondamentali? Al di là di aspettative e timori, la lunga e tortuosa strada del rispetto dei diritti umani appare come una delle più grandi sfide per la Cina del XXI secolo.

    LA LUNGA MARCIA DEI RENQUAN –  Il conferimento del premio Nobel per la Pace a Liu Xiaobo, promotore del movimento “Charta 08”, ha riacceso i riflettori sul dibattito dei diritti umani in Cina, e lo ha fatto in un momento storico cruciale. Oggi la Cina è protagonista indiscussa della scena politica ed economica mondiale, grazie alla sua crescita strabiliante e al suo sempre maggiore coinvolgimento nei forum internazionali, dalle Nazioni Unite alla World Trade Organization. Pechino e la sua policy sono ormai sotto gli occhi del mondo, ed è diventato impossibile per i leader cinesi nascondere le tensioni tra un’economia robusta e una struttura giuridica di tutela dei diritti piuttosto debole. Proprio da questa debolezza nasce Charta 08, un grande appello alla libertà d’espressione, al rispetto dei diritti fondamentali e alla democrazia, tutti temi scottanti che da anni compaiono nell’agenda degli attivisti cinesi.

    Eppure nella Cina di oggi i cittadini godono di un’autonomia individuale che non ha precedenti nella storia millenaria del paese e la nozione di ‘diritto’, base insostituibile per parlare di inviolabilità dei diritti umani, sta iniziando ad entrare a far parte della prassi delle leggi e dei tribunali dello stato. Se fino agli anni Settanta la legge era il libretto rosso di Mao e i processi erano condotti in modo totalmente arbitrario dalle Guardie Rosse, oggi l’ideologia è tramontata per lasciare posto alla legalità.

    La rivoluzione silenziosa di Deng Xiaoping ha contribuito ad avviare una revisione totale del significato del diritto e del suo rapporto con le istituzioni dello Stato. Certamente non si può ancora parlare di incorporazione dei diritti fondamentali nell’ordinamento cinese, ma è opportuno ricordare che una Lunga Marcia simbolica verso la conquista dei renquan (termine corrispondente al nostro ‘diritti umani’) non nasce con Charta 08, ma è in corso da almeno vent’anni.

    Nel 1979 Amnesty International pubblicava un report durissimo nei confronti delle autorità cinesi. La situazione descritta era drammatica, sia sul fronte dei diritti civili e politici che su quello dei diritti economici, sociali e culturali. Ovviamente lo standard peggiorava nel caso di diritti più specifici e circoscritti, quali la protezione delle minoranze etniche e religiose delle Regioni Autonome di Xinjiang, Tibet e Yunnan. D’altra parte non ci si sarebbe potuti aspettare nulla di diverso, in quanto nel 1979 (e poi per tutti gli anni Ottanta, fino ai fatti di Tiananmen) la classe dirigente cinese utilizzava il termine renquan in senso dispregiativo, identificando con esso una creazione retorica occidentale, formulata per proteggere la classe borghese.

    Poi arrivarono gli anni Novanta e la prima Conferenza Mondiale sui Diritti Umani, organizzata sotto l’egida delle Nazioni Unite con lo scopo di fornire agli stati una piattaforma comune per discutere e confrontarsi su questo tema delicatissimo e centrale. Proprio in quest’occasione molti paesi asiatici sembrarono cedere all’universalismo dei diritti umani, abbandonando quel relativismo culturale che li aveva portati a tenersi alla larga dai renquan.

    Da Singapore all’Indonesia, qualcosa iniziò a muoversi anche in Asia, quel continente lontano, immenso e misterioso che resta l’unico al mondo a non avere un meccanismo regionale di tutela dei diritti umani. Quel continente che, almeno nella sua parte estremo-orientale, è dominato dall’ascesa cinese.

    PROMESSE INFRANTE? – Negli anni Novanta e Duemila, seppur lentamente, un solco sembrò aprirsi anche in Cina, tanto che dal 14 marzo 2004 nella Costituzione della Repubblica Popolare Cinese si può leggere la frase “Lo Stato rispetta e protegge i diritti umani”. Parole di fuoco, parole rivoluzionarie, parole di speranza per milioni di cittadini cinesi. Parole che, purtroppo, sembrano essere rimaste tali e che piuttosto che accendere un fuoco sembrano essere già cenere. Solo gli addetti ai lavori (professionisti e studiosi del diritto) si sono accorti di questo emendamento e se ne ricordano ancora a distanza di quasi sette anni.

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    QUALI PROSPETTIVE? – Nell’aprile 2009 il governo ha pubblicato il “Piano d'azione statale sui diritti umani 2009-2010”, dove si afferma che dalla fondazione della Repubblica popolare, sotto la guida del Partito Comunista  Cinese, la Cina si e' impegnata indefessamente per promuovere e tutelare i diritti umani. Amnesty International ha apprezzato il Piano, riservandosi però di giudicarlo solo al termine del 2010, sulla base della sua effettiva attuazione. Purtroppo, il 2010 ha rappresentato un punto di minimo storico nella battaglia per i renquan. Dopo l’annuncio dell’assegnazione del Nobel per la Pace a Liu Xiaobo, l’intolleranza nei confronti di tutti coloro che esulano dal mainstream governativo è pericolosamente aumentata. Human Rights Watch ha denunciato la scomparsa, l’incarcerazione e le intimidazioni subite da numerosi attivisti della società civile impegnati in campagne di advocacy.

    Molti dei firmatari di Charta 08 vengono periodicamente sottoposti a lunghi interrogatori, con l’accusa di “incitamento alla sovversione contro il potere dello Stato”, crimine adottato nel 1997 e usato sistematicamente contro chi cerca soltanto di esercitare il proprio diritto alla libertà di espressione. Sono decine i dissidenti imprigionati per questo motivo, e tra loro c’è anche Hu Jia, vincitore del premio Sakharov 2008, colpevole di aver auspicato nel suo blog la progressiva democratizzazione del regime cinese.

    Recentemente sono stati minacciati anche diversi avvocati e ad almeno a 18 di loro non e' stata rinnovata la licenza per esercitare la professione. Il crimine? Patrocinare cause che riguardavano tibetani coinvolti nelle proteste del marzo 2008, praticanti del movimento Falun Gong, difensori dei diritti umani, familiari delle vittime del terremoto in Sichuan e di quelle legate allo scandalo del latte in polvere avvelenato.

    Insomma, coloro che dovrebbero fungere da coscienza critica della Cina contemporanea sono spesso costretti a tacere. I diritti e le aspirazioni individuali devono sempre e comunque cedere il passo all’interesse collettivo, alla tutela dello Stato e del “sistema”, sia che si tratti di libertà d’opinione che di accesso ad un rimedio giurisdizionale che di diritti personalissimi come quello alla riproduzione (come non includere la “politica del figlio unico” nella lista delle violazioni dei diritti umani?)

    Al di là delle promesse e delle modifiche costituzionali, la via del rispetto dei diritti fondamentali resta lunga, tortuosa, piena di ostacoli e in salita.  Lo Stato di diritto (per dirlo alla maniera europea), o fazhi, come dicono le fonti cinesi, sembra un miraggio, un approdo lontanissimo. Ma ciò non deve spaventarci, né farci indignare o farci  detestare la Cina per quello che è oggi. Deve piuttosto incoraggiarci al dialogo, al confronto costante e costruttivo tra due tradizioni giuridiche profondamente diverse, che potranno avvicinarsi solo quando saranno pronte a comprendersi a vicenda.

    Anna Bulzomi

    [email protected]

     

    L’ora di Tripoli

    Le rivolte popolari colpiscono Benghazi e Tripoli, mercenari assoldati dal regime e aviazione sparano sulla folla, il figlio di Gheddafi Saif minaccia guerra civile mentre l’esercito si spacca. La situazione in Libia assomiglia poco alla pacifica Piazza Tahrir egiziana, e ancora meno la possibile evoluzione degli eventi…

     

    NEL SANGUE – Gheddafi ha scelto la via della repressione violenta, usando i suoi fedelissimi uomini della sicurezza e mercenari africani perché sparino sulla folla nel tentativo di spegnere la rivolta nel sangue, causando la morte di almeno 250-300 persone secondo stime non ufficiali. Ma la protesta non si placa e anzi la scelta del pugno di ferro appare un autogol destinato forse ad accelerare la fine del regime del Colonnello. Non solo le proteste non si sono fermate, ma le uccisioni hanno aperto la strada a una rivolta a sua volta più aggressiva che ha attivamente colpito i simboli del regime (alcuni palazzi del governo, le stazioni di polizia, la tv di stato). Appare poi politicamente errato e guidato più che altro dalla disperazione il messaggio di Saif al-Islam Gheddafi, figlio del dittatore, troppo netto nella minaccia di ritorsione contro le proteste e troppo scontato nell’accusa contro potenze esterne. L’errore principale del regime nel gestire la crisi appare quello di aver alternato promesse vaghe e non definite a minacce aperte, senza agire realmente sul campo delle concessioni istituzionali, nemmeno di facciata; la linea espressa da Saif appare infatti unicamente quella di appellarsi all’unità contro le ingerenze esterne, un messaggio scarsamente convincente per i protestanti che vedono il regime direttamente responsabile dello stato attuale.

     

    CHE FA L’ESERCITO? – In Egitto l’esercito è stato garante di pace, ma così non è in Libia. Da un lato Gheddafi non si fida delle forze armate, tanto da aver assoldato mercenari esterni. Dall’altro l’esercito non ha mai avuto un’autorità e una rispettabilità tale da farsi garante presso la popolazione; in aggiunta, gli Alti Ufficiali non hanno la stessa influenza dei loro omologhi egiziani e non appaiono aver ancora preso una decisione riguardo a come operare. Tale indecisione traspare anche dal fatto che numerose fonti citano reparti dell’esercito schierati con i rivoltosi e in procinto di attaccare le forze di sicurezza di Gheddafi, ma senza una guida coerente. Alcuni cacciabombardieri dell’aviazione hanno disertato recandosi a Malta.

     

    Una decisione potrebbe tuttavia essere imminente; in tal caso il Capo di Stato Maggiore, Generale El-Mahdi El-Arabi, potrebbe essere la persona deputata a guidare un colpo di stato militare.

     

    ISOLAMENTO – Dal punto di vista interno, la forte repressione ha ulteriormente delegittimato il regime agli occhi di gran parte della popolazione. In particolare stanno appoggiando la rivolta varie tribù beduine (dalle quali il Colonnello tendeva a trarre maggiore legittimità) mentre numerosi funzionari all’estero si sono dissociati. All’estero Gheddafi è isolato nonostante i forti interessi economici europei (in particolare italiani) in gioco, ancor più di quanto fosse Mubarak. Gli eccessi e le stravaganze del Colonnello libico e dei suoi figli nei suoi anni di governo ne hanno sempre minato l’immagine e l’uso della forza ha eliminato ogni convenienza diplomatica estera a farsi coinvolgere. Con sempre meno appoggi internamente ed esternamente, non appare più plausibile che il regime possa riprendere il controllo.

     

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    IL FUTURO? – Un colpo di stato potrebbe non riportare automaticamente il paese alla tranquillità e rimane possibile l’evenienza di una guerra civile poiché la famiglia Gheddafi controlla direttamente alcuni reparti delle forze armate e l’esercito dunque potrebbe spaccarsi. Inoltre le forze di sicurezza fedelissime del regime e ad alcune tribù che temono cambiamenti – soprattutto a causa della possibile perdita della rendita di petrolio – potrebbero continuare la lotta.

     

    Infine, anche in caso di successo della rivolta, al momento non esiste un movimento d’opposizione strutturato, né leader carismatici che possano formare e guidare forze politiche nuove. Una gestione militare della transizione appare probabile, ma altrettanto possibile rimane la possibilità che il paese possa cadere nel caos per mancanza alternative valide e si venga addirittura a costituire una situazione di “failed state”.

     

    Lorenzo Nannetti

    [email protected]

     

    Iran=Egitto?

    Dopo il Cairo e la cacciata di Mubarak, sono iniziate proteste anche a Teheran, Isfahan e altre città iraniane, chiedendo che ad andarsene sia Ali Khamenei. Iran come Egitto dunque? Prima di lasciarsi prendere da facili entusiasmi, è bene ricordare alcune importanti differenze. Il regime degli ayatollah non è come quello del “faraone” Mubarak.

     

    MEDIA – La rivolta in Egitto ha riscosso una grande popolarità e ha avuto una grande pubblicità mediatica grazie, appunto, ai media come Al Jazeera e agli inviati esteri sul posto. Ma l’Iran mantiene un controllo molto più stretto sulle telecomunicazioni, impedisce ai reporter di seguire le rivolte e agisce più aggressivamente su Internet. Con una minore copertura degli eventi, il regime può permettersi una risposta più forte e feroce.

     

    PUGNO DI FERRO – In Egitto i militari non hanno affrontato i protestanti e hanno impedito un forte spargimento di sangue. In Iran l’esercito viene estromesso e le funzioni anti-rivolta affidate ai Pasdaran (i Guardiani della Rivoluzione) e ai Basiji, le forze paramilitari antisommossa fanaticamente fedeli al regime e autorizzate a metodi più violenti. Come durante la “rivolta verde” in seguito alle ultime elezioni presidenziali, sono da prevedersi  arresti di centinaia di persone, processi sommari ed esecuzioni (sono avvenute numerose anche in gennaio) e in generale il tentativo di spegnere la rivolta tramite l’uso di un pugno di ferro. Per quanto i protestanti potranno resistere a ciò?

     

    ESERCITO  – Sempre in Egitto è stato l’esercito l’ago del bilancia perché, controllando buona parte dell’economia e avendo forti interessi con l’Occidente, ha ritenuto più vantaggioso sacrificare Mubarak per mantenere il controllo e gestire a proprio modo l’eventuale transizione verso la democrazia. In Iran tale assioma non è altrettanto valido. I Pasdaran mantengono il controllo su buona parte dell’economia proprio grazie al regime attuale, dunque un cambiamento provocherebbe una loro notevole perdita di potere. Esiste inoltre una componente di fanatismo religioso nei ranghi tale da rendere difficile prevedere una spaccatura tra soldati e ufficiali. L’esercito iraniano tradizionale invece è più vicino alle posizioni riformiste, ma negli anni è stato progressivamente estromesso e posto in condizione di inferiorità tecnica e operativa. I Pasdaran inoltre controllano le installazioni vitali del paese e sono gli unici presenti nelle città chiave, come la capitale.

     

    OPPOSIZIONE INTERNA – L’istituzione iraniana è sostanzialmente un treppiede, come abbiamo già descritto in passato. Attualmente due delle gambe, gli ultraconservatori e i conservatori, sono strettamente legati e l’opposizione riformista è generalmente estromessa e ridotta all’impotenza. Si può prevedere un qualche sconvolgimento solo se una parte considerevole dei conservatori – che pur non rinnegando la natura islamica della repubblica sono più disposti ad aperture verso l’esterno e verso la modernità, pur senza eccessi – decidesse di appoggiare il cambiamento e, così facendo, cercasse di guidarlo senza che si verifichi una vera rivoluzione. Gli attuali leader dell’opposizione, Karroubi (foto) e Mousavi appartengono proprio a questa fascia e tale potrebbe essere il loro cammino, ma finora hanno avuto ancora troppo poco appoggio. Esistono tuttavia due elementi che potrebbero giocare a loro favore, e a favore della rivolta.

     

    I BAZARIJ – La rivoluzione Khomeinista ha avuto successo grazie alla grande partecipazione dei Bazarij, gli uomini dei Bazar che di fatto controllano gran parte delle attività commerciali. Una loro adesione in massa non solo aumenterebbe notevolmente la quantità di protestanti – le poche migliaia ora registrate sono lontane dalle centinaia di migliaia o milioni in Egitto – ma soprattutto contribuirebbe a bloccare la già fragile economia del paese in maniera forse decisiva.

     

    IL CLERO – Altro elemento è la divisione all’interno del clero sciita. Ali Khamenei è mal visto da buona parte del clero (soprattutto quello nella città santa di Qom) perché è un Ayatollah di grado minore salito al potere per via politica. In termini a noi più comprensibili, è come immaginare un parroco (o un vescovo ausiliare, o di una piccola diocesi) che viene fatto Papa grazie a legami politici piuttosto che alle sue capacità pastorali. Lo stesso Khomeini decise di cambiare la costituzione perché potesse succedergli qualcuno che possedesse soprattutto abilità politiche. Gran parte del Clero disprezza invece tale visione e ritiene che solo un Marja-e-Taqlid (ovvero, in breve, la fonte suprema di esempio religioso sciita, titolo che Khamenei non ha e non riesce a vedersi riconosciuto) possa essere alla guida del paese. Questa disputa può apparire una sottigliezza poco importante, ma in una teocrazia come è l’Iran è un elemento che contribuisce a creare un’influente corrente dissidente. L’unione tra proteste per motivi politici e fondamenti religiosi potrebbe dare ulteriore forza e legittimità alla protesta.

     

    E’ ancora presto per vedere i risultati, se ce ne saranno, della rivolta iraniana. Tuttavia per meglio capire gli eventi, non possiamo dimenticare questi punti.

     

    Lorenzo Nannetti

    [email protected]

    Si vis pacem para bellum?

    A nord e a sud di Israele sono avvenuti grandi rivolgimenti. Il governo di Mubarak è stato rovesciato da una pacifica rivolta della popolazione appoggiata dall’esercito, mentre in Libano Hezbollah ha ottenuto un governo a sé favorevole tramite la nomina di Miqati. Per Israele si intravedono nuovi conflitti all’orizzonte? Non ora, non necessariamente…

     

    INTERESSI CONDIVISI – Abbiamo già parlato ampiamente delle paure israeliane riguardo agli eventi egiziani. Nonostante ciò, sarebbe prematuro prevedere seri contrasti tra Gerusalemme e il Cairo, almeno nell’immediato futuro. Il trattato di pace stipulato nel 1979 ha effettivamente portato benefici a entrambe le nazioni, garantendo il confine sud dello stato ebraico e contemporaneamente consentendo all’Egitto di rientrare nelle buone grazie dell’Occidente, inclusi importanti investimenti economici e le forniture militari. L’Alto Comando dell’esercito Egiziano ne è ben consapevole e non punterà a mettere a repentaglio i propri stessi interessi – l’esercito controlla tra il 30 e il 40% dell’economia egiziana, basata soprattutto sui buoni rapporti con l’estero – per seguire sentimenti anti-israeliani che di fatto gli sono alieni da circa 30 anni.

     

    E’ troppo presto per valutare quale tipo di governo vi sarà in Egitto, se i Fratelli Musulmani saranno così influenti da stravolgere gli accordi o se trionferanno i democratici moderati, o ancora se l’esercito manterrà il potere più o meno dietro le quinte. Attualmente lo status quo dovrebbe rimanere inalterato e l’unico vero problema a sud per Gerusalemme rimane Hamas a Gaza e la possibilità che la confusione delle ultime settimane abbia allentato le maglie della linea di difesa egiziana tanto da permettere a gruppi di miliziani di uscire dalla Striscia per penetrare nel Sinai e cercare di attaccare Israele da altre direzioni. Non a caso il governo Netanyahu ha permesso all’esercito egiziano di introdurre due battaglioni (circa 800 uomini) nel Sinai come deroga al trattato di pace del 1981, proprio per dare la caccia a eventuali cellule estremiste.

     

    QUALI RISCHI? – Nessun rischio di conflitto tra Israele ed Egitto dunque, e anzi è prevedibile una sorta di maggiore cooperazione proprio per un migliore controllo del Sinai. Anche per l’esercito Egiziano è importante evitare che elementi destabilizzanti provenienti dalla Striscia di Gaza passino il confine. Allo stesso modo però è sconsigliabile per Israele aumentare eccessivamente il livello di allerta a sud, in quanto potrebbe essere valutato come intenzione ostile e di fatto spaventare l’opinione pubblica egiziana o addirittura convincere la leadership egiziana di non avere intenzione di rispettare per primi il trattato. Un basso profilo e una continua collaborazione saranno probabilmente la chiave per mantenere ottimi rapporti.

     

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    IL FRONTE NORD – Parzialmente diversa la questione per quanto riguarda il fronte nord, al confine con il Libano. Il riarmo di Hezbollah negli ultimi anni e gli usuali stretti legami con l’Iran si accoppiano ora a un’elevata influenza sul governo filo-sciita appena insediato. Anche in questo caso però i rischi di conflitto a breve termine risultano ridotti. Attualmente l’obiettivo principale del movimento islamico è quello di delegittimare ogni risultato avverso del Tribunale Speciale per il Libano, incaricato di determinare le responsabilità dietro l’omicidio dell’ex-premier Rafiq Hariri; tale scopo risulta maggiormente raggiungibile quanto più l’attenzione internazionale viene rivolta lontano dal Paese dei Cedri, dunque il mantenimento di un basso profilo e il rumore mediatico degli eventi in Egitto giocano a loro favore. Allo stesso tempo i leader di Hezbollah sono coscienti che ogni seria provocazione militare contro Israele provocherà una risposta molto più decisa di quella di estate 2006, e il rischio di un conflitto prematuro può essere solo quello di dilapidare i propri arsenali in un momento non adatto. Si ritiene infatti che Hezbollah si tenga pronto all’azione solo in risposta a un attacco Israeliano o USA all’Iran.

     

    Allo stesso modo da parte israeliana la Kyria (il “Pentagono” israeliano) ha posto in stato di allerta le truppe ma senza richiamare i riservisti – segno di come non si preveda un conflitto a breve. Per Gerusalemme una guerra ora porterebbe solo una maggiore condanna internazionale in un momento diplomaticamente difficile data la scarsa popolarità del governo Netanyahu all’estero, oltre a porre sotto rischio non necessario la popolazione civile, che Hezbollah cercherebbe di colpire con il suo arsenale di missili e razzi.

     

    Finché nessuno dei suoi vicini (in particolare Hezbollah) intraprenderà azioni dirette ostili, per Israele la necessità rimane solo preparare l’apparato di difesa e approntare contromosse e piani operativi per eventuali contrattacchi; non esiste alcuna esigenza di prendere l’iniziativa in maniera diretta. Al momento un elevato stato di preparazione combinato a un’attenta ma quieta osservazione degli eventi può funzionare da migliore garanzia rispetto a una condotta troppo aggressiva.

     

    Lorenzo Nannetti

    [email protected]

    Ma quale modello turco?

    Focus Egitto – Il paradigma del modello turco sembra essere uno dei prismi più gettonati per analizzare in prospettiva futura l’Egitto. Adesso che Mubarak si è fatto da parte (in misura più o meno spontanea…), cosa rappresenterebbe davvero il modello turco? Più che al modello attuale, rappresentato dal partito islamico al governo e messo a confronto con la Fratellanza Musulmana in Egitto, si dovrebbe ripercorrere la storia e tornare al 1980. Da lì partì il modello turco, con alcune similitudini con l’attuale Egitto

    IL MODELLO DELL’AKP? – Mentre il mondo si interroga su quali saranno adesso le prossime evoluzioni della crisi della situazione politica in Egitto, sempre di più aleggia una frase sui media e sui maggiori centri di analisi: “modello turco”. Tale frase era cominciata a girare già prima delle dimissioni di Mubarak dalla Presidenza del Paese e pareva riferirsi più che altro alla forte influenza che il movimento della Fratellanza Musulmana ha sulla società egiziana. Mentre il mondo si divideva in due tra chi considera i Fratelli Musulmani una realtà radicale e volta a raggiungere l’obiettivo ultimo dell’islamizzazione dell’Egitto da un lato e chi, dall’altro, è disposto a dare fiducia al movimento in nome di ideali democratici e in virtù del carattere moderato della Fratellanza, la retorica del modello turco serpeggiava per dare credito a questa seconda opinione. Nello specifico, richiamarsi alla Turchia era un modo per esaltare il governo dell’AKP, il partito di ispirazione islamica al potere ad Ankara e guidato dal Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan, evidenziando gli enormi progressi compiuti dalla Turchia in questi anni dal punto di vista della crescita e dell’apertura economica e della democratizzazione del Paese. Allo stesso modo, si diceva, la Fratellanza Musulmana potrà prendere esempio, anzi in qualche modo ha ispirato, l’AKP, e quindi anche l’Egitto potrebbe avere un governo di matrice islamica, ma integrato nella comunità internazionale, democratico al suo interno e amico dell’Occidente.

    NO, QUELLO DEL 1980 – Il modello turco che sembra richiamarsi alla mente adesso, piuttosto, è invece quello del 1980, più che del 2003, anno della vittoria di Erdogan alle elezioni politiche (vittoria che sarebbe stata riconfermata nel 2007). Fino al 1980 la Turchia era un Paese attraversato da profonde crisi politiche, economiche e di sicurezza. Al potere vi era un elite che non aveva ancora aperto del tutto la strada alla società civile e alla dialettica interna e che si serviva dell’Esercito per reprimere, in nome del nazionalismo di stampo kemalista e dell’ossessione della sicurezza, qualsiasi opposizione, fosse essa di matrice marxista o islamista. Nel 1980 qualcosa cambiò: vi fu l’ennesimo colpo di Stato ad opera dei militari, contro elementi della sinistra ormai arrivati ad essere fin troppo influenti nella vita politica del Paese e contro l’islamismo sempre visto come una minaccia. Ma, per una volta, tale colpo di Stato sarebbe risultato (dopo i due precedenti, negl ianni ’60 e ’70) funzionale alla costruzione di una nuova Turchia. Da lì sarebbe arrivato al potere, nel 1982, Turgut Ozal, colui che avrebbe aperto il Paese all’economia esterna e al processo di democratizzazione interna.

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    L’ONDA LUNGA DEL GOLPE – E’ da quel momento che si è propagata l’onda lunga dell’inclusione all’interno del panorama politico turco di tante anime diverse, dalla società civile, al mondo dell’economia e dell’imprenditoria, fino a quell’Islam politico che, attraverso anche una propria evoluzione interna, dopo 20 anni sarebbe arrivato al potere, dove è ancora oggi, a capo di uno dei Paesi più dinamici e in crescita di tutto il mondo e con un successo indiscutubile. Fu quella la vera rivoluzione turca. Dopo la presa di potere dei militari nel 1980 Ankara ratificò una nuova costituzione (da aggiustare, certo, come poi è stato in parte fatto) e da quel momento partì il processo politico, appoggiato dall’Occidente, che avrebbe portato la Turchia a poter porsi come modello per gli altri Paesi mediorientali oggi. Da qui potrebbe partire anche l’Egitto: una transizione guidata e assicurata dai militari, in un simile contesto, sembrava essere comunque inevitabile. Con il giusto appoggio occidentale e con il reintegro di tutte le forze politiche e sociali all’interno del panorama politico interno, forse anche Il Cairo potrà costruire una nuova stagione. In quel caso il modello turco sarebbe stato attuato, ma ciò sarà chiaro solo nel medio-lungo periodo.

     

    Stefano Torelli

    [email protected]

    Quel venerdì 28, tra paure e speranze

    Dal Cairo – Focus Egitto –  Prosegue il racconto di S.A., ragazza egiziana che ha vissuto in prima persona gli eventi di questi giorni. La seconda puntata ci racconta di venerdì 28 gennaio, un giorno cruciale, in cui la rabbia dei manifestanti è letteralmente esplosa. Il Museo egizio in fiamme, i trentamila prigionieri usciti dalle carceri, il discorso notturno di Mubarak, che scarica il governo e ne fa un capro espiatorio.

    (segue da “Le cronache dal Cairo”)

    QUARTO GIORNO, VENERDI' 28 GENNAIO IL VENERDI' DELLA RABBIA, IL CULMINE DELLA CRISI

    POMERIGGIO DI FUOCO – Il 28 le dimostrazioni sono ricominciate verso mezzogiorno, ma solo dopo la tradizionale e importante preghiera del venerdì, e non solo a piazza El Tahrir ma in ogni singolo angolo dell’Egitto. Una lunga marcia è passata sotto casa nostra portando una lunga bandiera dell’Egitto, e abbiamo sentito che c’erano marce attraverso tutto Il Cairo, in ogni area residenziale, ricca o povera, così come in ogni altra città egiziana, accomunate dalla richiesta di lasciare il potere rivolta a Mubarak. Verso le 15.00 abbiamo iniziato a percepire che gli scontri tra i dimostranti e la polizia diventavano più feroci e ho avvertito la sensazione che la polizia avesse perso il controllo della situazione, specialmente ad Alessandria e Suez; ci è giunta la voce che se la polizia non fosse riuscita a mantenere l’ordine presto sarebbe stato schierato l’esercito. Poi le cose sono degenerate repentinamente e il numero di dimostranti a piazza El Tahrir si diceva avesse raggiunto cifre enormi, probabilmente attorno ai 400.000 dimostranti. Verso le 16.00 la situazione era totalmente fuori controllo per le forze di polizia e quello è il momento in cui ho visto le immagini delle sedi del Partito Nazionale Democratico, il partito principale del regime, date alle fiamme, e abbiamo sentito che un certo numero di stazioni di polizia erano state attaccate e incendiate. Verso le 17.00 si è visto in televisione l’esercito entrare in piazza El Tahrir e sapevamo che gli edifici del governatorato di Alessandria erano stati completamente bruciati e distrutti. Verso le 17.15 le forze armate hanno ordinato il coprifuoco dalle 18.00 alle 7.00. Ora immaginate una situazione come questa: far rientrare a casa 20 milioni di persone in 45 minuti in una metropoli come Il Cairo dove mediamente il rientro a casa richiede almeno un’ora e mezza! E in circostanze come queste! Con mezzo milione di persone che manifestavano pubblicamente, e che occupavano il più grande nodo del traffico nel cuore del Cairo?!

    Ad ogni modo, fino alle 20.00 le televisioni trasmettevano le immagini di auto ancora incastrate nel traffico nel tentativo di raggiungere casa, e i leader mondiali erano invischiati in una posizione che definirei di “tiepida cautela”, cioè cercavano di prodursi in dichiarazioni a sostegno dei diritti dei popoli all’autodeterminazione, alla libertà di espressione, di parola, di informazione, di riunione, denunciavano la violenta repressione contro i manifestanti e così via, ma allo stesso tempo non esprimevano alcuna opinione decisa a proposito della sopravvivenza del regime di Mubarak stesso. E a mio modo di vedere questo atteggiamento ha messo i leader internazionali in una posizione imbarazzante, il regime si trovava in un punto di non ritorno ma nessuna delle maggiori potenze mondiali aveva il coraggio di dichiararsi favorevole alla sua sostituzione, perché temeva per la stabilità e la sicurezza della regione.

    FUOCO AL MUSEO, 30MILA IN LIBERTA' – Quella che si è verificata in seguito è stata la totale distruzione di ogni simbolo del potere statale, dalle stazioni di polizia al Cairo, Alessandria e altre città, agli incendi degli edifici delle corti di giustizia, includendo con ciò la distruzione indiscriminata di molti atti giudiziari. Poi il mio cuore si è letteralmente fermato quando ho letto su Al Jazeera news che le fiamme minacciavano il Museo Egizio e che qualcuno stava tentando di rubare la sua collezione. Questo è il Museo dei tesori dell’Egitto faraonico, che non solo rappresenta il bene di ogni egiziano in termini d’identità e cultura ma anche la fonte di sostentamento di milioni di egiziani che lavorano nel settore del turismo. Poi le distruzioni hanno raggiunto un livello inimmaginabile, ogni minuto la televisione trasmetteva nuove immagini di edifici bruciati, distrutti e derubati, incluso il Ministero degli Affari Esteri, la torre della televisione (entrambi collocati in un punto privilegiato, con una magnifica vista sul Nilo), hotel a cinque stelle, ipermercati e molti centri commerciali, negozi, altri palazzi storici, ed ero totalmente confusa sulle ragioni per le quali i miei amici, i miei colleghi e la mia generazione fossero legittimati a fare tutti questi danni per lanciare un messaggio al governo. Non capisco perché alcuni egiziani volessero distruggere i tesori nazionali e la loro storia con le loro stesse mani.

    In seguito il più grande shock è venuto quando abbiamo saputo che alcune prigioni erano state abbattute e che i fuggitivi (trentamila circa) erano lasciati in libertà! Si trattava di prigionieri di tutti i tipi, dai prigionieri politici legati alla Fratellanza Musulmana, a Hamas o a Hezbollah, ai normali assassini e ladri. A quel punto ho capito che c’erano forze esterne dietro alla crisi e alla distruzione e che le dimostrazioni non erano più controllate dalla rispettabile gioventù che conosco.

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    IL DILEMMA DELLA COMUNITA' INTERNAZIONALE – Tenterò ora una breve analisi delle reazioni politiche registratesi all’apice della crisi. In quel momento la comunità internazionale, cioè i leader degli Stati Uniti, del Regno Unito, della Francia, della Germania, della Turchia e di Israele, ma anche delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea, erano incapaci di mostrare una qualsiasi opinione decisa rispetto a quello che stava accadendo sulla scena egiziana, dove l’esercito si stava schierando dalla parte del presidente, ma allo stesso tempo fungeva da difensore dell’incolumità dei cittadini. La crisi ha mostrato il peso dell’Egitto in Medio Oriente e nel mondo sotto due aspetti: innanzitutto, va rilevato che concretamente non è intervenuto nessun agente esterno all’Egitto, considerate la forza e la complessità del sistema politico e sociale egiziano, difficile da penetrare; in seconda istanza, si è osservato il chiaro fallimento dell’azione degli Stati Uniti tesa a risolvere la crisi a loro favore, insuccesso manifesto se si guarda alla paralisi dell’intera comunità internazionale, se si considera che nemmeno una singola riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza è stata convocata per risolvere la crisi e non è stata elaborata nemmeno una risoluzione. Tali impressioni sono confermate dalla debolezza e dalla mancanza di decisione riscontrabili nel discorso di Hilary Clinton.

    UNA NOTTE DI TERRORE E I GRUPPI LOCALI DI DIFESA – Quello che abbiamo vissuto durante la serata di venerdì è stato una sensazione di mera insicurezza e paura, dopo la fuga dei prigionieri e l’inizio dei loro attacchi in tutto il paese, specialmente nei ricchi quartieri dei sobborghi del Cairo, dove famiglie appartenenti a classi medio alte vivono in ville sprovviste di servizi di sicurezza e circondate da ampi viali cui è facile accedere. Abbiamo sentito che i criminali hanno rubato ambulanze, moto, e anche macchine della polizia, usandole per camuffarsi e accedere indisturbati in questi quartieri nonostante il coprifuoco, che effettivamente concede solo ad ambulanze, militari e giornalisti di guidare attraverso la città. Poi la gente ha iniziato a raccogliere qualsiasi oggetto che potesse fungere da arma per proteggere le strade, e a costruire le barricate per prevenire gli attacchi da parte dei fuggitivi. Gli uomini del mio quartiere hanno iniziato a controllare ogni mezzo che passava in zona, e sono riusciti a catturare dei ladri che si aggiravano nelle vicinanze. Mai come quella notte ho provato la sensazione della paura. Gli amici, che ci chiamavano sul telefono fisso perché internet e cellulari erano bloccati, ci consigliavano di prendere ogni precauzione, avvertendoci che molte aree erano già state attaccate e derubate. Ho visto giovani e anziani della nostra strada raccogliersi sotto il nostro condominio con bastoni di legno, oggetti metallici di ogni sorta improvvisati come strumenti di difesa; pattugliavano le strade per osservare ogni persona o movimento sospetti, accendevano fuochi per illuminare la strada, e alzavano barricate per proteggere le loro case, e anche la mia.

    IL DISCORSO DEL PRESIDENTE – Alle 16.00 il canale nazionale aveva annunciato che il presidente avrebbe tenuto un discorso alla nazione; alla fine questo è arrivato con notevole e comprensibile ritardo visto il caos e le distruzioni che hanno caratterizzato le ultime ore. Solo alle 00.30 Hosni Mubarak ha parlato al popolo egiziano, tenendo un discorso troppo debole rispetto alla rilevanza degli eventi. Si è detto rammaricato per quello che stava succedendo e ha rivelato che ci sono attori esterni che giocano un ruolo importante nei disordini; alla fine ha chiesto al governo di dimettersi, a dispetto delle attese del pubblico che credeva che avrebbe alternativamente accettato di lasciare la presidenza o deciso di sciogliere il parlamento. Dopo un lungo silenzio ha dunque reso noto che il governo sarebbe stato il suo capro espiatorio. La reazione della strada, com’è ovvio, è stata negativa, nessuno era soddisfatto. La rabbia è scoppiata anche per la fuga dei 30.000 prigionieri verificatasi a causa del ritiro della polizia.

    (2. continua)

    S.A. Traduzione a cura di Mattia Corbetta [email protected]

    Questo luogo e questa data, 11 febbraio 2011: quando la cronaca è già storia

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    Le foto simbolo: Piazza Tahrir in festa

    Le foto simbolo: Piazza Tahrir in festa

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    Esercito e folla in festa assieme: un'immagine che da sola può spiegare molto più di tante analisi una delle chiavi di volta per eccellenza di quanto avvenuto in questi giorni

    MuSBARAK

    Momenti che passeranno alla storia. Il Faraone si è dimesso, e si è rifugiato a Sharm. L'annuncio di Suleiman. Il potere ai militari. Il Cairo in festa. Piazza Tahrir esplode.

    E una domanda: sarà vero cambiamento o solo un passaggio di consegne tra gli esponenti di quella dittatura militare che ha governato l'Egitto dagli anni '50 in poi, per placare la piazza?

    Seguite su Al Jazeera English la diretta live

    Altro link utile: gli aggiornamenti live dal sito del Guardian

    In tv, diretta live anche sulla CNN

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    Nella foto: esercito e folla festeggiano assieme fianco a fianco.