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Due gallery da non perdere

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Raccolte fotografiche della rivoluzione egiziana e della rivolta in Albania: eccovi due testimonianze imperdibili

Vi segnaliamo due raccolte fotografiche davvero interessanti. La prima riguardo quanto accade in Egitto: tramite la giornalista Paola Caridi (imperdibile, in questi giorni, il suo blog Invisible Arabs, una delle ricostruzioni live più puntuali, efficaci, chiare e dettagliate di quanto accade in Egitto) condividiamo le foto della rivoluzione di Arabawy, uno dei blogger del Cairo più attivi, che chiede di diffondere i suoi scatti perchè si capisca cosa sta avvenendo.

La seconda è direttamente ricollegata al nostro articolo sulle rivolte in Albania TriRiot: sulle strade di Tirana, di Jacopo Marazia. Le foto contenute sono prese in esclusiva dalla raccolta di Valerio Muscella, che qui vi riproponiamo.

Davvero questi sono due esempi in cui si manifesta come le foto non siano solo elemento “di colore” di un'analisi, ma possono davvero rappresentare un documento imprescindibile e una testimonianza fondamentale.

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Le paure di Tel Aviv

Focus Egitto – Dalla Knesset, il Parlamento israeliano, e dalle strade di Gerusalemme e di Tel Aviv, si guarda con apprensione agli avvenimenti che hanno infiammato prima la Tunisia e ora stanno cambiando il volto politico del gigante nordafricano, l’Egitto. Il premier israeliano Netanyahu si è premurato di consigliare ai membri del suo governo un silenzio stampa riguardo gli avvenimenti del Cairo, ma nonostante la mancanza di dichiarazioni ufficiali non è difficile captare quali siano le impressioni, e le preoccupazioni, della leadership politica dello Stato ebraico.

COSA FARE – Israele, al momento, ha davanti due possibili linee d’azione: può assecondare, anche col silenzio, l’ondata di rinnovamento che sta facendo traballare Mubarak, prestando così fede al suo pluridecennale impegno per la causa di un Medio Oriente democratico, con cui Tel Aviv possa trattare da pari a pari, o può spendere la sua influenza a favore del Rais, erede di un regime con cui Israele, più di tre decenni fa, firmò il primo, storico, trattato di pace con uno Stato arabo. Attualmente, però, sembra scarseggiare la fiducia in un processo di democratizzazione che liberi l’Egitto da un regime autoritario e, allo stesso tempo, preservi intatta la sicurezza israeliana sul confine sud-occidentale; i commenti, anche sui quotidiani più liberali e progressisti come Haaretz, sono molto scettici, ed è la stessa testata a riferire che dal Ministero degli Esteri israeliano sarebbero partiti dei cabli urgenti alle ambasciate negli Stati Uniti e nei principali paesi europei, con istruzioni precise affinché i diplomatici facciano pressione sugli Stati che li ospitano, ricordando l’importanza della stabilità del regime egiziano per il mantenimento della pace nella regione.

DEMOCRAZIA = FRATELLANZA? – I timori israeliani ruotano intorno a una considerazione di realpolitik abbastanza semplice e intuitiva: in un Egitto propriamente democratico, le elezioni non sarebbero decise dai voti degli studenti universitari o degli intellettuali cairoti, ma dai milioni di egiziani degli strati sociali più poveri, che potrebbero realisticamente dare il loro voto ai Fratelli Musulmani, vera bestia nera agli occhi degli osservatori israeliani, piuttosto che a figure più “moderate” come el-Baradei.  Ma se questo è sicuramente il nucleo della questione, i possibili sviluppi in Egitto acquistano un’aurea ancora più minacciosa, da un punto di vista israeliano, se inseriti nel contesto regionale. Innanzitutto, già da alcuni giorni l’esercito del Cairo non è più in controllo dei valichi con la striscia di Gaza, il cui confine meridionale è, al momento, amministrato unicamente dalle milizie di Hamas. Allargando lo sguardo, in Giordania le manifestazioni di piazza sono iniziate quasi in contemporanea con quelle di Tunisi, e sebbene sia estremamente poco probabile che portino a un cambio di regime, restano di sicuro un elemento potenzialmente destabilizzante per la Giordania, l’unico altro Stato arabo ad aver sottoscritto e rispettato un trattato di pace con Israele.

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LA SCINTILLA LIBANESE – Allo stesso tempo, in Libano un Primo Ministro espressione di Hezbollah, Najib Mikati, è riuscito ad ottenere l’appoggio della maggioranza al Parlamento, realizzando così uno degli incubi per gli esperti di sicurezza israeliani, ossia un intero paese arabo retto da un’organizzazione che Tel Aviv considera terrorista; in ultimo, il Rais siriano Bashar al-Assad rivendica la stabilità del suo paese, in confronto all’Egitto, spiegandola col fatto che, mentre Mubarak intratteneva rapporti diplomatici con gli Stati Uniti e soprattutto con Israele, alienandosi così il sostegno popolare, un errore che Assad si proclama ben attento a non commettere. Guardando a questo scenario, dunque, non stupisce come stia riaffiorando tra l’opinione pubblica e la leadership politica israeliane la pluridecennale paura di un accerchiamento arabo apertamente ostile nei confronti dello Stato ebraico: l’islamismo sembra destinato a farla da padrone nel futuro scenario politico della regione, e gli israeliani cominciano a chiedersi se il loro mantra politico di un Medio Oriente democratico come pre-condizione per una pace stabile e duratura non sia da rimpiazzare con un più approccio più realista, in supporto delle oligarchie e dei regimi autocratici.

L’OSSESSIONE ISRAELIANA – Bisogna però chiedersi se i timori israeliani siano fondati su dati reali o su proiezioni più tendenti all’irrazionalità. È indubbio, infatti, che, nonostante le dichiarazioni di comodo di Bashar al-Assad, le sollevazioni popolari in Egitto abbiano ben poco a che fare con i rapporti tra Mubarak e Israele: le proteste sono veicolo di istanze politiche, sociali, ed economiche, e se anche qualche spunto anti-israeliano è presente, si tratta comunque di voci assolutamente minoritarie. I Fratelli Musulmani, che pur essendo importanti sono comunque parte di un cartello di gruppi politici estremamente variegato, sono consci di questo, così come intuiscono che una eventuale prominenza del messaggio anti-israeliano risulterebbe in un repentino allontanamento da parte di tutti quegli attori politici internazionali che fino ad ora hanno appoggiato, più o meno apertamente, le proteste. E se in Giordania, come spesso ripetuto da analisti ed esperti, le proteste si risolveranno in un’ennesima mossa inclusiva da parte della monarchia Hascemita, che manterrà il potere pur trovandosi costretta ad avallare una serie di riforme sociali, economiche, e politiche, in Libano Hezbollah tenderà molto probabilmente a portare avanti un governo di unità nazionale, con l’appoggio, pur traballante, del maggior numero possibile di partiti e fazioni. Benché Tel Aviv giudichi il movimento sciita come uno dei suoi peggiori nemici, la leadership del Partito di Dio, come quella dei Fratelli Musulmani in Egitto, è ben consapevole del fatto che sarebbe incapace di governare il Libano in autonomia, specialmente nel caso impostasse il suo governo su una linea di scontro aperto con Israele.

Lorenzo Piras [email protected]

Una nuova alba

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – L’Africa, le sue città, la guerra, l'energia: una panoramica trasversale sul continente africano, che seppur ancora tra mille contraddizioni e problemi, si sta lentamente affrancando dalla morsa del sottosviluppo. Vediamo quali potenzialità potrebbero emergere con forza nel decennio appena iniziato

QUALCOSA STA CAMBIANDO – Qualcosa di potente si sta muovendo sotto la pelle dell’Africa. Mentre la scena, dall’Egitto alla Nigeria, dalla Costa d’Avorio al Sudan, è attraversata da nuovi tumulti per il pane e da tensioni di guerra civile, da spaventosi attentati terroristici, si possono osservare movimenti più profondi e possenti, destinati a cambiare volto al continente dimenticato, integrandolo finalmente nelle grandi correnti dell’economia globale.

In questa soglia di 2011 vediamo chiaramente due tendenze nuove, sull’energia (che da semplice riserva dell’Occidente si fa expertise e industria capace di produrre valore aggiunto, competere con le multinazionali, e alimentare il decollo economico e sociale del continente) e sulla demografia, con la potente spinta all’urbanizzazione – e una vecchia malattia, la guerra endemica.

ENERGIA – Il primo dato da cui partire è dunque la forte tendenza, attesa da qui ai prossimi decenni, a un continuo incremento nella domanda di energia. Un fenomeno che, come la spinta all’urbanizzazione, coinvolgerà l’intera Africa, sia quella mediterranea che la parte subsahariana. E’ un dato grezzo, ma confermato da diversi osservatori (in particolare l’Eia, l’agenzia statunitense per l’energia, “vede” un incremento cumulativo del 65% tra 2007 e 2035) e dalle mosse dei grandi operatori del settore (la Trafigura, uno dei principali trader di carburanti e metalli a livello mondiale, che nell’autunno scorso acquisisce da Bp la rete di distribuzione su un’ampia parte dell’Africa australe), e può significare scenari ben diversi:

– l’aumento della domanda risponderà semplicemente a uno sviluppo demografico inarrestabile, caotico, incontrollabile. Tra guerre civili e migrazioni bibliche nessuno sviluppo sociale o economico si profila all’orizzonte (ipotesi pessimista);

– l’Africa ha imboccato un sentiero di sviluppo economico, energia crescente dovrà alimentare un settore industriale in rapida espansione e diversificazione – e i consumi di una nuova società, urbana e segnata dall’impetuoso sviluppo della classe media (ipotesi ottimista);

– Come ogni economia fondata sull’esportazione di idrocarburi, il continente africano evolve verso un assetto export land model, già evidente per gli emirati del Golfo e la stessa Arabia Saudita: urbanizzazione e consumi crescenti di una società energeticamente inefficiente e parassitaria, incapace di sviluppare settori dell’economia diversi dall’estrattivo (ipotesi problematica).

 Esistono i semi per ciascuno dei tre sviluppi. La crescita della popolazione sarà particolarmente intensa in Africa, negli anni a venire: gran parte delle società africane, tutte situate nella parte subsahariana, sono ancora alle prime fasi della transizione demografica, quella che contempla altissimi tassi di natalità e di mortalità infantile, e un’aspettativa di vita molto bassa. Dei primi venti paesi al mondo per tasso di fecondità totale (numero di figli per donna) diciotto appartengono all’Africa subsahariana.

Naturalmente la transizione è in corso, ma si preannuncia lenta: secondo le previsioni del francese Institut national d’études démographiques il tasso di fecondità in quella vasta parte del continente impiegherà ancora 35-40 anni per assestarsi intorno al 2,5. Nel 2050 dunque la popolazione dell’Africa sarà raddoppiata rispetto al miliardo di oggi, ma, soprattutto, ciò significa – ancora per diversi decenni – profili della popolazione per classi di età tipicamente a piramide, i più gravosi per sostenere politiche di sviluppo, perché la quota di popolazione attiva è minoritaria e non può fare fronte a un adeguato investimento in scolarizzazione.

Eppure, se anche l’incremento nel consumo di energia (e materie prime) dovesse servire solo ad assecondare lo sviluppo demografico, sarebbe probabilmente una buona notizia. Lo sfruttamento delle risorse energetiche del continente ha, pur nella varietà di situazioni, in gran parte natura predatoria. Si può trattare di regimi profondamente corrotti e autoritari, come in Libia Algeria ed Egitto, o di élites guerriere che hanno tutto l’interesse a tenere vivi conflitti esplosi per le più svariate cause (religiose, etniche, economiche, puramente imperiali..) solo per poter mantenere indisturbate una presa incondizionata e opaca sulle risorse del sottosuolo, o di regimi che hanno lasciato campo libero a uno sfruttamento devastante, quasi apocalittico del territorio da parte delle oil companies dell’Occidente (ma non più soltanto dell’Occidente), come nel Delta del Niger. L’export è il canale per monetizzare quello sfruttamento spietato, il trattenere più risorse a favore del consumo interno rappresenterebbe comunque un interrompersi del circuito perverso, un suo allentarsi.

URBANIZZAZIONE – Possono essere le città, le nuove vaste aree metropolitane che il continente incuba nel buio ancora denso delle foto satellitari, i motori di questo riassetto interno alle società africane, capaci di imporre una nuova distribuzione dell’energia, e del potere. Perché indubbiamente le città di energia ne consumano molta, ma forse possono essere molto di più: centraline di un nuovo modello di sviluppo, della industrializzazione del continente. E’ cambiato l’atteggiamento con cui gli analisti osservano lo sviluppo urbano in Africa – fino a pochi anni fa nel fenomeno si vedevano solo i semi di prossime crisi o catastrofi, di tensioni sociali ed emarginazione estreme, di una vulnerabilità accentuata agli scompensi climatici, di una accessibilità ancora più problematica delle infrastrutture idriche e sanitarie in condizioni di estrema densità di popolazione. Queste condizioni critiche permangono e continuano a preoccupare, è bene ricordarlo, ma ora si comincia a vedere anche altro.

Il movimento all’urbanizzazione è imponente, l’Africa è il continente che era rimasto più arretrato ed è ora quello dove il mutamento sarà più rapido e intenso: la dimensione della popolazione urbana triplicherà nel periodo fino al 2050, quando ammonterà a 1.2 miliardi di persone, il 60% degli africani (si raggiungerà la metà nel 2040).

L’insediamento avverrà inevitabilmente in maniera caotica, e su territori marginali, come pendenza scoscese o pianure alluvionali, e soprattutto in aree costiere minacciate dall’innalzamento delle acque (si pensi soltanto a cosa potrebbe essere del Cairo, o della immensa megalopoli che sta diventando il tratto di costa da Accra al delta del Niger – con i suoi cinquanta milioni di abitanti previsti entro il 2020 – nel caso di un aumento di un metro, possibile entro il secolo). Eppure si è riusciti nello sforzo di ridurre drasticamente la popolazione delle bidonvilles, in questi dieci anni – soprattutto nella regione mediterranea, dove si è avuto quasi un dimezzamento. Sotto il Sahara il progresso è stato sensibile, ma ben più lento (migliori risultati in Ghana, Senegal, Uganda, ma anche in Sudafrica e Nigeria).

Soprattutto dà speranza un dato qualitativo: finalmente (e diversamente da dieci anni fa) si vede nei radar un nesso chiaro e forte tra sviluppo urbano e crescita economica, le regioni più dinamiche sono quelle dove più rapidamente cresce la popolazione delle città. Le città trainano, può essere il segno di una svolta epocale. Soprattutto le vaste aree metropolitane offrono nuove opportunità, con la intensa concentrazione della domanda di merci e servizi, di attività umane e di know how, sviluppano nuovi bisogni, in particolare nella mobilità, accumulano la massa critica delle economie di scala e per la costruzione di decisivi nodi della mobilità: finalmente petrolio, gas e metalli, grazie anche al nuovo rapporto con la Cina (ma anche India e Russia, Brasile, Arabia Saudita entrano decisamente nel gioco) diventano linee ferroviarie, autostrade, aeroporti e metropolitane in grado connettere vaste aree dell’Africa tra loro e con il mondo.

LE POTENZIALITA' – Questo crea le premesse per un possibile sviluppo di attività manifatturiere, la diversificazione dell’economia e il suo affrancamento dalla maledizione delle materie prime. Sì è ancora molto indietro su questa strada, eppure si vedono chiari i primi passi: nel dato grezzo di una intensa crescita economica, attuale e attesa (nei prossimi decenni l’Africa sarà davanti all’Asia orientale, nei tassi di sviluppo), vediamo paesi che non hanno un importante export estrattivo svilupparsi a tassi analoghi alle altre economie. E’ inoltre atteso un boom della classe media, e relativa espansione del mercato interno. Nello stesso settore petrolifero parte dell’Africa (Sonangol in Angola, Oando in Nigeria) comincia a prendere in mano la propria fortuna, sviluppare industrie autonome dotate di tecnologie ed expertise in grado di rivaleggiare con le compagnie multinazionali anche su mercati esteri difficili e problematici, come l’Iraq.

Andrea Caternolo [email protected]

TiRiot: sulle strade di Tirana

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In queste ultime settimane stiamo assistendo ad una fase di trasformazione radicale della situazione politica del Mediterraneo. Venti di rivolta sembrano spazzare le coste del Mare Nostrum: noi spettatori occidentali abbiamo assistito alla rapida caduta del governo di Ben Ali in Tunisia e stiamo seguendo con interesse e apprensione quello che accade in Egitto. Ancora più vicino al nostro tranquillo stivale, anche l’Albania è in subbuglio. Ve ne portiamo testimonianza con delle immagini da Tirana

COSA ATTENDERSI – È ancora presto per esprimere valutazioni sugli eventuali esiti delle più o meno violente manifestazioni di questi giorni nel paese delle aquile e tracciare paralleli con le dimensioni del cambiamento avvenuto in Tunisia e di quello che lascia presagire la situazione nelle strade del Cairo, Suez, Alessandria, ma sembra di sentire che una certa voglia di cambiamento, sempre meno contenibile, accomuni i manifestanti nelle strade del Nord Africa e quelli dei Balcani. Senza insistere oltre sulle affinità delle proteste (vedi il nostro Editoriale “Tunisizzazione” ed effetto domino: il significato delle parole), la situazione albanese ha specifiche caratteristiche e registi politici ben precisi.

La situazione politica a Tirana è in stallo dalle ultime elezioni del 28 Giugno 2009, vinte con uno scarto minimo dalla coalizione di Sali Berisha sul principale partito d’opposizione, il Partito Socialista guidato da Edi Rama, carismatico sindaco di Tirana. Dall’estate di due anni fa il dibattito politico è stato monopolizzato dallo scontro tra le due figure politiche intorno alla validità delle elezioni, comunque giudicate nei limiti della legalità dagli osservatori internazionali. Da allora i socialisti di Rama hanno scelto di boicottare i lavori di parlamento e mobilitare la popolazione in una serie di manifestazioni di proteste. 

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LA CRISI – La situazione è precipitata il 21 Gennaio di quest’anno, quando nel corso di una giornata di mobilitazione popolare, la polizia ha aperto il fuoco uccidendo tre civili. Il corteo era stato indetto dall’opposizione di Rama per invitare ancora una volta Berisha a lasciare la guida del paese, sulla scia dell’indignazione causata dalla diffusione in televisione di un video in cui vengono messi in evidenza la corruzione e il nepotismo della classe al potere. Protagonisti del famigerato video sono il vice Primo Ministro e Ministro degli Esteri Ilir Meta e Dritan Prifti, Ministro dell’Economia. Oltre a ricoprire cariche importanti nell’esecutivo, i due politici sono i vertici del Movimento Socialista per l’Integrazione, il partito grazie alla cui alleanza si regge il governo di Berisha.

In seguito allo scandalo, e alla tragica conclusione della manifestazione del 21, il Primo Ministro sta vivendo il momento più basso della sua carriera politica, a tutto vantaggio dell’unico avversario Rama. Molti commentatori nazionali e internazionali puntano il dito verso il comportamento ambiguo del Sindaco della Capitale, che sembra utilizzare l’arma della sommossa popolare, senza troppo curarsi delle conseguenze per quanto riguarda l’ordine pubblico e la stabilità delle istituzioni.

L’Albania sembra stretta nello scontro personale tra i due personaggi pubblici, scontro all’ultimo sangue che non ha risparmiato colpi bassi, e lo spettro della crisi del ’97, durante la quale gli scontri nelle strade fecero registrare 2000 morti, è sempre dietro l’angolo.

VISTO DA FUORI – L’Unione Europea, che si apprestava a salutare in tempi brevi l’entrata della piccola democrazia balcanica nel sistema comune, segue con apprensione la vicenda limitandosi a invocare una soluzione pacifica e un accordo tra i due contendenti. Se la situazione di stallo delle istituzioni e di agitazione popolare dovesse perdurare le prospettive di entrare nel club dell’Europa che conta naturalmente si allontanerebbero.

Infine è utile riportare l’opinione di alcuni studiosi che suggeriscono come dietro all’acuirsi dello scontro possano esserci motivazioni economiche. Secondo le ricerche di alcune società internazionali in territorio albanese si troverebbero consistenti riserve petrolifere non ancora sfruttate e lo scontro in atto avrebbe come motivazione anche lo sfruttamento di questa lucrosa scoperta.

 

Jacopo Marazia – Immagini di Valerio Muscella

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La fine. E l’inizio?

Focus Egitto – Nuovi scontri, quest'oggi, ma una certezza: il regno di Hosni Mubarak, anche se (forse) non nell'immediato, è ormai giunto al termine, dopo che anche l'esercito sembra ritenere legittime le proteste del popolo. È una svolta storica, una nuova pagina per l'Egitto e per tutto il Medio Oriente, anche se per ora l'incertezza regna sovrana, con tanti altri scenari (Siria, Giordania, Algeria, Yemen) in ebollizione

LA FINE DI UN'EPOCA – Nuovi scontri, nuovi morti quest'oggi tra le fazioni pro e anti Mubarak, dopo che il Faraone ha dichiarato: me ne vado, ma non subito. C'è chi ha paragonato la rivoluzione che sta attraversando i paesi arabi alla caduta del Muro di Berlino. Strano in una regione dove solitamente i muri si costruiscono e raramente vengono abbattuti. Tuttavia eccoci qui a commentare la fine di 30 anni di governo. Trent'anni di Legge di emergenza, di soprusi, di diritti violati: di dittatura. Perchè le cose, come ricorda giustamente la scrittrice egiziana Randa Ghazi, vanno chiamate con il loro nome. E quella di Mubarak è stata, si può già usare il passato, una dittatura. Un governo dell'esercito, quello stesso esercito che oggi abbandona la nave che affonda. Uno smacco durissimo che segna la fine di un'epoca e forse, si spera, di un modo di fare politica all'interno del mondo arabo. Una politica fatta di repressione, durissima repressione. Almeno fino ad adesso.

L'INCERTEZZA DEL FUTURO – La popolazione non sa ancora cosa succederà. La gioia di questi giorni, i festeggiamenti, i gesti di vittoria, i sorrisi, potrebbero tornare a spegnersi. Il futuro è pieno di incertezze. Oggi si è contro Mubarak, ma domani? Una volta deposto il Faraone quali garanzie ci sono per il popolo egiziano che un altro Mubarak non salga al potere? Al momento nessuna ed il futuro non sembra promettere meglio. Libere elezioni potrebbero significare anche la salita al potere di partiti come i Fratelli Musulmani, e nè gli U.S.A., ma soprattutto Israele accetterebbero mai un tale scenario. Gaza è troppo vicina ed Hamas ancora troppo pericoloso. “Una transizione tranquilla”: queste le parole di Obama sull'Egitto. Riguardo a questo, appare indicativa la nomina a vice-presidente del capo dei servizi segreti Omar Suleiman. Uomo potentissimo, vecchia guardia anche lui, ma stimato dalla popolazione e soprattutto da Tel Aviv e dalla Casa Bianca. Potrebbe essere lui l'uomo della transizione. Sarà molto probabilmente lui l'uomo che accompagnerà il Paese verso le nuove elezioni presidenziali ed a questo punto anche parlamentari. Bisognerà vedere se ne sarà capace, se vorrà lasciare che l'Egitto cammini da solo o se continuerà a stringerlo per mano mantenendolo sotto la sua strettissima custodia.

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L'INIZIO (COMUNQUE) DI UNA NUOVA ERA – Oggi ritratti di Nasser campeggiano vicini al Corano ed all'immagine stilizzata di Che Guevara. Forze nazionaliste, Fratelli Musulmani, partiti di sinistra ma soprattutto gente comune è oggi in piazza a segnare la fine un'epoca e l'inizio, comunque vada, di una nuova era. La fuga di Ben Ali lo ha chiaramente dimostrato, ma è solo l'inizio. Basti guardare a cosa è successo ieri in Giordania, dove il re Abdallah ha deciso di sciogliere il Parlamento e nominare un nuovo Primo Ministro, nel tentativo di placare gli animi della popolazione ancor prima che si scaldino. Un Premier che comunque rimane inviso all'opposizione islamica. Non vanno meglio le cose in Siria. Sabato l'opposizione scenderà in piazza per protestare contro Bashar Assad. Si tratta di realtà ovviamente molto diversificate fra di loro, ma che hanno comunque condiviso diverse esperienze comuni come carovita, disoccupazione, repressione della libertà di espressione e limitazione delle libertà individuali. Tutti insomma hanno conosciuto il significato profondo di un termine fin troppo ricorrente in questo articolo: "dittatura". Tuttavia le dittature sono dure a morire e sembra difficile che tutto cambi così d'improvviso. Del resto l'esercito ha giocato un ruolo fondamentale nella destituzione di Ben Ali ed è stato il vero ago della bilancia per il successo della rivoluzione egiziana. Sono ancora molti, moltissimi gli scenari che potremmo trovarci a commentare.

Ricordando che anche la rivoluzione iraniana del 1979 inizialmente non fu affatto caratterizzata dall'elemento islamico, l'Egitto e più in generale tutta la regione aspetta di sapere cosa ne sarà del suo futuro. Si guarda con fiducia al futuro. Meglio però, conoscendo il Medio Oriente, non illudersi troppo.

Marco Di Donato [email protected]

Fuori controllo

Focus Egitto – Continuiamo a seguire gli eventi egiziani, anche raccogliendo alcune testimonianze dal Cairo. Due giorni di black-out, linee telefoniche staccate ed un intero paese senza connessione internet. Solo alcuni privilegiati, vicini ovviamente al PND di Mubarak, riescono ancora ad utilizzare i telefoni e a navigare sul web. Nel frattempo la protesta dilaga sempre più violenta ed apparentemente inarrestabile. Le poche e frammentate notizie che giungono all'orecchio dell'opinione pubblica danno solo una parziale idea del dramma che sta vivendo un'intera nazione.

DUE GIORNI AL BUIO – Mubarak ha usato il pugno forte. Non si è lasciato minimamente intimidire dalle migliaia di manifestanti che si sono riversati per le strade del Cairo. La paura di seguire Ben Ali in Arabia Saudita è stata più forte di tutto. L'esercito a lui ancora in larga parte fedele non ha esitato a sparare sulla folla con risultati facilmente pronosticabili: quasi 100 morti e centinaia di feriti.

Quando è iniziata la mattanza Mubarak ha deciso di chiudere ermeticamente il paese, sigillandolo dall'interno ed impedendo la diffusione di notizie riguardanti le proteste.

Solo oggi siamo riusciti a raggiungere alcuni amici in Egitto. Dopo due giorni il telefono è tornato a squillare. Le loro parole valgono molto più di qualunque articolo, perchè sono una testimonianza diretta. Fatima (il nome è di fantasia) ha il respiro rotto dal pianto. Nel suo quartiere cairota, il popolosissimo Imbeba, il coprifuoco è praticamente divenuto condizione naturale. Nessuno entra ed esce dal quartiere. Nessuno entra ed esce di casa. Alcuni morti sono rimasti per strada, l'esercito spara a vista. Nessuna distinzione fra uomini o donne, vecchi o adolescenti. Aisha (anche qui il nome è inventato) sembra essere più calma. Ma lo percepisci il senso d'inquietudine che si cela, nemmeno troppo velatamente, dietro le sue parole. "E' diventata una vera e propria guerra, tutti contro tutti. Milizie di giovani rivoltosi si aggirano per le strade. Nessuno è al sicuro".

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IL PUNTO DELLA SITUAZIONE – Il caos regna sovrano. Ce lo confermano le nostre fonti nel Paese, oltre alle immagini finora trasmesse dalle televisioni internazionali. In fondo lo immaginiamo anche da soli. Perchè se un presidente come Mubarak si presenta in televisione pronunciando un messaggio alla nazione dove annuncia di non volersi dimettere c'è da aspettarsi che la situazione peggiori ancora. Nonostante l'annuncio di un profondo rimpasto di governo la popolazione ha ormai dato il via ad un processo che sembra inarrestabile. Solo le dimissioni di Mubarak, il suo esilio, la fine della sua trentennale dittatura potrebbero far tornare la situazione alla calma, ma come insegna l'esperienza tunisina nemmeno questo scenario appare scontato. Non a caso Israele starebbe valutando proprio in queste ore se chiudere o meno  la propria ambasciata al Cairo, mentre la compagnia di bandiera israeliana El Al sta organizzando il rimpatrio di tutti i cittadini presenti nel Paese.

SEGNALI DI CEDIMENTO – E tuttavia non è scontato che questa volta Mubarak riesca ad averla vinta. Troppi cento morti ed oltre mille feriti per tornare indietro, per rimanere ancora indenni al proprio posto di comando. Ad Alessandria alcuni poliziotti hanno tolto i caschi e si sono rifiutati di manganellare i manifestanti. Per le strade del Cairo alcuni carri armati hanno lasciato sfilare i rivoltosi senza sparare un colpo. In almeno un caso hanno addirittura lasciato che un civile guidasse un mezzo in testa ad un corteo. Come in Tunisia, l'esercito inizia a sfaldarsi e la rivoluzione può divenire un popolo intero che si ribella contro il suo Faraone: così era scritto sulla fiancata di un carro armato fermo in una piazza del Cairo.

Non convince Mubarak che in televisione parla di complotto, anzi fa aumentare la rabbia di quanti non credono assolutamente che disoccupazione, inflazione, disparità sociale e mancanza di servizi statali possano essere addebitati a nessun altro se non al Faraone ed alla sua schiera di accoliti.

La protesta dilaga. Alessandria, Suez, Ismailia, Port Said. Solo a Luxor ed Assuan le crociere non hanno ancora subito variazioni di sorta. Tuttavia alcuni tour operator hanno iniziato a bloccare le prenotazioni ed altri ancora hanno deciso di annullare da subito alcuni viaggi organizzati.

Il Faraone ed il suo governo non appaiono più immortali come ai tempi degli antichi egizi. Mubarak dovrà presto rendersene conto.

 

Marco Di Donato

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Attacco alle NGOs?

Un’iniziativa del Parlamento israeliano mira ad istituire una commissione che indaghi le fonti di finanziamento delle NGOs (Organizzazioni Non Governative) israeliane filo-palestinesi. La destra le accusa di ricevere finanziamenti da governi ostili ad Israele per fare propaganda contro l'esercito e delegittimare lo stato ebraico.

LA COMMISSIONE – Ad inizio gennaio il parlamento israeliano ha promosso (47 a favore, 16 contro) l'istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sulle fonti di finanziamento delle NGOs (Organizzazioni non Governative) israeliane, per accertare quali siano gli stati che le finanziano, cosa chiedano in cambio, e verificare possibili collegamenti con organizzazioni terroristiche.

In vista del voto definitivo l’opposizione si è mobilitata sulla stampa e in piazza. L'obiettivo è bloccare quella che è ritenuta una mossa mirata a minare l'immagine pubblica dell'opposizione come movimento nazionale, anche se dissidente rispetto alle politiche governative.

 

GLI ARGOMENTI – La destra rivendica il provvedimento come un atto di trasparenza. Le NGOs sono accusate di fare propaganda tra i giovani israeliani per convincerli a cercare di aggirare il servizio militare (in Israele è obbligatorio, dura 3 anni per gli uomini e 2 per le donne, e prevede il servizio attivo nei territori) e di calunniare le forze armate, svolgendo un ruolo centrale nel delegittimare lo stato ebraico agli occhi nell'opinione pubblica mondiale. L'attività delle organizzazioni fornirebbe argomenti a chi organizza le campagne di boicottaggio, sanzioni e disinvestimento, che mirano a strangolare economicamente il paese; non sarebbe frutto della spontanea iniziativa di una parte della società civile, bensì finanziata e guidata da governi ostili.

 

L'accusa più grave è quella di collegamento con gruppi terroristici. L'unica prova presentata a sostegno è un rapporto dell'American Center for Democracy (link alla parola “rapporto”http://www.jpost.com/Opinion/Columnists/Article.aspx?id=203545), secondo il quale un fondo istituito dalla lega araba (l’Islamic Development Bank), che ha finanziato una delle NGOs sotto accusa, avrebbe anche compensato le famiglie dei kamikaze palestinesi nel corso della Seconda Intifada(2000-2006). La NGO in questione ha risposto che quel finanziamento costituisce minima parte delle loro risorse(2%) e che l'Islamic Development Bank e' coinvolta solo indirettamente: i soldi vengono trasferiti dal fondo Development Centre con base a Ramallah, a sua volta finanziato dalla Welfare Association. Quest’ultima ha un bilancio di 30 milioni di dollari provenienti dalla US Agency for International Development, dalla Banca Mondiale, dalla UE, dal Canada, dalla Ford Foundation, dal Princess Diana Memorial Fund, e, anche, dall’Islamic Development Bank, il quale ha contribuito con 800 mila dollari.

 

L’opposizione denuncia il clima da caccia alle streghe e i rischi per la democrazia derivanti da una commissione parlamentare investita di poteri giudiziari e incaricata di giudicare avversari politici. Ha evidenziato inoltre come la persecuzione statale delle NGOs sia più degna di un regime autoritario moderno che di uno stato democratico, criticandone i promotori: il partito nazionalista Yisrael Beiteinu del Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman.

 

NGO's – I territori palestinesi sono una delle aree più diffusamente monitorate al mondo. Negli ultimi 30 anni diverse NGOs hanno documentato quella che definiscono sistematica violazione dei diritti umani dei palestinesi da parte dell'esercito israeliano. Il tipo di violazioni riscontrate sono inadeguatezza dell’accesso alle strutture sanitarie, demolizione di case, violenze ai checkpoints, imprigionamenti arbitrari, torture, uccisioni immotivate e restate impunite. Tuttavia e' il lavoro delle NGOs israeliane ad essere politicamente più esplosivo: essendo il loro personale composto di ebrei israeliani, la loro attività non è liquidabile con l'accusa di antisemitismo.

 

OBIETTIVO – La destra israeliana è consapevole della minaccia rappresentata dalla credibilità del lavoro di queste NGOs; non potendone intaccare l’immagine all’estero, tenta di screditarle agli occhi dell'opinione pubblica interna, facendo leva sul sentimento nazionale (molto sentito in Israele).

La commissione sulle NGO e' l'ultimo di una serie di discussi provvedimenti (link alla parola provvedimenti), promossi dal partito di Lieberman. Tra questi il diritto per le singole comunità di impedire ad elementi culturalmente non conformi agli usi della comunità stessa (principalmente arabi in comunità ebraiche) di risiedere nel proprio territorio, la legge per perseguire chi fa campagna a favore del boicottaggio di Israele, la legge per revocare la cittadinanza per i colpevoli di tradimento o terrorismo.

Il deterioramento dell’immagine di Israele sulla scena internazionale presenta alla destra israeliana l'occasione di attaccare ulteriormente l'opposizione scaricando sul lavoro degli attivisti filo-palestinesi la colpa del crollo d’immagine dello stato ebraico.

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POSTA IN GIOCO – La sinistra sostiene che la politica della destra verso la questione palestinese, ovvero la mancanza di concessioni viste come vitali condizioni di un accordo di pace, sia una strada senza uscita. Israele non potrà continuare a lungo controllare i territori senza garantire agli abitanti i pieni diritti politici, e presto si troverà di fronte ad un bivio: annettere i territori palestinesi, o permettere la creazione di uno stato Palestinese. Annettendo i territori, gli ebrei sarebbero ridotti in pochi anni a minoranza nel paese, e potrebbero mantenere il controllo dello stato solo privando gli arabi dei diritti politici, rendendo Israele uno stato a democrazia di fatto limitata. Alla luce di questo scenario, la sinistra argomenta che, per conservare la natura ebraica e democratica di Israele, il paese debba rassegnarsi a cedere il controllo dei territori biblici di Giudea e Samaria (la Cisgiordania) ai palestinesi, per costruirsi il proprio stato. La sinistra sostiene inoltre da tempo che l’occupazione, il dominio su un altro popolo, stia distruggendo moralmente la società israeliana, rendendola progressivamente razzista e intollerante verso tutto ciò che è arabo. E i rapporti delle NGOs non farebbero che provarlo.

I ripetuti fallimenti del “processo di pace” hanno gravemente compromesso la popolarità della narrativa della sinistra, mentre la destra ha incrementato consenso e voti predicando sicurezza, intransigenza ed unilateralismo. Vivendo il logoramento delle proprie posizioni e senza disporre di una politica alternativa, la sinistra israeliana in questa battaglia corre, quindi, un rischio mortale: vedere messa in discussione la stessa legittimità delle proprie posizioni storiche nel dibattito pubblico.

Luca Nicotra

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Barack ce la fa?

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Da Washington – Ecco la prima analisi sugli Usa del nostro speciale. La politica statunitense vista dal di dentro, da chi vive nella capitale americana. Una politica che ha continuato a spostarsi verso gli orientamenti della destra nel corso del 2010, come reazione alla presidenza Obama, il perdurare della recessione economica, e la polarizzazione della politica di Washington. Eppure il governo Obama non ha del tutto perso la propria azione, e alcune vittorie nelle ultime settimane del 111esimo Congresso hanno la possibilità di fare risorgere il Partito democratico durante la seconda metà del mandato Obama.

NESSUN COMPROMESSO – Dopo la riforma sanitaria dell'inizio dell'anno scorso, il partito repubblicano ha raddoppiato gli sforzi per bloccare l'agenda legislativa di Obama, con discreto successo. Dopo due anni di governo, quasi 200 posti nella burocrazia federale e nel consiglio della magistratura non sono stati confermati dal Senato, e ci sono state 280 chiamate a cloture (il processo parlamentare volto a terminare un dibattito e forzare un voto definitivo su una proposta di legge) più che durante gli ultimi due Congressi insieme. L'obiettivo di questa strategia è di ostacolare qualsiasi vittoria politica al presidente. Allo stesso tempo, critiche legali alla riforma sanitaria stanno cancellando l'effetto (sia psicologico che legale) del progetto principale del governo dell'anno scorso. A dicembre, un giudice federale ha negato gli argomenti principali del governo di obbligare la popolazione a possedere un’ assicurazione sanitaria, una diffusione necessaria di rischio per abbassare il prezzo dei servizi medici. (Negli Stati Uniti, il cittadino media spende il doppio che l'italiano medio per servizi medici ogni anno.) Fino ad ora la situazione sembra favorire i repubblicani. Le elezioni di novembre hanno restituito loro la maggioranza della Camera e il suo nuovo presidente, John Boehner dell’ Ohio, ha intenzione di continuare l'offensiva della destra contro l'espansione del governo federale. STATALISMO O NECESSITÀ? – Nonostante ciò, il governo ha aumentato di fatto il suo ruolo politico-economico nell'anno passato per combattere la recessione economica. Vista la paralisi degli organi politici, che controllano la politica fiscale del governo federale, questo lavoro viene svolto principalmente dalla Federal Reserve, “arma” autonoma tecnica che controlla la politica monetaria per mezzo del tasso di interesse. Però, con l'interesse praticamente allo 0% (e la perdurante possibilità di prezzi e stipendi in crollo), la Fed e il suo capo Ben Bernanke hanno ideato nuovi meccanismi di stimolo monetario. Il processo di quantitative easing, condotto in due fasi nel 2010, ha iniettato miliardi di dollari nell'economia per riaccendere i consumi del popolo americano. Ma la disoccupazione rimane stabile a circa il 10% e il credito istituzionale, fonte di nuovi investimenti, rimane ancora bloccato dalla paura. Esperti economici dicono che serviranno altri tre anni prima che l'economia ricominci a crescere a livelli normali. Ma per arrivare anche a quel punto di stabilità ci vorrà una riforma fiscale al livello federale. Il deficit pubblico era a livelli insostenibili anche prima della crisi, e adesso vanno aggiunti un altro trilione di dollari all'anno al debito. Una commissione bipartitica ha proposto a novembre un programma di riforme di tasse e spese governative, ma non è riuscito ad arrivare al numero di voti necessario per mandare la proposta ad un voto al Congresso. In ogni caso, la proposta sarà un punto di partenza per la conversazione economica che verrà. VITTORIE DELL'ULTIMO MOMENTO – Dopo la sconfitta democratica ai sondaggi di novembre, tanti davano ormai per scontata la fine dell'ambiziosa agenda di Obama. Ma non è stato così. Fra le elezioni e la fine del 111esimo Congresso il 23 dicembre, Obama è riuscito a forzare voti finali su tanti progetti originati nel suo periodo di candidatura: una serie di trattati nucleari con la Russia (anche per cui Obama ha vinto  il Premio Nobel per la Pace del 2009), l'eliminazione della proibizione militare per gli omosessuali, e la continuazione di livelli abbassati di tasse sono stati approvati con l'aiuto di un gruppo di senatori repubblicani moderati. Questi “ribelli” del centrodestra diventeranno sempre più importanti per Obama durante il prossimo Congresso, quando la leadership dell'opposizione diventerà più dipendente dall'estremista Tea Party, il cui gruppo parlamentare avrà 60 membri (quasi un quarto della conferenza repubblicana nella Camera).

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PRAGMATISMO – Nonostante il grande teatro della politica dell'anno scorso, il fondamento rimane lo stesso. Dalle campagne militari in Afghanistan e Iraq alla gestione dell'economia globale, la politica degli Stati Uniti è guidata da un centro che apprezza il pragmatismo. Questo centro rimane presente sia nei democratici (Obama, Segretario di Stato Hillary Clinton, e il Senatore John Kerry) che nei repubblicani (i Senatori Dick Lugar e Lamar Alexander e il Segretario della Difesa Robert Gates) e sono capaci di incontrarsi l’un l’altro in mezzo ai contrasti delle due parti politiche. Se riescono a tenere il controllo della sostanza della politica esterna americana, con qualsiasi procedura, la posizione degli Stati Uniti rispetto al mondo non si sposterà dal suo pragmatismo storico.

Christopher Dittmeier

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Le nuove piaghe d’Egitto

Il Giro del Mondo in 30 Caffè / Focus Egitto – La cronaca di questi giorni, le tensioni, i morti, spiegano da soli il nostro titolo. E sullo sfondo, c'è qualcosa in ballo ancora più importante. La fine del mondo per gli egiziani potrebbe arrivare un anno in anticipo rispetto al 2012. Certamente la fine di “un mondo” quello del Faraone Mubarak vedrà la luce il prossimo autunno. Spiegare il 2010 dell'Egitto e provare ad immaginare il suo 2011 diventa difficile, a non dire impossibile, se non si tiene nel giusto conto l'enorme peso delle prossime elezioni presidenziali, quelle che vedranno salire in carica un nuovo presidente egiziano dopo i 30 anni di reggenza Mubarak

VERSO IL 2011 – Un anno di preparazione. Di spasmodica attesa. Un 2010 da vivere il più velocemente ed intensamente possibile prima del momento decisivo, dell'appuntamento da non mancare. Le opposizioni governative, parte della società civile, ma anche la gente comune, hanno trascorso il 2010 con più di uno sguardo già proiettato sul 2011. Anche perché già i primi mesi dell'anno non lasciavano presagire nulla di diverso rispetto a quelli precedenti.

Certo in Febbraio il ritorno di Muhammad el-Baradei (ex-capo dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica nonché Nobel per la Pace nel 2005 – nella foto) era stato salutato da oltre mille persone che acclamandolo all'aeroporto del Cairo gli chiedevano di scendere in politica per portare un radicale cambiamento nel paese sfidando la famiglia Mubarak. Certo perché di famiglia si tratta. Non solo l'ingombrante ombra di Mubarak padre che ha tenuto saldamente in mano il governo egiziano per 30 anni, ma anche l'uomo nuovo Gamal Mubarak, il figlio del Faraone. Il 2010 è stato anche l'anno della sua ufficiale candidatura per le prossime presidenziali. Nulla di nuovo verrebbe da dire.

Nulla di nuovo nemmeno quando Mubarak padre annunciava in Maggio che la Legge di Emergenza Nazionale sarebbe stata nuovamente prorogata. Ancora, dopo 30 anni. Del resto sarebbe stato impensabile che il vecchio Faraone, stanco e secondo la stampa israeliana così malato da essere ormai in fin di vita, non avrebbe potuto dare un segno di debolezza. Non ora. Non così vicini alla successione, verrebbe da dire in stile dinastico, fra padre e figlio. Non adesso che deve preparare il terreno per la salita del figlio.

Il 2010 può essere considerato un anno di grandi speranze ed altrettanto grandi frustrazioni per la società egiziana. Una società che ha visto, a partire dal 2004, un'esponenziale crescita dei partiti di opposizione al governo. Una società che ha creduto nel messaggio di cambiamento portato da movimenti come Kifaya, i Fratelli Musulmani o anche di frange storiche come i nazionalisti del Wafd. El-Baradei si era fatto portatore di un messaggio di unità contro Mubarak ed in realtà tutto il 2010 va letto come un anno difficile, difficilissimo per il regime egiziano. Contestazioni di piazza sedate nel sangue, manifestazioni sempre più frequenti delle opposizioni, una sempre più palese insofferenza della popolazione dello stato di polizia (Il Cairo è la città con il più alto rapporto numerico fra civili e forze militari dispiegate sul territorio urbano) imposto da Hosni Mubarak.

Ben consapevole di tutto questo, il Faraone è corso ai ripari. Seggi blindati, chiusi e riaperti a piacimento degli agenti di sicurezza, osservatori internazionali lasciati a casa. Si sono svolte così le ultime elezioni legislative egiziane (Dicembre 2010). Il momento in cui le opposizioni credevano di poter raccogliere i frutti di un anno doloroso, difficile, in cui la scure della repressione statale non aveva esitato a far sentire tutta la propria veemenza. Il Partito Nazionale Democratico (quello storicamente fedele alla compagine governativa) si è affermato nella maggioranza dei seggi, lasciando le briciole al Wafd ed azzerando la presenza islamica all'interno del Parlamento. Elezioni palesemente svolte in un clima di tensione, in assenza di osservatori internazionali ed i cui risultati sono il risultato di una violenta campagna intimidatoria. Anche in questo nulla di nuovo per il paese. 

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UNA STORIA GIÀ SCRITTA – Considerate tali premesse un 2011 diverso è difficile da immaginare, tuttavia alcune sorprese non sono da escludere. E questo per due motivi. In primo luogo perché il Vicino Oriente è storicamente una regione politicamente instabile dove il cambiamento di un regime o di un governo è sempre dietro l'angolo. Se l'esperienza storica dell'Egitto ha insegnato qualcosa è che spinte estremistiche possono destabilizzare il paese in qualsiasi momento. Sadat docet. Secondariamente perché la figura di Mubarak e più in generale di tutto il suo establishment di potere sembra ormai aver raggiunto il capolinea. I generali in pensione non riescono ad accordarsi sulla figura di Gamal Mubarak, figura che molti ritengono inadatta alla guida del paese. Una corposa frangia di potere interna al PND potrebbe appoggiare dunque una terza figura alternativa tanto a Gamal Mubarak quanto a Muhammad el-Baradei. Ma un'incognita sono anche i Fratelli Musulmani, destituiti del loro ruolo di opposizione politica dopo i catastrofici risultati delle ultime parlamentari (da 88 a 0 seggi in 4 anni) e dunque quasi costretti a rimpolpare le fila dei movimenti extraparlamentari come ad esempio Kifaya.

In realtà però il vero ago della bilancia nelle prossime elezioni saranno, come spesse volte è accaduto in Medio Oriente, gli Stati Uniti d'America. Considerati gli attuali equilibri geopolitici nell'area, le difficoltà irachene e gli storici interessi di Washington nel paese sembra davvero difficile, se non impossibile, che gli U.S.A. rimangano spettatori passivi di elezioni presidenziali che in un modo o nell'altro cambieranno il volto del paese.

La linea scelta sarà probabilmente quella di sostenere la candidatura di Gamal Mubarak presentandolo come “uomo nuovo”. Leader del mondo degli affari egiziano, diversamente dal padre non appartiene all’ambiente militare, Gamal potrebbe divenire il quarto presidente egiziano dopo Nasser, Sadat ed il padre Hosni se riuscirà a trovare un equilibrio fra nuove e vecchie necessità. Per salire al potere in Egitto ci sarà bisogno di accontentare le richieste della società civile che da tempo ormai chiede l'abrogazione della Legge di Emergenza del 1981 e più in generale un'apertura del sistema politico egiziano. Dall'altra si dovrà rassicura la “vecchia guardia” ed alcune frange dell'esercito che preferirebbero appoggiare un umo forte e certamente maggiormente di continuità come Suleiman. Un'impresa complessa, soprattutto se consideriamo che la società egiziana si è espressa in maniera trasversalmente negativa rispetto alla successione dinastica di padre in figlio. Tuttavia le richieste caldeggiate dai movimenti di opposizione potrebbero essere raffreddate grazie a concessioni ed elargizioni di favori su larga scala.

UNO SCENARIO A SORPRESA – Una storia dunque che sembra già scritta e che dovrebbe concludersi senza clamorosi colpi di scena. O forse no? Le tensioni sociali nel paese si inaspriscono sempre più. Del resto i dati economici parlano chiaro. Nonostante gli incoraggianti dati macroeconomici, l'economia egiziana è affetta da alcune problematiche di natura strutturale che ne mitigano gli effetti positivi. L'enorme peso del settore pubblico (il quale sta divenendo sempre più privatizzato all'insaputa dei suoi stessi dipendenti), l'endemica crisi dell'oneroso sistema di sussidi statali (cosa non da poco in un paese dove circa la metà degli 81 milioni di abitanti vive al di sotto della soglia di povertà) ed un tasso di disoccupazione che secondo fonti non governative ha ormai raggiunto il 20%, sono tutti elementi da non sottovalutare. Del resto, nonostante le fortissime pressioni che eserciteranno presumibilmente gli U.S.A. sembra difficile che le forze di opposizione (Fratelli Musulmani, Wafd e più in generale tutte le forze antigovernative) lascino trascorrere passivamente un'occasione, forse unica, per il cambiamento del loro paese.

Proprio per questo le recenti violente proteste di piazza (25-26 gennaio) assumono un valore del tutto particolare. Il paese è sul punto di esplodere, o forse è già definitivamente esploso. Voci di corridoio vorrebbero il futuro presidente egiziano Gamal già a Londra con tutta la famiglia. Mentre per le strade aumenta sempre più la massa di manifestanti (Al-Jazeera parla di migliaia di persone) folla che protesta contro il governo, quest’ultimo mostra il suo volto più feroce reprimendo con violenza le rimostranze della gente e chiudendo in pratica l'accesso alla rete internet. E’ questo lo scenario a sorpresa che forse ci si doveva attendere, anche conoscendo a fondo la storia del Paese. Delegittimare Mubarak e famiglia prima che abbiano l’opportunità di riconfermarsi alla guida del paese durante l’ennesima farsa elettorale. Sembra questa una delle strade percorribili dall’opposizione per provare ad imprimere una svolta al paese, o almeno è questo lo scenario che presumibilmente ci troviamo a commentare.

Marco Di Donato

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Da tripla in schedina

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Ebbene sì, è come il vecchio 1X2 del Totocalcio:  nel 2011 libanese può succedere di tutto. Tra un nuovo premier e accuse bipartisan di voler tentare un colpo di stato, il Libano appare alla ricerca costante di un equilibrio sempre più difficile da trovare. Logico quindi che si guardi al 2011 con preoccupazione. Quale sarà la prossima mossa di Hezbollah, quale atteggiamento adotterà Israele, ma soprattutto quali saranno le ripercussioni della pubblicazione dell’atto di accusa formale del Tribunale Onu che indaga sull’omicidio di Rafiq Hariri? Domande alle quali non è facile rispondere vista l’enormità di attori in gioco che aumentano quasi all’infinito gli scenari possibili.

FACCIAMO IL PUNTO – Siria, Turchia, Qatar, Arabia Saudita: Sono questi 4 i paesi che ufficialmente, ma soprattutto ufficiosamente, stanno provando a ricreare una seppur fragile forma di equilibrio nel paese mediando tra le dure posizioni di Hezbollah e le richieste della parte avversa, l'ex coalizione governativa del 14 Marzo. Si tratta in segreto, senza cercare il clamore delle prime pagine. Il compito non è affatto semplice.

Nasrallah, leader di Hezbollah, ha già affermato che chiunque si azzarderà ad accusare anche solo uno degli uomini del suo partito verrà trattato come un nemico: “Gli taglieremo le mani”. A seguito di questa chiarissima minaccia, il Partito di Dio ha pensato in questi primi giorni dell’anno di voler dimostrare la sua forza, politica ancor più che militare. La scorsa settimana pare che a Beirut forze di Hezbollah abbiano simulato un colpo di stato bianco, dislocando uomini, non armati, nei punti nevralgici della città. Una chiara dimostrazione di forza, anche qui senza troppi giri di parole.

Il 14 marzo (coalizione composta dalle Forze Libanesi – formazione cristiana di destra – Movimento d'indipendenza e Partito del Rinnovamento Democratico) osserva preoccupato l’evolversi della situazione, quasi impotente di fronte allo strapotere di Hezbollah. Saad Hariri, dopo esser stato costretto nei fatti a dimettersi, prova una faticosa opera di riconciliazione chiamando a colloquio tutte le forze politiche. Tuttavia è quasi certo che non avrà l’appoggio delle forze dell’8 marzo – formata da Hezbollah, Amal (sciiti) e Movimento Patriottico (cristiani fedeli a Michel Aoun) – né tanto meno dei drusi di Walid Jumblatt, ormai decisamente orientati a sostenere senza mezzi termini il nuovo premier Najib Mikati (foto sotto).

L’idea di Hezbollah, e la nomina di Mikati ne rappresenta il primo passo, sarebbe quella di formare un nuovo esecutivo (nuovo premier e nuova squadra di governo) che una volta insediato si proclami indipendente rispetto alla conclusioni cui giungerà il Tribunale Speciale dell’Onu, fortemente voluto da U.S.A. e Gran Bretagna, che indaga sulla morte dell'ex premier Rafiq Hariri. Un esecutivo, per utilizzare ancora le parole di Nasrallah, che non cada nell’ennesima trappola del complotto (termine estremamente ricorrente in Medio Oriente) teso dagli interessi americani e sionisti.

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UNO SCONTRO POLITICO – Va tuttavia registrato come lo scontro sia, almeno per ora, fermo ed immobile sul piano politico. In un paese che subito s’infiamma e le cui esagerate passioni hanno già portato a sanguinose guerre civili, bisogna riconoscere come per adesso le forze politiche abbiano evidentemente deciso di non esacerbare eccessivamente gli animi. Questo anche perché nessun partito o movimento libanese può competere autonomamente sul piano militare con Hezbollah, il quale a sua volta appare ben conscio dei rischi derivanti per la sua immagine una volta fosse riconosciuto responsabile di una nuova guerra civile.

Nessuna soluzione sembra comunque poter essere raggiunta in tempi brevi. Anzi, tempi notoriamente lunghi delle diplomazie cercheranno di portare entro un mese il Libano verso un accordo comune fra le parti politiche. Un mese solo, perché è proprio fra circa 30 giorni verranno resi pubblici i capi di accusa contro i presunti assassini dell’ex premier Hariri ed Hezbollah, insieme alla Siria, sembra essere sulla lista.

Ed Hezbollah non accetterà mai un governo che riconosca come valide le accuse portate nei suoi confronti. La sua posizione si è ulteriormente consolidata nel corso del 2010 ed ormai Nasrallah parla sempre più, a torto o a ragione, come un vero e proprio capo di Stato. Non a caso i mediatori turchi e del Qatar hanno visitato il leader sciita subito dopo aver incontrato il presidente della Repubblica Michel Suleiman, il dimissionario premier Saad Hariri e lo speaker del Parlamento Nabih Berri. Nasrallah viene trattato come il quarto, ma forse più importante, pilastro della traballante repubblica libanese.

UN INCERTO 2011 – Nel frattempo cresce all’interno del paese un clima di tensione che assomiglia sempre più a pura e semplice paranoia. La paura di nuove violenze non può essere assolutamente calmierata dal fatto che finora i vari leader politici abbiano deciso di mantenere bassi i toni del confronto. Appare infatti quasi impossibile compiere previsioni sul futuro del Paese, capace nella sua storia di sprofondare in un attimo nella più totale brutalità e purtroppo non altrettanto velocemente uscirne. Anni di guerre civili infestano le memorie di chi ha vissuto quei tremendi anni ed hanno riempito fin troppe pagine di libri per essere facilmente dimenticati.

Tuttavia, come già evidenziato, i segnali giunti finora dalle cronache locali non sembrano andare in questa direzione, tanto che l’autorevole quotidiano in lingua inglese Daily Star Lebanon ha sottolineato, in un editoriale visibilmente sorpreso, come il confronto si sia finora svolto secondo le regole democratiche previste dalla legge libanese. Tuttavia il Libano e più in generale i Paesi della regione ci hanno abituato nel corso della storia a veri e propri colpi di scena improvvisi, lasciando quasi sempre l’amaro in bocca per il mancato happy end.

Il nuovo premier voluto da Hezbollah, Najib Mikati, pur avendo ricevuto la maggioranza delle preferenze parlamentari non gode di alcuna fiducia da parte del resto delle forze politiche libanesi. Per tali ragioni, il 24 gennaio è stata indetta la “Giornata della Rabbia”. I sostenitori di Hariri sono scesi in piazza per protestare contro la nomina di Mikati, e solo l’intervento dell’esercito ha permesso il ritorno alla normalità.

Come sempre il Paese appare costantemente in bilico fra un ritorno alla normalità e l’eruzione di nuove violenze. In una situazione in continua evoluzione come quella libanese provare ad immaginare scenari futuri equivale al momento alla lettura di un pronostico all’interno di una palla di vetro.

Marco Di Donato [email protected]

It’s not (just) the economy, stupid

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – A tutta Cina: Pechino è sempre più protagonista della scena internazionale, in ogni parte del mondo. Analizziamo assieme l'evoluzione  2010-2011 dei rapporti in Europa e Asia, senza dimenticare lo scenario G2 Usa-Cina. L'importante, però, è la chiave di lettura: non possiamo utilizzare solo i nostri criteri di giudizio e interpretativi. E soprattutto, la frase-slogan della campagna elettorale di Clinton va qui aggiornata: non si può più parlare di Pechino solo come di un gigante economico. A suo modo, è anche questa la lezione del caso Nobel a Liu Xiaobo

AL DI LA' DEL PROPRIO NASO OCCIDENTALE – Il ruolo economicamente ingombrante all’interno del G20, la posizione di assoluta forza nell’ASEAN e l’equilibrio perseguito e difficile del moderno G2 non rappresentano l’unico terreno d’analisi dei rapporti politico economici tra la Cina ed il resto del mondo. Una delle scommesse più difficili, quando si analizza il complesso sistema delle relazioni bilaterali instaurate dal governo di Beijing in questi anni di “denghismo” militante, nodo insolubile di elementi di realpolitik e liberismo a fondante supporto dei sopracitati rapporti stato-stato, consiste nel tentativo spesso fallimentare di comprendere dinamiche culturalmente lontane dal nostro europeissimo modo di intendere le relazioni internazionali. Come vedremo, è proprio l’interpretazione strettissima di queste caratteristiche acquisite dal linguaggio del capitalismo occidentale a permettere alla Cina di negare qualsiasi dovere di political correctness. In una retrospettiva sull’anno che è stato – quel 2010 che nei bilanci degli uffici statistici della capitale cinese è stato archiviato alla voce “chenggong”, successo, mentre il nuovo mondo e molte potenze europee vacillavano sotto il peso di una crisi economica che non aveva uguali dal tragico "black friday" del 1929 – l’economia non rappresenta la sola, classica chiave di lettura per capire la Cina contemporanea.

COSA CI INSEGNA IL CASO NOBEL – La politica percorre strade che spesso si allontanano dal solco sicuro tracciato dal potere di uno yuan immutabile e da un volume di commesse che non accenna minimamente a diminuire. Certo, tra il 2009 e 2010 la China Development Bank e la Export Import Bank of China hanno prestato almeno 110 miliardi di dollari a governi e aziende di paesi in via di sviluppo, superando i crediti erogati dalla Banca Mondiale e confermando che, nell’ottica di assicurarsi l’accesso a nuove fonti di materie prime, investimenti economici e politiche bilaterali con paesi africani e  dell’America Latina rappresentano le due facce della stessa medaglia.

Nonostante ciò il caso Liu Xiaobo dimostra come il gigante, di fronte di un piccolo Paese come la Norvegia, con i suoi 4 milioni di abitanti, possa permettersi di sovvertire nell’arco di una rapida conferenza stampa un rapporto bilaterale che era addirittura in procinto di essere potenziato attraverso una serie di negoziati volti alla sigla di un accordo di libero scambio ed ora rinviati sine die.

Questo dato da solo aiuta a comprendere come può accadere che all'improvviso qualsiasi stima diventi imprevedibile, azzardata, e ci si ritrovi senza un partner commerciale che prometteva un trattamento simile a quello riservato alla sorella Svezia (3,8 miliardi di dollari nel 2010).  

IL DEBITO? TE LO PRENDO IO – Ma, rimanendo in Europa, se la Cina rompe con i Paesi del nord è impossibile d’altro canto ignorare il nascente versante di collaborazione varato con Grecia e, soprattutto, Portogallo. Quest’ultimo ad un passo dal diventare un ponte dorato verso il ricco sottosuolo di Angola e Mozambico, partner commerciali privilegiati del paese iberico sin dall’epoca coloniale. Il governo di Hu Jintao si è detto disposto a rilevare buona parte dei titoli del debito pubblico portoghese, in continuità con una strategia di ampliamento degli interessi nazionali oltre confine che ormai raggiunge quote vertiginose.

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USA-CINA: AVANTI COSI' – Nel proseguire il disegno di questa mappa dei rapporti di forza tra il gigante asiatico e i suoi interlocutori occidentali emerge la linea di continuità di un G2 che, in particolare in occasione dell’ultima visita del presidente Hu a Washington il 19 gennaio scorso, ha evidenziato lo stato di salute degli accordi commerciali USA-Cina, nonostante i richiami del presidente Obama al rispetto dei diritti umani da parte del popoloso competitor costituiscano ormai un corollario usuale all’incontro dei due leader.

MOLTO DI NUOVO SUL FRONTE ORIENTALE – E’ spostando il focus dell’analisi ad oriente che emergono le maggiori criticità del sistema. L’epicentro della discordia sembra essersi spostato da Taiwan, che storicamente detiene il ruolo di anello debole nella catena dei rapporti di forza sullo scacchiere asiatico, all’area delle due Coree. Nella già complessa situazione susseguita all’incidente della corvetta Cheonan, con l’aggravarsi delle tensioni nella regione, sembra che Pechino cominci a non considerare più Pyongyang nel suo ruolo di paese cuscinetto. Come osservava il Global Times, appendice in inglese del Renmin Ribao, il Quotidiano del popolo, già all’indomani del secondo test nucleare nordcoreano del 2009, i cinesi si sono progressivamente allontanati dagli eccessi del regime di Kim Jong-il e preferirebbero oggi condividere 1.400 km di confine con un’economia capitalistica. Nell’ottica di una riunificazione territoriale tra i due stati coreani, così come auspicata sia dalla popolazione del nord che da quella del sud, il ruolo chiave dell’amicizia di Seoul con gli Stati Uniti da un lato e di Pechino con Pyongyang dall’altro ha sino ad ora sicuramente costituito un ulteriore elemento di tensione nella composizione dello scontro. Tuttavia la posizione cinese è in rapida evoluzione e, come insegna il caso norvegese, nessuna garanzia è in grado oggi di preservare intatto il rapporto istituzionale con Pechino se non supportato solidamente da fruttuosi accordi economici e dalla rinuncia a qualsiasi forma di ingerenza nelle questioni nazionali cinesi. Tantomeno può essere d’aiuto la garanzia derivante da una prossimità ideologica che si avvia ad essere obsoleta ed astorica. Anche agli occhi di Pechino. Se si aggiunge che al vertice di giugno sulla sicurezza in Asia il presidente della ricca Corea del Sud Lee Myung-bak si è permesso di sollevare la questione coreana di fronte alle Nazioni Unite ottenendo l’appoggio completo degli USA senza minimamente interpellare la Cina, si comprende facilmente la complessità dello scenario asiatico. 

DALL'AFRICA ALL'AMERICA – Questo dato, in ultima analisi, conferma la difficoltà di leggere in proiezione l’evoluzione dei rapporti bilaterali che si andranno a rafforzare o indebolire nell’arco di questo 2011, anno cinese del coniglio. Un fatto è certo: come dimostra l’ambizioso piano di costruire una connessione ferroviaria di 1.920 chilometri tra la capitale della provincia cinese dello Yunnan, Kunming, e la capitale commerciale birmana di Rangoon, il grande progetto cinese consiste nel collegare il Paese a doppio filo con i principali protagonisti del sudest asiatico, dell’Africa subsahariana e della regione del Cono sur in America Latina. E questo piano non ammette interferenze.  

Francesco Boggio Ferraris [email protected]

 

Giù al Sud(America)

         Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Quali saranno le sfide che Cile, Colombia e Venezuela dovranno affrontare nel 2011? Il presidente cileno Piñera dovrà reagire alla prima crisi di governo, mentre quello colombiano Santos sarà in grado di porre fine alla guerriglia delle FARC e a ripristinare i rapporti con il vicino Venezuela? Infine, quale sarà la politica del presidente Chávez in previsione delle elezioni presidenziali del 2012?

CILEA dieci mesi dall’inizio del mandato presidenziale di Sebastián Piñera, durante i quali è  riuscito in breve tempo a conquistare molta popolarità, soprattutto grazie al successo nell’operazione di salvataggio dei 33 minatori (si veda l’articolo Il nunca más cileno), si è registrata la prima crisi del governo in coincidenza dell’aumento del 17% del prezzo del gas naturale a partire dal 1 febbraio. Al crescente malcontento, si sono aggiunte manifestazioni di protesta sia da parte della popolazione, quale lo sciopero nella provincia di Punta Arenas, a Magallanes, conclusosi con un Protocollo di accordo che predispone un ribasso del 3% e sussidi statali a favore di 18 milioni di famiglie; sia della classe politica, tradottesi con le dimissioni di quattro Ministri.

La crisi governativa è iniziata con le dimissioni del Ministro della Difesa Jaime Ravinet, sostituito dal  senatore del partito di centro destra di Rinnovamento Nazionale (Renovación Nacional),  Andrés Allamand, a causa di una polemica riguardante l’acquisto di un ponte durante il terremoto del 27 febbraio 2010 con una parte dei fondi ottenuti attraverso una delle leggi più controverse del sistema cileno, la Ley Reservada del Cobre (Legge sul rame) utilizzati per gli acquisti di materiale bellico. Nonostante la legge preveda il segreto di riservatezza per tali categorie di acquisti, l’ex Ministro Ravinet è stato richiamato per fornire maggiori spiegazioni all’ufficio statale per la Trasparenza, al quale si è rifiutato di presentarsi. A giudizio dell’ex Ministro Ravinet, quanto accaduto rappresenta una delle criticità più forti del governo di Piñera: lo stile politico personalista del presidente non lascia margine d’azione all’esercizio di autonomia politica in altri settori. Il Ministro per l’Energia, Ricardo Raineri, ha lasciato l’incarico dopo l’inchiesta sul conflitto del gas naturale a Magallanes. Anche il Ministro del Lavoro, Camila Merino, che sarà sostituita dalla senatrice del partito di destra Unione Democratica Indipendente (Unión Demócrata Independiente), Evelyn Matthei, abbandona il gabinetto dopo le accuse ricevute durante l’episodio dei minatori rimasti intrappolati nella miniera di San José.

A questi si è aggiunto, infine, il Ministro dei Trasporti Felipe Morandé, al quale non ancora è stato trovato un sostituto, che ha consegnato le dimissioni a seguito dei problemi sul Transantiago, il progetto con il quale si intende migliorare la copertura del trasporto pubblico nella città di Santiago.

COLOMBIA – Il 2011 è stato definito “l’anno della consolidazione” per la Colombia del presidente Juan Manuel Santos. Il più importante processo di consolidazione riguarda le sfide sul piano legislativo e la definizione dei pilastri per la realizzazione dei progetti inclusi nell’agenda del suo governo.

Le strategie che saranno implementate per dare impulso alla cosiddetta “locomotrice della prosperità” dovranno essere messe in pratica nel più breve tempo possibile e, tra queste, in particolare spicca la “Legge di regolarizzazione e prima occupazione” che intende da un lato, formalizzare mezzo milioni di posti di lavoro e dall’altro, crearne 2.4 milioni di nuovi. È il lavoro uno dei settori cruciali per la popolarità del presidente Santos, da ciò si intuisce il grande impegno profuso. Recenti sondaggi sembrano sostenere e confermare tale affermazione: infatti, è emersa una riduzione del 22% della disoccupazione su un totale di 7,2 milioni di disoccupati.

Un altro scenario di grande rilevanza riguarda le elezioni regionali che si terranno nell’ottobre 2011, i cui esiti provocheranno una ridefinizione della mappa politica a livello provinciale e comunale.

Nonostante questi “buoni propositi” il vero problema con il quale il presidente Santos dovrà fronteggiarsi riguarda le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC). Agli inizi del dicembre 2010 avevano annunciato la liberazione di cinque prigionieri: tre militari, Guillermo Solórzano, Salín Sanmiguel, Henry López Martínez; e due politici, Marco Vaquero e Armando Acuña. La guerriglia e il governo avevano concordato che l’intermediaria sarebbe stata l’ex senatrice Piedad Córdoba, la quale aveva dato la certezza del loro riscatto entro gennaio. Il Ministro della Difesa, Rodrigo Rivera, aveva annunciato le numerose misure adottate per facilitare l’operazione, tra i quali rientrano accordi con il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR), la sospensione delle operazioni della forza pubblica per 36 ore e quindi un luogo sicuro in cui potrebbe avvenire per lo scambio.

tuttavia, nessuna di queste garanzie è stata in grado accelerare il processo di liberazione, di cui al momento non si sa più nulla. Con molta probabilità, si può ragionevolmente sostenere che la fine della guerriglia delle FARC è lontana. Un dato allarmante riguarda uno dei militari oggetto di rilascio, Martínez, il quale è stato rapito il 21 dicembre del 1997 a seguito di un attacco a un posto di blocco nel dipartimento di Nariño, nel sud del paese. L’ultima prova della sua sopravvivenza è stata ricevuta dalla famiglia nel giugno del 2010 con un video consegnato dalle FARC all’ex senatrice Piedad Córdoba.

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VENEZUELA – la settimana scorsa il presidente venezuelano Hugo Chávez per la prima volta ha assunto un atteggiamento conciliatore nei confronti dell’opposizione nel corso della prima sessione dell’Assemblea legislativa, insediatasi lo scorso 5 gennaio, durante la quale ha fatto appello al dialogo tra tutte le fazioni politiche, annunciando la sua intenzione a fare a meno dei poteri speciali di cui al momento sta usufruendo. La Ley Habilitante (Legge abilitante), che permette al presidente di legiferare per decreto fino a metà del 2012, è stata approvata dalla maggioranza oficialista della precedente Assemblea legislativa, forse in previsione dell’esito della competizione elettorale. Attualmente, infatti, il partito di Chávez ha in parlamento solo la maggioranza assoluta, e non qualificata, quella che, secondo la Costituzione, è necessaria per l’approvazione delle leggi.

LE SORELLE – Le relazioni venezuelano-colombiane stanno nuovamente per incrinarsi. Dopo le grandi battute d’arresto, che hanno avuto come apice l’accusa di Bogotá nei confronti di Caracas per il supposto appoggio alle FARC di organizzarsi nel territorio venezuelano per attaccare la Colombia, i rapporti tra i due vicini erano state ripristinati a favore di una ripresa dei rapporti politici ed economici nell’ottica di un America Latina unita.

Adesso, il nuovo motivo di scontro è una telenovela colombiana chiamata Chepe Fortuna, ritenuta dal presidente Chávez come offensiva dell’orgoglio nazionale venezuelano. La serie ha tra i protagonisti principali un personaggio comico, Venezuela, un cane, Huguito, evidente riferimento al Capo di Stato bolivariano, e la sorella, Colombia. Fino alla scorsa settimana era possibile seguire la serie attraverso il canale privato Televen, il quale ha dovuto interrompere la trasmissione a seguito dell’ordine del Conatel (Commissione Nazionale delle Telecomunicazioni venezuelana), che ha giudicato la serie istigatrice all’intolleranza politica e razziale.

Altra sfida di grande importanza riguarda le elezioni presidenziali del 2012. Il presidente Chávez ha  optato per una strategia soft: di ieri l’annuncio di voler rinunciare alla presidenza del Partito Socialista Unito del Venezuela (Partido Socialista Unido de Venezuela, PSUV), tra l’altro confermata da appena due settimane, per dare il buon esempio contro la lotta per l’accumulazione degli incarichi politici. È questa la risposta alle numerose critiche rivoltegli dall’opposizione, seguita dalla convinzione che sicuramente riuscirà a vincere anche le prossime elezioni la cui battaglia è già cominciata.

Valeria Risuglia

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