sabato, 20 Dicembre 2025

APS | Rivista di politica internazionale

sabato, 20 Dicembre 2025

"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

Associazione di Promozione Sociale | Rivista di politica internazionale

Home Blog Page 625

Grosso grasso pandemonio greco

0

Il premier Karamanlis si dimette e indice elezioni immediate (4 ottobre), consegnando quasi sicuramente la Grecia all’opposizione socialista, mentre il Paese sprofonda sempre più nel caos

FINE DELLA CORSA – L’agonia degli ultimi mesi è giunta a compimento mercoledì 2 Settembre. Kostas Karamanlis, Primo Ministro greco, ha preso la fatidica decisione. All in, direbbero gli appassionati di poker. Tutte le fiches su un solo numero, gli amanti del casinò. Dimissioni, ed elezioni anticipate. Anzi, immediate. Speranze di successo? Nessuna, o quasi. Tanti suoi ministri hanno già definito tale decisione un vero e proprio suicidio politico. Tutti alle urne, dunque, il 4 Ottobre, due anni prima della scadenza naturale della legislatura, con il Movimento Socialista Panellenico (Pasok) a giocare il ruolo di ultrafavorito. Anche il nuovo Governo, però, potrebbe avere vita breve: a marzo 2010 il Parlamento deve eleggere il Presidente greco. Se non si raggiunge una maggioranza di 3/5 (ed è possibile che il Pasok non arrivi ad avere una simile quota di rappresentanza parlamentare) si dovrebbe tornare a nuove, ulteriori elezioni. Ma perché si è giunti a questa situazione? 

CONTROTENDENZA EUROPEA – Agonia, si diceva. Già le elezioni europee di giugno sottolineavano l’anomalia greca: mentre nel resto del continente è “soffiato il vento di destra”, in Grecia si è registrata una decisa affermazione del Pasok, che con il 36,65% (+2,62%) ha scavalcato il Partito di centrodestra al governo Nea Demokratia (32,39%, -10,69). Perché una disfatta così sonora?

content_267_2

CORRUZIONE, ECONOMIA, TENSIONI SOCIALI – Nelle elezioni legislative del 2007 la ND si è riconfermata al Governo con un programma avente tra i punti cardine l’aumento del tenore di vita, la diminuzione della corruzione, il miglioramento dei disastrati conti statali. Due anni dopo, nulla di tutto ciò ha visto la luce. Le divisioni interne di una maggioranza fragilissima (un solo parlamentare in più rispetto all’opposizione),  e i manifesti episodi di corruzione (diversi scandali finanziari hanno portato alle dimissioni due Ministri e un Viceministro; e un sondaggio rivela che il 73% dei cittadini ritiene il Governo incapace di contrastare la corruzione, il 50% lo ritiene il principale artefice della stessa), hanno di fatto smembrato qualsiasi possibilità di azione dell’esecutivo. Inoltre, la crisi economica ha peggiorato ingentemente una situazione tutt’altro che florida. Il 14% dei lavoratori greci vive sotto la soglia di povertà, percependo un reddito inferiore al 60% della media nazionale (la media Ue si attesta all’8%). Limitando tale statistica ai minorenni, scopriamo che il dato sale sino al 25% (contro la media Ue del 19%). Tale povertà non è però dovuta alla disoccupazione, quanto all’insufficienza del reddito familiare. Da questi dati emerge chiaramente come in Grecia la distribuzione della ricchezza è una tra le più ineguali in Europa. E l’altissimo livello di debito pubblico (93,3% del Pil) ha reso impossibili efficaci contromisure.Tutto questo si somma all’ingente livello di tensione sociale, innalzatosi a livelli estremi dopo l’uccisione di Alexandros Grigoropoulos, un quindicenne ucciso da un poliziotto durante una manifestazione del dicembre 2008. Mobilitazione giovanile per la riforma universitaria, crescente opposizione dei sindacati, maxi-scioperi di lavoratori portuali e agricoltori: ce n’è abbastanza per una crisi di Governo, nonostante Karamanlis le avesse provate tutte per invertire la rotta: rimpasto di governo, nuovi reparti speciali di polizia per arginare la guerriglia urbana dei gruppi anarchici, nuove forme di controllo di spesa pubblica per una “tolleranza zero” contro la corruzione, ingenti investimenti per garantire liquidità e credito alle piccole e medie imprese. Non è bastato. 

SCENARI POLITICI – Il risultato elettorale, come si diceva, sembra segnato. Dopo la gestione assai criticata dell’incendio che ha  devastato l’Attica, bruciando 21.000 ettari di foreste, assediando Atene per tre giorni e costringendo migliaia di persone ad evacuare le proprie abitazioni, i sondaggi mostrano un’ingente distanza tra le parti. Il Pasok è attualmente dato tra il 31,7 e il 33,7%, mentre la ND tra il 25,7 e il 27,5%. Sei punti di distacco, quasi incolmabili in un mese di campagna elettorale. La distanza tra i leader è minore: il socialista Papandreou Capo del Governo è preferito dal 33,7% dei Greci, contro il 32,5% di Karamanlis, per la prima volta scavalcato personalmente nei sondaggi. L’attuale premier ha così deciso di giocarsi tutte le fiches in un mese esatto. Il rischio, però, è altissimo. Il 4 ottobre, giorno del rien ne va plus, potrebbe seriamente decretare la fine della sua avventura di governo. 

Alberto Rossi [email protected]

Foto: in alto, un'immagine degli scontri avvenuti in Grecia

Sotto: il premier Kostas Karamanlis

Baraccopoli

0

Dopo la prima puntata della scorsa settimana, in cui abbiamo spiegato perchè Il Caffè ha deciso di parlare dell'Abruzzo, continua il nostro viaggio all’Aquila, in cerca di notizie diverse da quelle dei media tradizionali, per approfondire una questione di cui tanto si parla e poco si sa…

PIAZZA D’ARMI – L’esplorazione dell’Aquila continua attraverso l’approfondimento di una vicenda molto ben pubblicizzata e sponsorizzata, ma poi attentamente trascurata nei suoi risvolti a distanza di sole tre settimane. Lo scenario è quello della tendopoli di Piazza d’Armi, la più grande della città, che ospitava fino a 1.800 sfollati. Ad inizio settembre la tendopoli è stata (quasi) del tutto smantellata, dando seguito alla promessa del Presidente del Consiglio Berlusconi durante il G-8 dell’Aquila di luglio (“entro settembre tutti fuori dalle tende”). Nel mezzo di un’ondata di entusiasmo nazionale, il Premier ed il Capo della Protezione Civile, sottosegretario Guido Bertolaso, annunciavano così l’inizio della nuova vita per gli aquilani, fieri di aver mantenuto l’impegno di tirare quelle persone finalmente fuori dalle tende, dopo cinque mesi dal sisma del 6 aprile. Ma allora perché abbiamo scritto sopra che la tendopoli è stata in effetti “quasi” del tutto smantellata? Perché qualcuno c’è ancora. Ed è di quel qualcuno che oggi parleremo. 

content_268_2

MODALITA’ DI SMANTELLAMENTO – Prima parliamo della storia della signora Pina (non scriviamo il cognome per rispetto della privacy). Con un’abitazione cui i sopralluoghi hanno dato la classificazione di “classe E” (vedi il “chicco in più” per maggiori dettagli), dunque inagibile perché con danni strutturali, Pina era stata assegnata al campo tende di Piazza d’Armi. Il giorno in cui la Protezione Civile ha cominciato le operazioni di smantellamento, ha dato anche indicazioni agli sfollati su dove andare come prossima destinazione. Non una consultazione prima. Non un sondaggio per capire le necessità degli sfollati. Nessuna possibilità di replica: o accettare la nuova destinazione decisa per loro, oppure arrangiarsi. Solo una cosa era sicura: il campo era da smantellare (come voleva la promessa). Pina è stata assegnata in una sistemazione a Castellafiume: paese in provincia dell’Aquila a 70 km dalla città. Pina ha un lavoro all’Aquila e non ha patente di guida, eppure le avevano assegnato una destinazione così fuori mano, nonostante la signora avesse fatto presente più volte la sua condizione a chi di competenza. Risultato: niente da fare, o Castellafiume o niente. E’ a questo punto che la signora Pina ha preso la decisione di occupare la propria abitazione inagibile (una decisione disperata, dal momento che le scosse continuano: ieri la più forte degli ultimi mesi, 4.1 sulla scala Richter) in segno di protesta, in quanto trasferendosi non avrebbe potuto continuare a lavorare (mentre i disoccupati dal 6 aprile sono saliti a circa 16.000 su 70.000 abitanti). Il finale positivo c’è, nel senso che la Protezione Civile ha poi dichiarato di “aver sbagliato” nell’assegnazione, provvedendo a dare alla signora una sistemazione in città. Rimane il fatto di una strategia operativa del tutto calata dall’alto, senza consultazioni sul territorio e, per di più, che produce effetti non graditi alla popolazione di cui i media tacciono.

IL DEGRADO  – Vi è poi la situazione dei circa 30 “irriducibili” (tra cui due disabili) che, per motivazioni simili a quelle della signora Pina, hanno deciso di rimanere nelle tende. Lo scenario stavolta è al limite dello slum. Il degrado è totale. Immondizia abbandonata dovunque, in quello che fino al 5 aprile era il campo atletico della città dell’Aquila. Rifiuti di un migliaio di sfollati che hanno lasciato il campo mai tolti da nessuno. L’odore è quello di una discarica, un testimone ha visto dei topi che camminavano tra i rifiuti: uscivano dai bagni. Bagni cui è stata staccata anche l’acqua calda. Nessuno che provvede al cibo per queste persone che, tra l’altro, non hanno più le lavatrici per provvedere all’igiene dei propri indumenti. Una donna fa entrare un cameraman dentro la propria tenda e mostra degli squarci provocati da una lama di coltello, non si sa quando, non si sa da chi. Anche la sicurezza è diventata un optional, ora che i riflettori mediatici si sono spostati. La Protezione Civile (che nelle tendopoli ha una sorta di potere legislativo, esecutivo e giudiziario insieme) afferma di non avere più responsabilità per Piazza d’Armi, adesso che è stata smantellata. Ora la responsabilità, dice una signora che ancora è lì, è del Comune, ma nemmeno il sindaco Massimo Cialente si è fatto vedere nella (ex) tendopoli. Sono gli sfollati dimenticati. Quelli di cui non ci si occupa, mentre si dice che “tutti sono sotto un tetto” e “abbiamo tolto le persone dalle tende”. Non pensavamo di vedere angoli dell’Aquila, un tempo amena e tranquilla cittadina medievale di montagna del Centro-Italia, simili a vere e proprie baraccopoli (qui si possono vedere due testimonianze video: http://www.youtube.com/watch?v=QbE6QaeJcm8; http://tv.repubblica.it/dossier/terremoto-in-abruzzo/gli-irriducibili-di-piazza-d-armi/37206?video=&pagefrom=1), mentre la città è ancora piena di macerie. Il 29 settembre il Presidente del Consiglio è atteso nuovamente in città per consegnare le prime case del progetto C.A.S.E. (Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili) ai cittadini. Per l’occasione ci si aspetta di ascoltare di nuovo le trombe in festa e di vedere sorrisi e abbracci. Ed è giusto che sia così. Ciò che non ci pare giusto e corretto è eliminare la presenza di casi drammatici (che pure sono tantissimi), tramite la negazione di spazi pubblici per i loro racconti e le loro testimonianze. Non è tutto oro quel che luccica all’Aquila.  

Stefano Torelli 25 settembre 2009 [email protected]

Nelle foto: immagini dalla tendopoli di Piazza D'Armi

 

L’Aquila:citta’ universitaria

0

Ancora una testimonianza, stavolta da parte di una ragazza aquilana che ci racconta le difficoltà del mondo universitario. Continua l’informazione sull’Aquila e gli avvenimenti post-terremoto. Che quasi tutti non sanno

A cura di Stefano Torelli 

L’AQUILA CITTA’ UNIVERSITARIA –  L’Aquila città devastata dal sisma del 6 aprile, l’Aquila palcoscenico del G8 dello scorso luglio, L’Aquila delle tendopoli, della Protezione Civile e del piano C.A.S.E.… insomma l’Aquila, seguita da perifrasi che fotografano segmenti di realtà, occupa da 6 mesi le pagine dei quotidiani nazionali. E sia, ma tra i tanti titoli, alla riapertura dell‘anno accademico, ci sembra doveroso porre l’accento sul seguente: L’ Aquila città universitaria. Il sito internet del Miur (Ministero dell’ Istruzione, dell’ Università e della Ricerca) nella sezione anagrafe nazionale studenti, snocciola dati riguardanti il numero di iscritti nelle facoltà del polo universitario aquilano, relativi all’anno accademico 2008-2009: 9.612 studenti, tra cui 5.441 residenti a L’Aquila e 4.171 provenienti da altre città. L’ Aquila con il 13 % di studenti e con un’offerta formativa composta da 9 Facoltà (Biotecnologie, Economia, Ingegneria, Lettere e Filosofia, Medicina e Chirurgia, Scienze della Formazione, Psicologia, e Scienze motorie) merita a pieno titolo l’epiteto di città universitaria.  

LA SPECULAZIONE SUGLI AFFITTI – Il problema degli alloggi si applica senza alcuna reticenza anche alla categoria sociale degli studenti. Nei primi giorni di ottobre il Rettore di Ateneo Ferdinando Di Orio ha lanciato un allarme fermo ed incontestabile: servono 8.000 posti letto. Le autorità di competenza, ovvero la Regione e l’ Adsu (Associazione del Diritto allo Studio Universitario) non hanno preso provvedimenti rivolti ad una risoluzione del problema, i soli 212 posti disponibili sono stati ottenuti dallo stesso ateneo nella sede della Reiss Romoli,un tempo scuola superiore di telecomunicazioni. Le prospettive future si snodano nell’incertezza: sono caduti nell’oblio i mille posti pubblici promessi, la nuova casa dello studente (la vecchia è crollata mietendo 11 vittime e diventando il simbolo della mala-costruzione cittadina) ad opera della società di Infrastrutture Lombarde Spa vedrà speranzosamente la luce nel mese di novembre (mantenendo però un problema di gestione) mentre i lavori negli edifici dell’ex San Salvatore (struttura un tempo adibita ad ospedale) sono bloccati a causa di una ditta che non paga i contributi. La proposta di Di Orio è quella di utilizzare il fondo di 16 miliardi di euro bloccato al CIPE ( Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) e destinato alla nuova casa dello studente. Anche il Comune ha predisposto un piano da presentare alla Protezione Civile: 300 M.A.P. di 70 m quadrati da costruire in aree determinate, 1.000 moduli removibili e l’apertura di due residenze. Le istituzioni, Protezione Civile inclusa, indicano la non verosimile opzione del pendolarismo, paventando l’assenza di soluzioni alternative. Lo studente che abbia l’audacia di fare da sé si troverà davanti ad affitti triplicati, senza considerare gli scandalosi tunnel degli affitti all’asta per cui i proprietari assegnano le abitazioni a chi “offre di più”. I siti internet delle Facoltà ospitano nelle bacheche on-line annunci immobiliari per i quali l’università fa da garante, nella misura in cui la pubblica decenza dovrebbe impedire di usare un tale tramite per offrire appartamenti a peso d’oro.  

content_269_2

ONLY THE BRAVE – Ma ciò che colpisce navigando nel sito internet dell’ università di L’ Aquila ( www.univaq.it ) è ben altro: nella home page, su sfondo grigio in degradé si staglia una scritta rosso carminio che recita: only the brave. Saranno solo i coraggiosi che beneficeranno di ciò che ci viene spiegato immediatamente in basso : Se hai grinta e sei determinato, investiremo su di te e finanzieremo i tuoi studi. Scegli tra le 9 Facoltà ed i 78 Corsi di Laurea, avrai l’esonero totale dalle tasse universitarie . Perché, per affrontare la vita, l’istruzione non basta: ci vuole carattere. E noi premiamo chi ce l’ha.” Solo i coraggiosi potranno dunque beneficiare dell’esonero dal pagamento delle tasse universitarie. In questo particolare caso i coraggiosi saranno coloro i quali si immatricoleranno all’ anno accademico 2009-2010 oppure rinnoveranno l’iscrizione agli anni successivi o, ancora, si trasferiranno da altri atenei o infine si iscriveranno per conseguire il titolo di seconda laurea. In questo particolare caso i coraggiosi sono coloro i quali non temono le case distrutte e ciò che lo ha provocato. Per i suddetti coraggiosi restano comunque le spese della tassa regionale di € 77.47 e l’ imposta di bollo di € 14.62 per un totale di 92.09 euro da pagare in un'unica rata. Soprassedendo le diatribe sulla strategia tenuta dal Magnifico Rettore alcune riflessioni si generano spontanee.  

QUALE RINASCITA SOCIALE? – La popolazione aquilana, con il sisma del 6 aprile ha perso beni materiali e beni spirituali. Per questi ultimi ognuno ha trovato o troverà la propria soluzione, intima e personale, ma per i secondi si necessita, da parte delle istituzioni competenti, di azioni concertate. Indubbiamente per gli studenti di L‘Aquila l‘esenzione delle tasse universitarie genera innegabili vantaggi, data la precaria situazione economica –tra le altre- in cui si trova il capoluogo abruzzese. Nel momento in cui gli studenti confermano la loro iscrizione ad anni successivi al primo ed altri arrivano per un’immatricolazione o per il conseguimento di una seconda laurea, e mentre l’anno accademico è garantito nella “normalità” sotto il profilo della didattica, è la mancanza di strutture atte ad accoglierli che genera un corto-circuito strategico. Le previsioni dettate dalla logica non tardano ad arrivare: studenti costretti al pendolarismo o alla mobilità, un’illusoria soluzione che oltre ad abbassare la qualità dell’istruzione, non converge in alcun modo verso quel processo primario, urgente e necessario alla sopravvivenza di L’ Aquila, che è la ri-creazione di un tessuto urbano e sociale coeso. Se la città riparte dai propri cittadini deve farlo occupandosi di tutti i ceti sociali che la componevano originariamente, e gli studenti con il loro 13 % vi rientrano a pieno merito. L’esigenza di provvedimenti concertati che si traducano in piani d’azione intelligenti ed efficaci è legittima perché necessaria.  

Eleonora Marzi 9 ottobre 2009 [email protected]

Foto: in alto, le macerie della casa dello studente

In basso: lo stemma dell'Università dell'Aquila

Salta tutto. Come al solito

Nessun accordo dopo l’incontro tra il premier Netanyahu e l’inviato americano Mitchell sul congelamento degli insediamenti israeliani. E così, sembra ormai quasi impossibile che si possa svolgere l’incontro a tre Obama-Netanyahu-Abu Mazen durante l’Assemblea Generale dell’Onu. Rimandando di fatto la ripresa dei colloqui tra le parti a data da destinarsi. Ancora una volta

L’ACCORDO CONGELATO, GLI INSEDIAMENTI NO – Un nuovo passo falso. Più grave del solito, perché stavolta l’attesa era alta. L’incontro tra l’inviato speciale americano in Medio Oriente George Mitchell e il premier israeliano Benjamin “Bibi” Netanyahu  (foto)  si è concluso con un nulla di fatto. Nessun accordo, nessun compromesso sul congelamento degli insediamenti israeliani in territorio palestinese. Nonostante i commenti positivi dell’entourage del Primo Ministro, e nonostante la volontà di Mitchell di ammorbidire la posizione israeliana, di fatto le due ore trascorse nell’ufficio di Netanyahu non hanno portato a nulla. La distanza tra le parti è nota: mentre gli americani premono per un congelamento totale dello sviluppo degli insediamenti, gli Israeliani sono fermi all’idea di un congelamento temporaneo e parziale, che escluda Gerusalemme Est (dove nessuna costruzione è da loro considerata un insediamento) e fatta salva la crescita naturale degli insediamenti, con case e servizi per le nuove famiglie che vengono a crearsi. Le speranze di un accordo precedente all’incontro dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sono così ridotte al lumicino. E, così, pare ancor più difficile che il progetto americano di un incontro a tre Obama – Netanyahu – Abu Mazen in tale occasione riesca a vedere la luce, soprattutto data la fermezza palestinese nel sostenere come il congelamento degli insediamenti sia una pre-condizione imprescindibile per poter tornare a parlarsi.

BIBI DICE NO – Le premesse, comunque, non parevano promettere facili accordi, soprattutto dopo le parole pronunciate lunedì da Netanyahu alla Commissione Difesa e Affari Esteri della Knesset, il Parlamento israeliano. “I Palestinesi si aspettano un congelamento totale, ma è chiaro che questo non accadrà, soprattutto a Gerusalemme, dove non vi è alcun insediamento. E le 2500 unità abitative che sono in fase di costruzione saranno portate a compimento. La riduzione delle costruzioni sarà solo per un periodo limitato di tempo, su cui ancora non c’è accordo. L’incontro a tre? Non c’è ancora nulla di certo”. Il premier ha inoltre sottolineato le due questioni essenziali per un accordo con la controparte: il riconoscimento di Israele come Stato ebraico e la demilitarizzazione del futuro Stato palestinese. 

content_272_2

ABU MAZEN DICE NI’ – La prossima tappa di George Mitchell è Ramallah, dove l’inviato americano incontrerà il Presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen (nella foto un incontro tra i due). Anche qui, il compito di Mitchell è tutt’altro che agevole. Il quotidiano israeliano Haaretz ha riportato le parole di Yasser Abed Rabbo, negoziatore palestinese del Comitato Esecutivo di Fatah (il Partito di Abu Mazen), secondo il quale il Presidente palestinese non ha ancora deciso se accettare l’incontro trilaterale, attendendo le proposte di Mitchell. Le previsioni, però, lasciano molti dubbi. Fintanto che Netanyahu non annuncerà un congelamento totale degli insediamenti, compresa Gerusalemme Est (fatto assolutamente impossibile: mai Netanyahu parlerà di insediamenti in quella che è considerata capitale “unica, eterna e indivisibile” dello Stato israeliano), difficilmente Abu Mazen accetterà di vedere il premier israeliano. Ma perché questa rigidità, da entrambe le parti? 

LEADER TROPPO DEBOLI – Il fatto è che entrambi i leader sono tra due fuochi, e non godono della forza politica necessaria per superare le forti pressioni interne che ostacolano l’incontro. Abu Mazen è circondato da pressioni enormi: qualora incontrasse Netanyahu, Hamas (ma anche frange consistenti di Fatah) lo accuserebbe di piegarsi ai diktat israeliani. Nonostante Saeb Erekat, leader dei negoziatori palestinesi, dichiari che un incontro con Netanyahu non rappresenta un nuovo avvio di negoziati, vi sono parecchi dubbi su come i Palestinesi potrebbero interpretare un simile incontro. Il rischio concreto è che Abu Mazen appaia apertamente in contrasto con quanto dichiarato a fine luglio dalla Sesta Assemblea Generale di Fatah ("Nessun negoziato finchè non vi sarà un congelamento totale di tutti gli insediamenti"), indebolendo ulteriormente la sua già precaria considerazione interna. Certo, se Abu Mazen rifiuta l’incontro sarà facilmente bollato esternamente come “colui che rifiuta l’offerta di pace”, e per gli Israeliani sarà compito agevole asserire che non vi sono partner con cui parlare di processo di pace. Allo stesso modo, Netanyahu deve mediare tra la possibilità di riprendere i negoziati e la necessità di “permettere una vita normale agli Ebrei che vivono in Cisgiordania”, così come richiedono con forza le parti più estreme della società e del Governo. La vicenda è tristemente nota, nella storia di questo conflitto: la fragilità politica dei leader non consente di prendere decisioni “scomode” da un punto di 

vista interno.  E tra le dinamiche interne e quelle esterne (volontà/necessità di negoziare con la controparte) sono sempre risultate prevalenti quelle interne, ovvero la sopravvivenza e la tranquillità dei leader e degli esecutivi, anche in casi ben più importanti di questo. E tutto questo, ovviamente, è sempre a discapito di qualsiasi possibilità concreta di un serio processo di pace.  

Alberto Rossi [email protected]

Stop. And go?

Non si sblocca la questione del congelamento degli insediamenti israeliani in territorio palestinese. L’accordo Usa-Israele potrebbe arrivare, tra mille dubbi e incertezze, entro fine mese. Di fatto, tutto questo è solo un piccolo dettaglio nella complessità delle questioni israelo-palestinesi

COSI’ VICINI, COSI’ LONTANIL’ultimo aggiornamento del “Caffè”, prima della pausa di agosto, parlava di un termometro che registrava un vistoso accrescimento del livello di tensione tra Israeliani e Palestinesi. Un mese e mezzo dopo, sono tanti gli eventi degni di nota, e che qui presentiamo. Di fatto, lo diciamo subito, non ci siamo discostati molto dall’immagine delle tendine presentata a fine giugno relativa ai rapporti tra le parti. Le due parti devono accordarsi su come dividere questo appartamento in cui coabitano forzatamente. La discussione è ancora ferma sul congelamento degli insediamenti israeliani in territorio palestinese. Bisogna decidere quali stanze tenersi, e invece da mesi gli inquilini dell’appartamento sono fermi a “litigare” sulle tendine del bagno. Un particolare grazioso, ci mancherebbe, ma che rivela come le parti siano ancora ben lontane non tanto da un accordo (qui le distanze ben più che siderali), ma anche dalla stessa idea di rimettersi a parlare allo stesso tavolo.

TO FREEZE OR NOT TO FREEZE? –  Da mesi, ormai, Usa e Israele cercano un accordo sulla questione focale del congelamento degli insediamenti. Gli Usa premono per un congelamento totale: nessun nuovo insediamento da costruire, nessuna crescita di quelli esistenti. Il Governo israeliano parla invece di “crescita naturale”: se la gente si sposa e fa figli, è necessario che gli insediamenti esistenti si allarghino. Si arriverà ad un accordo? Gli Usa si dicono ottimisti, auspicando un accordo entro la fine del mese, subito prima dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (quando potrebbe esservi un incontro a tre Obama-Netanyahu-Abu Mazen). Da lì in avanti, Obama spera di poter procedere coi colloqui tra le parti. Sebbene le stesse fonti governative Usa confermano che non esiste alcun “Piano Obama” per la pace tra le parti, il Presidente si è posto l’obiettivo (quantomai ambizioso) di chiudere entro due anni i negoziati tra le parti. E tra le prime tappe del cammino, si ipotizza un summit internazionale per la pace entro fine 2009, da svolgersi a Mosca o a Parigi. Perché le parti possano tornare a sedersi al tavolo, l’affaire congelamento rimane essenziale. Come ribadisce il Presidente palestinese Abu Mazen (nella foto sotto con Obama), i Palestinesi accetteranno nuovi colloqui solo a fronte di un totale congelamento degli insediamenti, fino al giorno in cui si giungerà all’accordo di pace definitivo. Totale e fino all’accordo definitivo è esattamente il contrario della posizione israeliana (congelamento temporaneo e fatta salva la crescita naturale): è evidente come, anche sulle “tendine”, l’accordo sia assai lontano. Per non parlare della questione Gerusalemme Est, dove, secondo la versione del Governo Netanyahu, non esistono insediamenti, poiché Gerusalemme è capitale unica, eterna e indivisibile dello Stato di Israele, per cui il Governo di Tel Aviv mai accetterà alcuna limitazione della propria sovranità su quei luoghi. Gli stessi che i Palestinesi vogliono far diventare capitale dello Stato palestinese: un tassello, questo, che travalica la questione insediamenti. Il tassello per eccellenza, quello su cui si giocherà l’intera questione.  

content_273_2

COLPO DI SCENA – In questo scenario, gli eventi degli ultimi giorni hanno quantomeno destato scalpore. In un clima di ottimismo generale sull’accordo Usa-Israele sul congelamento degli insediamenti, il Governo israeliano ha annunciato alla fine della scorsa settimana il via libera alla costruzione di 455 nuove unità abitative in sei insediamenti. L’ultimo colpo di coda del Governo Netanyahu prima dell’accordo sul congelamento temporaneo pare aver provocato l’assai risentita reazione dell’inviato americano in Medio Oriente George Mitchell. Anche l’Unione Europea si è fatta sentire: il Presidente di turno svedese ha affermato che gli insediamenti sono illegali per il diritto internazionale, e costituendo un ostacolo alla pace vanno immediati congelati, per essere smantellati entro marzo 2011, compresa l’area di Gerusalemme Est. In realtà, un’inchiesta del quotidiano israeliano Haaretz ha mostrato come non vi sia alcun nuovo permesso: le 455 unità abitative avevano già ricevuto dei permessi di costruzione, anche dal precedente Governo Olmert, ma per diverse ragioni non erano ancora state realizzate. Ora il Governo Netanyahu ha rinnovato un via libera di due mesi per completarle; oltre quella data, l’esecutivo ritirerà tali permessi. Di fatto, anche se vi è solamente una conferma di permessi già esistenti, tutto questo ha contribuito ad un nuovo innalzamento di tensione tra le parti.  

INCUDINE E MARTELLO – Di fatto, gli ultimi permessi prima dell’accordo e le dichiarazioni del Ministro della Difesa israeliano Barak (che definisce il congelamento “necessità nazionale”), e del Presidente israeliano Peres (“Non è facile convincere la popolazione a fare concessioni e a prendere rischi, ma non abbiamo alternative, dobbiamo farlo subito per tornare a negoziare sul principio due popoli per due Stati”) mostrano un quadro abbastanza controverso. Come spesso è accaduto nella storia ai premier israeliani, Netanyahu è ora tra l’incudine e il martello, schiacciato tra la necessità di tenersi buoni i coloni e le ali più estremiste del Governo (leggasi: rinnovo dei permessi), e il tentativo di riprendere i negoziati, facendo accettare agli Israeliani il congelamento. Trovare un compromesso tra queste due esigenze è davvero un compito tutt’altro che scontato. 

Alberto Rossi [email protected]

Il serpente di pietra

0

Un detective eunuco di nome Yashin si destreggia tra una serie di omicidi nella Istanbul della prima metà dell’ Ottocento. Un libro per tutti quelli a cui sono piaciuti gli intrighi di potere alla Dan Brown (Il codice Da Vinci, Angeli e Demoni), qualitativamente un altro livello anche  dovuto ad una ricostruzione storica impeccabile e al tempo stesso affascinante

IL CONTESTO DEL ROMANZO –  Dopo il successo de “L’albero dei Giannizzeri” lo storico inglese Jason Goodwin (innamorato di Istanbul, cui è dedicato uno dei suoi primi romanzi “On foot to the Golden Horn: A walk to Instanbul”, ha studiato storia bizantina a Cambridge) fa vivere nuove avventure al personaggio che l’ha reso celebre in un contesto affascinante che regala al libro un’essenza particolare, catapultando il lettore nelle strade di Istanbul e sui suoi caicchi. «Venezia e Instanbul: il cliente e la fonte. […] Istanbul – scrive Goodwin ne ‘Il serpente di pietra’- aveva molte facce, ma una, come quella di Venezia, era rivolta al mare. Come a Venezia le arterie più trafficate erano i canali. […] Le famose gondole erano fondamentali per la vita della laguna quanto i caicchi per la popolazione di Istanbul […]. Perfino di notte, i caicchi sciamavano intorno ai pontili come scarabei d’acqua.» Già l’acqua, altro elemento chiave del romanzo, l’acqua che dà vita alla città, l’acqua che è addomesticata dalla corporazione dei fontanieri, che governano i sotterranei di Istanbul. E poi Instanbul città con i suoi vicoli, i suoi caicchi, le moschee e i mercati carichi di ogni genere alimentare ed un eunuco ormai libero dai doveri di corte ma pur sempre legato al mondo del sultanato viene suo malgrado coinvolto in una serie di omicidi e tentati omicidi su cui inizia ad indagare prima su incarico privato e poi per scagionare se stesso. Lo sfondo storico de ‘Il serpente di pietra’ è quello degli anni che seguono alle lotte per l’indipendenza dei greci dall’Impero Ottomano: siamo nel 1839 e il sultano Mahmut II sta morendo. In questo scenario e con le vicende di un archeologo francese si apre il romanzo in cui particolari, storie e dettagli si svelano ad ogni nuova pagina.

content_274_2

IL PERSONAGGIO YASHIN – Effendi – Signore, Maestro – è l’appellativo con cui tutti i personaggi che ruotano attorno alla sua figura si rivolgono a Yashin. Appassionato di cucina e di libri antichi, il suo personaggio suscita simpatia ed al tempo stesso curiosità nel lettore: un eunuco intelligente e sensibile che ama le donne da cui è attratto ma che sa di non poter amare fino in fondo, come la bellissima e sfuggente madame Lefèvre, moglie dell’archeologo francese. Yashin vive la città, la conosce e la ama pur nel periodo di decadenza che sta vivendo, così come conosce i suoi abitanti le cui vite si snodano in modo caotico eppure fluido  nelle pagine del libro. Tra loro anche l’amico Palewski, ambasciatore polacco presso la Sublime Porta (così veniva anche chiamato l’Impero Ottomano), che in un armadio della sua residenza nasconde tre teste bronzee di serpente della Colonna di Costantino, posta vicino all’Ippodromo di Istanbul. I serpenti: allusione ad un oscuro enigma. Chi sarà in grado di scioglierlo? Tra Maometto il Conquistatore ed un patriarca greco la storia riemergerà alla fine del romanzo per decretarne la soluzione. 

Sulla cattiva strada tra Islamabad e Kabul

Pakistan e Afghanistan, teatri ieri di due attacchi terroristici, si confermano legati a doppio filo. Ancora una volta a pagare il prezzo più alto sono i civili

GLI ATTENTATI DI IERI – Sulla strada tra Islamabad e Kabul a due passi da quella frontiera ormai nota con l’acronimo “AfPak” un’autobomba ha ucciso almeno 100 persone, ferendone circa altre 200, ma la conta sembra purtroppo destinata ad aumentare anche a causa dei crolli di molti edifici nella zona circostante l’attentato. Accade nella parte vecchia della città di Peshawar al mercato Peepal Mandi. Nel frattempo a Kabul sono morti sei funzionari dell’Onu colpiti in una foresteria delle Nazioni Unite nella zona di Sharenau (molto abitata da occidentali, Ngo, vicina all’ambasciata italiana come a quella americana ed alla base della missione Nato ISAF), dove l’attacco sarebbe stato portato a termine – stando alle dichiarazioni di un poliziotto presente in loco – da militanti pakistani che vestivano divise. Colpita anche un’altra zona della capitale afghana, si tratterebbe di Wazir Akbar Khan anch’essa abitata soprattutto da stranieri e dalle compagnie militari private, i cosiddetti contractors.

TANTE DOMANDE QUALCHE RISPOSTA – Cosa sta succedendo in Pakistan e in Afghanistan sembra la prima domanda che il comune lettore può porsi anche alla luce dell’attentato di oggi nel mese in cui gli Usa contano il maggior numero di soldati uccisi (ben 55) in Afghanistan dal 2001.  Innanzitutto l’acuirsi della tensione è senz’altro dovuto al ballottaggio per le elezioni presidenziali previsto per il prossimo 7 novembre. Difficile al momento garantire le condizioni di sicurezza per il voto imminente, che del resto sembrerebbe non poter comunque slittare di molto per via delle gelide temperature in arrivo nel Paese che si presentano come l’ennesimo ostacolo ad un tentativo di stabilizzazione di uno scenario quanto mai complesso. Cos’ha a invece a che fare questa carneficina con il Waziristan e con la visita di Hillary Clinton prevista per ieri e del Premier turco Erdogan dello scorso 25-26 ottobre? Afghanistan e Pakistan sono così legati oppure occorrono strategie diverse da perseguire nei confronti di entrambi?Difficile non porsi molte domande in una regione dove sembrano sempre più intrecciarsi i destini e le sfide della politica internazionale dei prossimi mesi, se non dei prossimi anni. Il Pakistan è in bilico tra un formale appoggio agli Stati Uniti, oggi molto preoccupati degli ingenti sforzi economici fatti per tentare di salvaguardare la situazione nel Paese, e l’incapacità o forse la scarsa volontà di contrastare le forze talebane presenti sul proprio territorio. Proprio a questo mirerebbe la visita della Clinton che potrebbe voler cercare di portare a casa la definizione di alcuni obiettivi di massima su come investire gli aiuti (circa 7 miliardi di dollari), non ultimo l’annosa questione che tanto spaventa le cancellerie occidentali ovvero il nucleare pakistano. L’attentato di oggi in Pakistan sembra essere anche una quasi scontata conseguenza dell’inasprirsi dei combattimenti degli scorsi giorni nella zona del Waziristan del Sud tra le forze talebane e quelle pakistane. 

ERDOGAN E GILANI – Anche la Turchia sembra essere un’importantissima carta da giocare nello scenario pakistano. Solo due giorni fa il Premier turco Erdogan ha incontrato la sua controparte pakistana, Yousuf Raza Gilani e i due Paesi hanno discusso della cooperazione per combattere il terrorismo in quell’area. Considerato il ruolo di primo piano ricoperto dalla Turchia all’interno di ISAF (International Security Assistance Force) in Afghanistan e l’interesse che il suo Ministro degli Esteri Davutoglu ha recentemente espresso circa l’interesse turco di assicurare stabilità nel sud-est asiatico, si aprono nuovi possibili tavoli di trattative per un futuro regionale che resta comunque molto incerto.

Anna Longhini

Ci mancava l’hotel

Gerusalemme Est: il progetto di trasformare l’Hotel Shepard in una ventina di appartamenti tocca un nervo scoperto della diatriba israelo-palestinese 

Nella foto, il muro che divide Gerusalemme Est dalla cittadina palestinese di Abu Dis

IL FATTO – Irving Moskovitz. Questo il nome dell’uomo che ha portato ad un nuovo innalzamento di tensione tra Israeliani e Palestinesi. Ebreo americano, Moskovitz nel lontano 1985 ha acquistato a Gerusalemme Est l’Hotel Shepard, che nei suoi piani ora dovrebbe diventare un agglomerato di una ventina di appartamenti, oltre ad un parcheggio sotterraneo di tre livelli. La costruzione di tali unità abitative nella parte gerosolimitana abitata dai Palestinesi ha provocato nuovi turbamenti, tanto da muovere anche il Dipartimento di Stato americano. Micheal Oren, ambasciatore israeliano a Washington, è stato così convocato dal Dipartimento, che ha chiesto che il governo israeliano fermi il progetto, alla luce della volontà dell’amministrazione Obama di congelare la costruzione degli insediamenti.

LIMITAZIONI? INACCETTABILI – La risposta di Oren non si è fatta attendere, e ha ricalcato completamente l’opinione del governo israeliano. Egli ha affermato che Gerusalemme Est non è diversa da qualsiasi altro luogo dello Stato Israeliano. Non si può paragonare questa questione al tema degli insediamenti, e pertanto il governo non può accettare una tale richiesta. Il premier Netanyahu non ha fatto altro che confermare e rinvigorire tali parole. Questi i concetti chiave espressi dal capo di governo: “La sovranità israeliana su Gerusalemme non è in discussione, e qualsiasi tipo di limitazione è inaccettabile; Gerusalemme unificata è la capitale di Israele, e a tutti i cittadini è permesso acquistare proprietà in qualsiasi parte della città. Agli Arabi israeliani non è vietato costruire case a Gerusalemme Ovest; allo stesso modo, per gli Ebrei devono essere garantiti eguali diritti a Gerusalemme Est. Questa vicenda non può aver alcun collegamento con la questione degli insediamenti”. Dure le reazioni palestinesi: secondo Abu Mazen, Presidente palestinese, “Il governo israeliano sta ebraicizzando Gerusalemme Est”.

content_276_2

UN PROBLEMA? NO, “IL” PROBLEMA – Ma cosa c’è in gioco? Molto più di quello che sembra. Gerusalemme Est non è una delle questioni. Gerusalemme Est è “la” questione. I negoziati di Camp David, che nel luglio 2000 segnarono miseramente il fallimento del processo di pace di Oslo degli anni ’90, sono lì a testimoniarlo. Anche quando si trovasse (cosa già di per sé quanto mai complicata) un accordo su confini, questioni di sicurezza, ritorno dei profughi, insediamenti, ci si dovrebbe sempre scontrare con il tema più intricato, quello di Gerusalemme. La parte Est della città, conquistata dagli Israeliani nel 1967, è tuttora considerata dalla comunità internazionale alla stregua di un’area occupata (tanto è vero che tutte le ambasciate in Israele sono a Tel Aviv e non a Gerusalemme). Senza entrare nell’ancor più delicata questione degli accordi relativi allo status della città vecchia (la questione della sovranità sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif, dove sono collocati il Muro del Pianto e la Spianata delle Moschee, luogo più sacro ebraico e terzo luogo più sacro dell’Islam), il punto è che su Gerusalemme le posizioni sembrano quanto mai inconciliabili. Israele nel 1980 ha dichiarato Gerusalemme “capitale unica, eterna e indivisibile dello Stato d’Israele”. Da sempre, e come confermato in questa occasione dal negoziatore Saeb Erekat, i Palestinesi dichiarano che “non vi sarà mai uno Stato palestinese senza Gerusalemme capitale”. Facile comprendere come da visioni così radicali nascano facilmente grandi tensioni. In una situazione in cui a buona parte della popolazione palestinese di Gerusalemme Est viene negato il permesso di costruire abitazioni (e non di rado capita che quelli che provano a costruirle senza permesso si vedono la propria casa demolita per ordine della municipalità di Gerusalemme), mentre gli Israeliani continuano a costruire su terre quantomeno oggetto di controversia, e su cui la comunità internazionale si è più volte espressa chiaramente, ecco che un fatto apparentemente piccolo come il progetto di Moskovitz equivale a spargere taniche e taniche di benzina su un fuoco di per sé assai scoppiettante. E così, le due Gerusalemme, Yerushalaim (la Gerusalemme ebraica) e Al Quds (la Gerusalemme palestinese) si allontano sempre di più. E con loro, appaiono sempre più distanti anche le possibilità di accordi tra le parti nel breve-medio periodo.  

Alberto Rossi [email protected]

Nella foto, Gerusalemme Ovest: poco lontano dalla città vecchia, sul muro di una piazza a fianco di Jaffa Street, un rappresentazione estremamente significativa: una cartina raffigura Gerusalemme come "centro del mondo", anello di congiunzione tra Europa, Asia e Africa

Goodbye dollar?

0

Cina e Brasile si starebbero accordando per non utilizzare più il dollaro negli scambi bilaterali. Una notizia piccola ma che potrebbe rappresentare (nel lungo periodo) una svolta epocale. Cerchiamo di capire insieme, riguardando anche il ruolo del dollaro nei decenni precedenti, perché la crisi internazionale ha investito anche il bigliettone verde

L’INTESA – I governatori delle banche centrali di Cina e Brasile  hanno annunciato, a latere della riunione della Banca dei Regolamenti Internazionali che si è tenuta a Basilea, di aver raggiunto un accordo di massima in cui hanno stabilito che i loro scambi bilaterali non avverranno più utilizzando il dollaro come moneta di pagamento internazionale. La proposta era stata discussa anche pochi giorni prima in occasione del vertice dei BRICs. 

PUNTATE PRECEDENTI – Si tratta di un cambiamento nella politica monetaria di questi Paesi, la cui importanza non va affatto trascurata. Facciamo qualche passo indietro per capire meglio. A partire dal 1971, data in cui il Presidente americano Nixon aveva sospeso la controvertibilità del dollaro in oro, la moneta americana era di fatto diventata la moneta con cui avvenivano le transazioni internazionali, incorporando accanto alla funzione di mezzo di pagamento quella di valuta di riserva. Il dollaro si era così trovato a dover essere contemporaneamente moneta nazionale e moneta internazionale, dovendo garantire allo stesso tempo la stabilità interna negli Stati Uniti e la crescita del Paese stesso e del mondo interno, “finanziandolo” interamente. La fiducia riposta dagli investitori internazionali, e di cui tanto oggi si parla, era nella capacità del dollaro di essere garante di una luna di miele globale in grado di far funzionare il sistema economico mondiale, garantendo liquidità continua, fino ad un ipotetico ma lontano momento di crisi di questa architettura senza architetto.       

content_277_2

UN PUGNO DI AI DOLLARI –  Leggere la manovra sino-brasiliana come la fine del dollar standard tuttavia sarebbe forse eccessivo, ma la comunità internazionale dovrebbe riflettere forse più seriamente di quanto fatto fino ad ora sulle tanto auspicate riforme e revisioni delle regole, di cui tanto si è parlato e si parla, a seguito della crisi internazionale che ha investito in molti Paesi la finanza prima e l'economia reale poi. L'accordo tra Cina e Brasile dovrebbe suonare come monito per quelle regole che più di tutte andrebbero riviste, e che anzi andrebbero scritte per la prima volta, ovvero quelle riguardanti il sistema monetario internazionale. L'utilizzo di un'unica moneta emessa a garanzia degli scambi internazionali, divenuta essa stessa oggetto di scambio, ha creato un'enorme confusione nell'era della globalizzazione: la Cina si trova oggi a detenere nelle sue banche un volume di titoli di debito USA, pari a circa 518,7 miliardi di dollari (il dato è riferito a luglio 2008), a copertura dei crediti commerciali vantati nei confronti degli Stati Uniti. Il governatore della banca centrale cinese (People's Bank of China), Zhou Xiaochuan, ha già espresso, in un documento del 23 marzo scorso, la propria preoccupazione in tal senso, chiedendo un sistema internazionale basato su più di una sola moneta come strumento di riserva.

IPOTESI KEYNES? – Nessuno finora sembra invece aver preso in considerazione l'idea che il piano di Keynes presentato a Bretton Woods nel 1944 aveva lanciato in merito al sistema monetario internazionale, ovvero di un sistema che non si basasse più sul principio di liquidità e la procrastinazione del pagamento dei debiti da parte degli Stati, bensì su quello del clearing, che invece proprio tale pagamento avrebbe non soltanto reso possibile ma anche imposto. La proposta di abolire il dollaro come unità comune di pagamento è un possibile approdo, ma non ancora del tutto scontato. La Cina, infatti, è il principale detentore mondiale di riserve monetarie in dollari e non ha l'interesse che la valuta statunitense perda valore. Se infatti il dollaro venisse usato di meno per le transazioni internazionali, si svaluterebbe ulteriormente e il valore delle riserve presenti nelle casse di Pechino si eroderebbe in maniera sensibile. E' dunque chiaro che le grandi potenze stanno cercando di "emanciparsi" dal dollaro, ma tale processo avverrà in maniera graduale.

Anna Longhini

Rifiuto e vado avanti

Il Fondo Monetario Internazionale vorrebbe concedere un prestito alla Turchia per supportarla nelle difficoltà dovuta alle ricadute interne della crisi economica internazionale. Ma quella che, secondo una previsione di Goldman Sachs, sarà la terza economia d’Europa entro il 2050, per ora declina l’offerta

MAMMA LI TURCHI? NON PROPRIO – Che la Turchia non è più un Paese in via di sviluppo da tempo è meglio tenerlo ben presente. La capacità della élite politica al governo oggi è decisamente importante ed è tale che il governo turco sembra avere deciso di voler ancora procrastinare il raggiungimento di un accordo con il Fondo Monetario Internazionale. Tale accordo  – tecnicamente detto “stand-by agreement”- che, nella finalità per cui è pensato è utile a colmare le difficoltà della bilancia dei pagamenti del Paese cui si rivolge, secondo molti analisti potrebbe avere ricadute positive nell’aiutare la Turchia a superare l’attuale crisi economica (i dati della produzione industriale dell’anno in corso, ad esempio, sono stati pesantemente negativi in molti comparti, come quello manifatturiero). Il 10 ottobre scorso, tuttavia, nel bilancio previsionale  per il 2010, presentato per l’approvazione in Parlamento,  dove si dovevano decidere misure ad hoc  sulla crisi economica, non era presente alcun riferimento specifico ad un potenziale accordo con il Fondo Monetario Internazionale. Un chiaro segnale quello proveniente dal governo turco, ovvero di non desiderare, come anche dichiarato dal Ministro di Stato con delega all’Economia Ali Babacan a margine del seminario “Crisis, Economic Recovery and Structural Reform in Emerging Europe and Asia” (tenutosi quasi parallelamente al meeting annuale tra Fondo Monetario e Banca Mondiale a İstanbul il 6 e 7 ottobre scorso) l’intervento del fondo.  

UNA DECISIONE POLITICA – La decisione di accettare o meno gli aiuti è chiaramente politica ed il governo turco sembra per ora voler essere il solo artefice del superamento della crisi, considerando anche il fatto che, come fanno notare molti economisti, la situazione della bilancia dei pagamenti turca sta andando via via normalizzandosi. Superare la crisi senza aiuti esterni sarebbe un chiaro segnale non soltanto in politica interna, un successo che contribuirebbe a rafforzare ulteriormente il consenso del governo nei confronti dell’elettorato, ma anche nello scenario politico internazionale, dando prova di essere un Paese con un peso specifico sempre maggiore.

content_278_2

IL SETTORE PRIVATO – Un eventuale accordo servirebbe più che altro per aiutare il settore privato a far fronte alle richieste delle imprese in crisi. Date le grandi iniezioni di liquidità nel sistema, la Banca Centrale Turca (CBT) potrebbe trovarsi con mezzi liquidi scarsi nel 2010 e questo rischierebbe di provocare una stretta creditizia che danneggerebbe gli industriali, già duramente colpiti.  

ACCORDO RIMANDATO? – Anche per questo l’accordo sarà sicuramente rimandato al 2010, così da lasciare altro margine di tempo al governo per valutare se la situazione economica dovesse continuare a richiedere l’intervento del fondo. In tal caso, allora, si potrebbe finalmente concludere l’annosa trattativa tra la Turchia e il Fondo Monetario. La possibilità di un accordo resta, infatti, pur sempre sul tavolo. Ma muovendosi d’anticipo, Babacan ha recentemente dichiarato che la discussione dovrebbe vertere sul programma presentato dal governo al fondo e che solo su tali basi la trattativa potrebbe finalmente concludersi. In tal caso, la decisione troverebbe certamente d’accordo gli industriali turchi, che vedono nell’afflusso di capitali un aiuto positivo nei confronti della ripresa.  

Anna Longhini

Lo strike torna di moda

Un anno dopo, in Israele si ritorna prepotentemente a parlare di attacco preventivo all’Iran, un lancio di missili (strike, appunto) per impedire lo sviluppo del nucleare

QUALE SPETTACOLO?                     La miglior difesa è l’attacco, dicono i tecnici di calcio con spiccate propensioni allo spettacolo. Un tale motto ben si addice anche al ritorno di fiamma che in questi giorni si respira in Israele relativamente alla minaccia nucleare iraniana. Lo spettacolo, però, in questo caso sarebbe devastante. Catastrofico, per l’esattezza: questa la definizione di ieri del premier francese Sarkozy.

UN ANNO FA                    Facciamo qualche passo indietro, per capire meglio. Da quando Ahmadinejad agita lo spauracchio nucleare, confessando contemporaneamente il desiderio di cancellare Israele dalle cartine geografiche, nel Paese israeliano la preoccupazione è andata sempre più crescendo, e sovente si è pensato, appunto, che il miglior modo per difendersi da tali minacce sia renderle impraticabili, attaccando preventivamente l’Iran per impedirgli di raggiungere l’agognato nucleare. Il fatto che poi, anche con il nucleare tra le mani, appare poco probabile che Teheran attacchi Israele (una gaffe del 2007 dell’ex Presidente francese Chirac a proposito nascondeva una grande verità: “Non mi preoccupa il nucleare iraniano. L’Iran sa fin troppo bene che se lanciasse qualsiasi cosa contro Israele, mezz’ora dopo Teheran sarebbe rasa al suolo”), conta assai poco.In particolare, proprio un anno fa di questi tempi si discutevano animatamente e pubblicamente in Israele i piani di attacco all’Iran: uno strike di trenta giorni, un lancio continuo di missili contro gli obiettivi prefissati. Già si parlava delle date: il tutto sarebbe avvenuto tra Novembre 2008 e Gennaio 2009. Un periodo a caso? Tutt’altro. Quei due mesi segnavano l’interregno tra Presidente uscente ed entrante degli Stati Uniti. In assenza di una guida nella pienezza dei suoi poteri a Washington, gli Israeliani si sentivano legittimati ad attaccare. Il gatto non c’è, i topi ballano, tanto per capirsi. Tutto è poi saltato, sia per una comunque forte opposizione interna a tali piani, anche tra i più alti vertici militari (il Ramatkal, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Gabi Ashkenazi, dichiarò in proposito poco meno di un anno fa: “Se attacchiamo l’Iran, la pagheremo per i prossimi 100 anni”, frase significativa per un Paese che di anni ne ha solo 60), sia per la debolezza del Governo, con un premier dimissionario come Olmert che non poteva certo permettersi un conflitto con l’Iran. Se è vero che un Governo già segnato ha combattuto un conflitto a Gaza tra dicembre e gennaio, questo non è paragonabile per portata e conseguenze a uno scontro con il nemico iraniano.

content_279_2

PARLA IL MOSSAD            Perché, un anno dopo, Israele ha ripreso a parlare di attacco all’Iran? La questione che allarma non è quella relativa alle proteste post-elettorali, che a parere del Mossad (l’intelligence israeliana) avranno vita breve, dato che il Leader supremo Khamenei appoggia Ahmadinejad. Il punto centrale è sempre lo sviluppo del nucleare. Il 16 giugno scorso, il capo del Mossad Meir Dagan ha riferito alla Commissione Affari Esteri della Knesset, il Parlamento israeliano, che l’Iran entro il 2014 avrà una bomba nucleare pronta per essere lanciata, definita “una grave minaccia all’esistenza dello Stato di Israele, che deve essere allontanata”. Da allora, la questione Iran è ritornata prepotentemente al centro della scena israeliana, e con essa l’idea dell’attacco come miglior difesa (anche perché il Governo attuale non è solido, ma neanche cronicamente debole come quello di Olmert). 

BIDEN, CHE GAFFE          Una frase effettivamente ambigua del Vicepresidente Usa Joe Biden ha inoltre scatenato un putiferio. “Israele è uno Stato sovrano, anche se gli Stati Uniti non fossero d’accordo non potrebbero impedire un attacco contro l’Iran”. Apriti cielo. Quello che è stato per tutti, israeliani in primis, un via libera a qualsiasi azione che il Governo Netanyahu (foto) avesse ritenuto opportuna, è stato prontamente smentito da Obama, (“Via libera? Assolutamente no”), con una posizione avvallata dal Capo degli Stati Maggiori riuniti statunitense, ammiraglio Mike Mullen (“Un attacco all’Iran è all’ordine del giorno, ma avrebbe conseguenze gravi e imprevedibili. La risposta di un paese attaccato mi preoccupa. Una strada da non imboccare, da evitare con tutti i mezzi possibili”) e dal Presidente francese Sarkozy (“Israele deve sapere che non è solo, e deve considerare la situazione con calma”). 

ASCOLTATE ASHKENAZI             Scenari futuri? L’attacco all’Iran pare veramente improbabile allo stato attuale delle cose. Il fronte interno israeliano è tutt’altro che compatto, diversamente dalle potenze occidentali, per una volta completamente concordi, che bocciano senza appello una simile eventualità. La nostra impressione è che chi ha visto giusto è Ashkenazi, Capo di Stato Maggiore israeliano. Se Israele attaccasse, la pagherebbe davvero per un’eternità, e davvero rischierebbe di mettere gravemente a repentaglio la sua  stessa esistenza.  La miglior difesa è l’attacco è un concetto che può funzionare (forse) al Real Madrid, non certo in un caso come questo, dove le conseguenze potrebbero essere talmente nefaste da non riuscire nemmeno ad immaginarle sino in fondo.  

Alberto Rossi [email protected]

Hamas lo vuole morto

Arrestati alcuni attivisti di Hamas che volevano uccidere il Presidente palestinese Abu Mazen. L’obiettivo è chiaro: far naufragare i colloqui di riconciliazione con Fatah, e provare a prendere anche il controllo della Cisgiordania. Ecco come

IL PIANO – Una decina di attivisti di Hamas, arrestati dalle forze di sicurezza palestinesi, hanno confessato di seguire da tempo i movimenti di Mahmud Abbas, meglio conosciuto come Abu Mazen, per venire a conoscenza dei dettagli relativi alle sue forze di sicurezza personali, al chiaro scopo di assassinare il Presidente palestinese. Il Segretario dell’Autorità Palestinese, Taib Abd-Arahim, ha svelato i dettagli dell’operazione. L’arresto è avvenuto lunedì 29 Giugno. Gli uomini arrestati, tutti di un’età compresa tra i 25 e i 30 anni, avevano con sé armi, mappe e fotografie di molti degli uomini più importanti dell’Autorità Palestinese. Fonti delle forze di sicurezza palestinesi hanno dichiarato che nelle confessioni degli uomini arrestati sono emersi chiaramente i tentativi di attaccare le istituzioni palestinesi, eliminando diversi uomini di spicco dell’Autorità Palestinese. In particolare, è emerso come questi seguissero con attenzione gli spostamenti di Abu Mazen, per tentare di ucciderlo. 

COMMENTI – A seguito di quanto avvenuto, il portavoce di Fatah, Fahmi Zarir, ha dichiarato che “L’intento di Hamas è evidente: fare naufragare i colloqui di riconciliazione in corso al Cairo tra Hamas e Fatah,facendo tornare il caos in Cisgiordania, dopo che negli ultimi due anni abbiamo assistito ad un crescente livello di sicurezza sul territorio”. Un portavoce dell’ala militare di Hamas ha negato con forza (come era prevedibile) qualsiasi collegamento tra questi uomini e Hamas stesso. Di certo, però, se questi legami fossero reali, quanto accaduto sarebbe un segnale chiaro non solo della volontà di Hamas di far naufragare i colloqui del Cairo, ma anche della volontà di perpetrare un vero e proprio tentativo di colpo di stato ai danni dell’Autorità Palestinese.   

content_280_2

ALTRO CHE RICONCILIAZIONE              Ulteriori indizi a sostegno di questa volontà provengono dalle parole del portavoce delle forze di sicurezza palestinesi, Adnan Ad-Damiry, che ha annunciato il sequestro da parte delle forze di sicurezza della Cisgiordania di ingenti quantità di armi ed esplosivi posseduti da Hamas nei distretti di Nablus, Qalqilya ed Hebron. Armi ed esplosivi, sostiene Ad-Damiry, destinati ad essere usati “in maniera abominevole” contro le forze dell’Autorità Palestinese.La strategia di Hamas in Cisgiordania è ormai chiara agli occhi delle forze di sicurezza palestinesi. Sono diversi ormai gli appartamenti acquistati e trasformati in centri operativi di collegamento tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. Da qui partono i piani volti ad eliminare alcune cariche dell’Autorità Palestinese e a minacciare la sicurezza della regione.Le forze palestinesi hanno inoltre sequestrato in questi centri 8,5 milioni di dollari entrati illegalmente in Cisgiordania, per finanziare e sostenere la forza militare di Hamas in Cisgiordania.Dall’altra parte, Hamas denuncia la massiccia ed indiscriminata campagna di arresti dei suoi attivisti in Cisgiordania. Anche sabato si sono registrati quattro nuovi arresti, tra cui uno ai danni di una donna, a Qalqilya, Tulkarem e Nablus. Hamas accusa Fatah di torturare tali prigionieri in carcere, e chiede il rilascio almeno della donna arrestata, dichiarando agli ufficiali egiziani, ai leader dei partiti palestinesi e alle organizzazioni umanitarie che “occorre interrompere questa manipolazione del destino palestinese, mostrando la verità sulle persone arrestate e torturate”. Questa la risposta di Ad-Damiry: “Vengono arrestati solo gli uomini sospettati di contrabbando di armi o denaro. Continueremo il nostro lavoro fino a quando Hamas non smetterà di pianificare i suoi atti illegali, così come fa nella Striscia di Gaza, per mantenere la sicurezza nella regione. La verità è che se arrivasse uno Tsunami sulla Cisgiordania, Hamas direbbe che è colpa dell’Autorità Palestinese”.

 SCENARI NEFASTI – La storia di questi luoghi ci insegna che tutto può cambiare da un momento all’altro. Ma i fatti degli ultimi giorni ci dicono chiaramente che i tentativi di riconciliazione tra Hamas e Fatah sinora non stanno portando ad alcun frutto positivo. E senza questi frutti, difficilmente nel breve periodo gli scenari palestinesi saranno diversi da un caos generale ed indiscriminato. 

Alberto Rossi [email protected]