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– Anni '10: il decennio del Sudamerica
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APS | Rivista di politica internazionale
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– L'Ucraina (e il suo gas) tra Europa e Russia
– Focus Iran: le proteste e il nucleare
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Nella nona e decima puntata:
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– Il Cile dopo il terremoto
– Congo – Niger – NIgeria: storie d'Africa
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La tredicesima e quattordicesima puntata:
– Hamas e Mossad: spy-story in salsa mediorientale
– G2: verso l'AmeriCina…. o no?
Il trasferimento in Egitto di Gilad Shalit, soldato israeliano da tre anni nelle mani di Hamas, è stato prima confermato dai media arabi, poi seccamente smentito dalle parti. Un caso sempre più intricato, e sempre più importante. Ecco perchè
DO UT DES Facciamo un passo indietro per capire meglio. Qualche giorno fa abbiamo raccontato del possibile trasferimento in Egitto di Gilad Shalit, soldato israeliano rapito il 25 Giugno 2006 da Hamas, nell’ambito di uno scambio di prigionieri. La notizia era trapelata da fonti diplomatiche europee, e aveva trovato alcune conferme tra i media arabi, in particolare lo scorso sabato sul quotidiano Asharq al-Awsat. La testata araba riportava ulteriori dettagli: Gilad Shalit verrebbe consegnato all’intelligence egiziana, e in Egitto (Paese mediatore della trattativa) potrebbe riabbracciare i suoi genitori, il padre Noam e la madre Aviva. In seguito, Israele libererebbe 400 prigionieri palestinesi (altre fonti però parlano addirittura di 1100), tra cui molte donne e bambini, ma anche Parlamentari di Hamas, e una volta avvenuto lo scambio sarebbe stato concesso a Gilad il permesso di rientrare in patria.
INDIETRO TUTTA? Tale notizia è stata però seccamente smentita, in primo luogo da Osama Muzeini, capo dei negoziatori di Hamas. Muzeini afferma che non vi sono passi in avanti, e che l’ultima proposta concreta israeliana è giunta da Ehud Olmert, ex-Primo Ministro, alla fine del suo mandato, dunque oltre sei mesi fa. La trattativa condotta con l’ex premier partiva da una lista di 450 prigionieri richiesti da Hamas: il Governo israeliano ne avrebbe liberati 325, di cui 125 con l’obbligo di non rimanere in Cisgiordania, ma non avrebbe scarcerato i condannati all’ergastolo. La controproposta israeliana prevedeva la liberazione di 550 detenuti con pene tra i cinque e i sette anni. Hamas ha risposto picche, concedendo al massimo dieci veti sulla lista iniziale dei 450. L’accordo però sembrava vicino: dopo che i mediatori egiziani affermarono che gli Israeliani acconsentivano alle richieste della controparte, il leader dell’ala militare di Hamas, Ahmed Jabri, è volato al Cairo per chiudere la trattativa. Lì non si è però trovato nessun accordo, e tutto è saltato. Anche il Ministro della Difesa israeliano Ehud Barak ha smentito la notizia, negando dei progressi e asserendo che simili fughe di notizie danneggiano solamente le trattative. Semplicemente, afferma, “L’Egitto ha fatto una proposta, e le parti stanno discutendo”.

LA POSTA IN GIOCO Ma cosa comporterebbe davvero questo trasferimento? Le questioni in gioco sono diverse. Il rilascio o anche il solo trasferimento di Shalit metterebbe pressione a Israele nel liberare una quantità ingente di detenuti palestinesi e nell’aprire assai più frequentemente i valichi di Gaza. Dall’altra parte, verrebbe meno un ostacolo gravoso nel lungo e difficile cammino di riconciliazione tra Fatah e Hamas, i due principali partiti/movimenti palestinesi. Staremo a vedere dunque se le smentite sono veritiere o meno. In fondo, come diceva Andreotti, una smentita è una notizia data due volte.
Alberto Rossi [email protected]
(nella foto: Il Ministro della Difesa israeliano Ehud Barak. Soldato più medagliato della storia di Israele, è stato Primo Ministro per 18 mesi tra il ’99 e il 2001)
Annuncio dell’esercito israeliano: limiteremo le nostre azioni in Cisgiordania.Una mossa per ammorbidire Obama e la sua richiesta di congelamento totale degli insediamenti, sulla quale gli Usa (e tutti i membri del G8) non sono intenzionati a cedere
FATE VOI L’IDF (Israeli Defence Force), così come viene denominato l’esercito israeliano, ha pianificato assieme al Governo di limitare le proprie operazioni militari all’interno di quattro tra le sette maggiori città palestinesi, nello specifico Betlemme, Ramallah, Gerico e Qalqilya, per dare la possibilità alle forze regolari palestinesi di crescere nella loro capacità di garantire autonomamente la sicurezza su quei territori. Le forze di sicurezza palestinesi, istruite ed equipaggiate da programmi e fondi americani ed europei, acquisiranno dunque maggiori responsabilità. Fonti dell’esercito israeliano precisano come potrebbe evolversi la situazione: se le forze palestinesi dimostreranno di saper fare sostanziali passi in avanti, l’IDF farà nuovi passi indietro anche in altre città. Nel caso opposto di attacchi pianificati o bombe contro obiettivi israeliani, invece, l’esercito di Tel Aviv rientrerà istantaneamente nelle città coinvolte dal progetto, per annullare gli attacchi quanto prima.

TO FREEZE OR NOT TO FREEZE? Una tale decisione è figlia della campagna di Washington volta a migliorare la sicurezza dei Territori palestinesi. Con una tale concessione, il Governo israeliano sembra intenzionato a guadagnare credito nei confronti dell’amministrazione americana, per persuadere Obama e convincerlo a smorzare i toni decisi della sua richiesta di totale congelamento degli insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi, compresa la crescita naturale degli stessi. A tale proposito, il Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, sebbene con toni assai più moderati rispetto ad uscite precedenti, ha nuovamente ribadito la posizione israeliana: nessun nuovo insediamento, nessuna espansione. Ma la crescita naturale è inevitabile: non si può soffocare le persone, non si può fermare la vita, i matrimoni, le nascite. Anche durante il G8 dei Ministri degli Esteri in Italia si è però ribadita la richiesta di una “ripresa dei negoziati secondo le linee guida della Road Map”, il piano di pace presentato dal Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu) durante la Seconda Intifada. seconda tale cammino, tappa fondamentale per il riavvicinamento delle parti è il congelamento totale delle attività degli insediamenti.
OCCHIO AI PROCLAMI Sempre su pressione americana, il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat ha annunciato un piano per congelare la distruzione israeliana del 70% delle case costruite senza autorizzazione a Gerusalemme Est, dove vivono i Palestinesi, studiando forme di compensazioni per il rimanente 30%. Le case “irregolari” a Gerusalemme Est sono circa 20.000, e al loro interno vivono circa 180.000 persone. Una nuova piccola goccia verso la “distensione”? Staremo a vedere. Chi conosce la situazione sa però bene che bisogna evitare proclami e annunci di svolta. Basta un nulla per ripiombare nell’alta tensione. La prudenza non è mai troppa.
Alberto Rossi [email protected]
(Nella foto: il Ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman)
La tragica storia di Gilad Shalit, soldato israeliano da tre anni nelle mani di Hamas, sembra finalmente giunta ad una svolta positiva: entro pochi giorni potrebbe essere trasferito in Egitto. Sempre che il Governo israeliano trovi un accordo sui prigionieri di Hamas da liberare
TRE ANNI DOPO – Gilad Shalit in Egitto entro pochi giorni. Questa la grande notizia che sta facendo sperare Israele. Il trasferimento del soldato israeliano nelle mani di Hamas dal 25 giugno 2006 avrebbe luogo in vista di uno scambio di prigionieri con lo stesso Hamas, e rientrerebbe nell’ambito dell’iniziativa americana, che coinvolge anche Egitto e Siria, volta ad aprire i valichi di Gaza da una parte e a promuovere una riconciliazione interna palestinese dall’altra. Già Jimmy Carter parlò un anno fa di un trasferimento di Shalit in Egitto, ma ai tempi questa eventualità non era nulla di più che un’idea personale dell’ex Presidente Usa.
IN CAMBIO DI CHI – Secondo i piani di questo accordo, Shalit verrebbe “custodito” dall’intelligence egiziana, e nel frattempo potrebbe rivedere la sua famiglia. Egli potrà però fare ritorno in patria solamente dopo che il Governo israeliano avrà trovato l’accordo definitivo riguardante la lista di prigionieri di Hamas da liberare. Il nodo è delicato: Hamas insiste perché vengano liberati anche alcuni prigionieri “with blood on thier hands”, con le mani sporche di sangue, così come era stato approvato dal precedente gabinetto guidato da Olmert. Intanto, in settimana Israele ha liberato Sheikh Aziz, Speaker del Consiglio Legislativo Palestinese, detenuto nelle carceri israeliane da tre anni. Aziz è un leader di Hamas in Cisgiordania, e appartiene ad una delle frange più moderate di tale movimento.

CHIUDETE GLI OCCHI – Il 25 giugno, nel terzo anniversario della cattura di Gilad, il padre Noam ha rivolto un accorato appello a Radio Army: “Chiedo ad ogni persona del Paese, uomo e donna, giovane e anziano, di chiudere gli occhi per tre minuti. Tre minuti soltanto; aspettate che passino tre minuti, e in quei minuti pensate a cosa sta vivendo Gilad, non per tre minuti, per tre ore o per tre giorni; lui sta aspettando nel buio, sta soffrendo fisicamente e mentalmente per la libertà che gli è stata tolta tre anni fa.
Alberto Rossi [email protected]
(Nella foto: Gilad Shalit col padre Noam)
Nota ufficiale americana a Israele: aprite i valichi della Striscia di Gaza, non bloccate la ricostruzione. Il Governo israeliano dice no: prima vogliamo un segno che Shalit sia vivo. E Washington si arrabbia
RICOSTRUIRE – L’amministrazione americana, tramite una nota diplomatica ufficiale, ha chiesto al Governo israeliano di aprire i passaggi di confine nella Striscia di Gaza, in modo di facilitare le operazioni di ricostruzione dopo la guerra dello scorso inverno.
ECCO PERCHE’ – Nel dettaglio, la nota richiede esplicitamente di permettere l’ingresso di cibo e medicinali. Seppure si siano registrate ultimamente aperture in tal senso da parte dell’amministrazione israeliana, questo non pare ancora sufficiente. In secondo luogo, appare necessario consentire il trasferimento di fondi e denaro dalla banche di Ramallah a quelle della Striscia di Gaza, per far fronte ai gravi danni provocati dalla guerra in tutta la Striscia. In terzo luogo, si richiede un apertura dei confini anche per altre tipologie di beni, per ricominciare attività di import-export che possano rilanciare l’economia locale. Vi è infine una menzione specifica per quanto riguarda ferro e cemento, elementi fondamentali per la ricostruzione. Gli Stati Uniti, a tal proposito, si impegneranno nello stabilire una supervisione internazionale, sotto l’egida dell’Onu, per assicurarsi che tali materiali siano utilizzati per la ricostruzione e non per rinforzare l’arsenale di Hamas.

PRIMA GILAD – Il Governo israeliano però lega a doppio filo le possibilità di concedere tali aperture con progressi nei negoziati per la liberazione di Gilad Shalit, il soldato israeliano nelle mani di Hamas da 1092 giorni. Tale condizione sta irritando non poco Washington: aprire i valichi solo nel momento in cui vi saranno nuove prove del fatto che Shalit sia in vita appare un atteggiamento poco costruttivo, che non porta ad alcun progresso.
Alberto Rossi [email protected]
Tutt’altro che una brezza, purtroppo: l’aria a Gaza parla del rischio forte di un conflitto ogni giorno un po’ più vicino. Ne parlavamo già un mese fa: ora sono noti i dettagli del possibile nuovo, più massiccio piano di attacco israeliano
NON SOLO SCHERMAGLIE – Avviene come nelle imminenze dei terremoti. Prima della grande scossa, vi sono sempre delle piccole scosse, quasi impercettibili per le persone comuni, o rilevate solo dai sismografi. Spesso nessuno vi dà peso, sembrano movimenti tellurici come tanti altri. Eppure, talvolta accade che quelle piccole scosse preannuncino un terremoto di grandi dimensioni. Lungi da noi metterci a fare le cassandre. Eppure, lo scenario di Gaza sembra assai paragonabile a questa immagine. Le ultime “piccole scosse”, ovvero colpi di mortaio e un razzo katyusha dalla Striscia, raid e operazioni israeliane che hanno ucciso sei palestinesi (vedi dettagli nel Chicco in più/1) potrebbero sembrare poco più di piccole schermaglie. In Italia è arrivata la notizia, ma quasi nessuno parla di uno scenario, già illustrato dal Caffè oltre quaranta giorni fa, che merita un nuovo approfondimento, dato che ogni momento che passa appare sempre meno improbabile. Sembra proprio, infatti, che l’esercito israeliano stia preparando una nuova offensiva nella Striscia di Gaza.
IL PIANO DI ATTACCO – Le indiscrezioni raccolte dal Jerusalem Post l’11 gennaio parlano di un intervento ben definito: un attacco più potente dell’operazione Piombo Fuso (dicembre 2008-gennaio 2009, costata la vita a 1400 Palestinesi), che, in particolare, prevede l’occupazione del “Corridoio Filadelfia”, quella striscia di “terra di nessuno” che separa la Striscia di Gaza dall’Egitto. Quella terra sotto la quale vi sono le centinaia di tunnel che Hamas utilizza per far entrare armi ed esplosivi nella Striscia. Il piano prevedrebbe il dispiegamento di diverse unità combattenti a Rafah, città della Striscia al confine dell’Egitto, e in quei 14 chilometri di Corridoio Filadelfia in cui sorgono la maggior parte dei tunnel, con l’obiettivo di trovarli e distruggerli, a costo di passare casa per casa. Inoltre, non è escluso il mantenimento di una presenza post-conflitto a Rafah che prevenga la ricostruzione dei tunnel. Tutto questo è confortato dalle parole di Yom-Tov Samia, ex generale maggiore dell’esercito, impegnato sul campo nell’operazione Piombo Fuso. Il 10 gennaio, in un’intervista alla radio dell’esercito, Samia ha dichiarato che “una nuova guerra con Hamas è inevitabile”. E in questa eventuale futura operazione, più massiccia rispetto alla precedente, Israele “occuperebbe territori specifici nella Striscia, a causa delle provocazioni subite”, in modo da raggiungere risultati “sul lungo termine” in grado di ridurre la “fornitura di ossigeno” di Hamas. “Sono scettico sul fatto che Hamas – un’organizzazione terroristica che vuole distruggere Israele e che occorre colpire duramente – possa cambiare o essere spodestata senza un simile intervento”. Secondo Samia, un simile scenario sarebbe anche l’unico che renderebbe il Presidente palestinese Abu Mazen in grado di riacquisire autorità nella Striscia, un’ipotesi che risulterebbe sicuramente gradita ad Israele.
GILAD SULLO SFONDO – Un tale piano era già stato presentato un anno fa, ma l’allora premier Ehud Olmert lo accantonò, convinto che il prezzo da pagare per un intervento di tale natura fosse troppo alto, per due questioni in particolare: metterebbe a repentaglio la vita di troppi soldati israeliani, e richiederebbe il mantenimento di una presenza militare nella Striscia, con costi – non solo economici, anzi – decisamente elevati. L’attuale premier Netanyahu avrebbe invece ripreso in mano il progetto, alla luce del riarmo di Hamas, sempre più consistente nella quantità e nella qualità dei missili a disposizione. Certo non si può dare per assodato che tale piano veda la luce in tempi brevi. Sono tantissime, infatti, le variabili in gioco. Sullo sfondo, innanzitutto, rimane la questione di Gilad Shalit, soldato israeliano da tre anni e mezzo nelle mani di Hamas, su cui da mesi si vocifera circa un’imminente liberazione, sempre puntualmente rinviata. L’esito delle trattative, che prevedono uno scambio con centinaia di prigionieri palestinesi, può risultare influente rispetto alla fattibilità e alla tempistica dello scenario conflittuale fin qui presentato. Ultimamente però, non si registra alcuno sviluppo significativo. Tutto sembra tacere: e di certo, tale silenzio non aiuta a prevenire lo scenario conflittuale.
IL RUOLO DEGLI USA – Inoltre, sicuramente l’amministrazione Obama farà il possibile per prevenire un simile scenario: gli stessi Usa, impegnati in molti altri fronti caldi, potrebbero infatti risentire gravemente di una ulteriore escalation di tensione in Medio Oriente. Sia chiaro: se il governo Netanyahu decide per l’intervento, non c’è Obama che tenga. È chiaro però, che al di là della pressione americana, l’idea di un pressochè sicuro congelamento dei rapporti con Washington, immediatamente successivo all’ipotetico attacco, potrebbe rappresentare un discreto deterrente per Netanyahu, anche perché renderebbe inutile il parziale e temporaneo congelamento degli insediamenti, deciso qualche settimana fa per venire incontro alle richieste americane in ottica ripresa dei negoziati per la pace.
OCCHIO ALL’EGITTO – Infine, è da valutare con grande attenzione il ruolo dell’Egitto, anch’esso sempre più ai ferri corti con Hamas, e come Israele, pur con mezzi e motivazioni differenti, volto a perseguire la fine del contrabbando tra i suoi confini e la Striscia tramite la costruzione di un muro di separazione, un progetto apertamente sostenuto anche dagli Usa: una lunga striscia di acciaio ultraresistente, lunga dieci chilometri e profonda 18 metri sottoterra, volta a spezzare i traffici dei tunnel. Questa comunanza di intenti Egitto-Israele circa i tunnel sarà per Netanyahu un aspetto che placherà il bisogno di intervenire drasticamente, o un ulteriore incentivo, una sorta di giustificazione a procedere per estirpare alla radice il problema? Come dice bene la giornalista Paola Caridi, “In Medio Oriente non si vive senza condizionale”. Di certo, però, va sottolineato chiaramente che, alla luce degli ultimi eventi, lo scenario di un nuovo conflitto a Gaza appare ogni giorno meno remoto.
Alberto Rossi [email protected]
Uno scenario tutt’altro che improbabile o disfattista. Nell’ultimo mese, diverse dichiarazioni, da parte israeliana ma non solo, sembrano volte a preparare le opinioni pubbliche interne. E i negoziati sullo scambio di prigionieri e Gilad Shalit potrebbero svolgere un ruolo determinante
SCENARI DI GUERRA – Coma va a Gaza? Male. Molto male. Non solo perché la situazione umanitaria è ogni giorno più drammatica. Non solo perché la guerra di dicembre-gennaio con l’incursione israeliana nella Striscia (1400 morti) non ha risolto nulla, anzi. Non solo perché Hamas non accenna minimamente a cambiare strategia, sempre più decisa nella sua politica di riarmo. Questi elementi sono solo alcuni di quelli che contribuiscono a creare uno scenario decisamente cupo. Ma soprattutto, e qui sta la questione centrale, gli scenari prossimi potrebbero essere ancora più devastanti. Perché se è vero che non troverete nessuno disposto a metterci mani sul fuoco, è altrettanto vero che diversi fatti concorrono a rendere sempre più possibile lo scenario di un nuovo conflitto nella Striscia nel breve termine. Quasi nessuno ne sta parlando, ma un simile scenario non è affatto da escludere, soprattutto se, come vedremo poi, altre questioni tra le parti non riusciranno a sbloccarsi a breve.
DAL RAZZO IN POI – Torniamo indietro di un mese. È il 3 novembre quando Amos Yadlin, direttore dell’Intelligence militare israeliana, annuncia il lancio di un razzo in mare compiuto da Hamas. Il lancio doveva rimanere segreto, ma è stato intercettato dai radar israeliani. Un esperimento con un particolare allarmante: la gittata del razzo, che può essere lanciato anche da una rampa sistemata su un semplice autocarro, è di 60 chilometri, e dunque, se lanciato dal punto più settentrionale della Striscia di Gaza, potrebbe arrivare a colpire Tel Aviv. E alla Knesset, il Parlamento israeliano, Yadlin ha riferito che l’arsenale militare di Hamas è di gran lunga più ricco rispetto a un anno fa, nell’imminenza dell’Operazione Piombo Fuso. Inoltre, egli ha affermato che tale riarmo indica un chiaro segnale di rinnovata volontà di un conflitto con Israele, e che quest’ultimo razzo voleva essere una sorta di “arma a sorpresa” da riutilizzare in un prossimo conflitto. Un razzo di tale gittata parrebbe dunque alterare il bilanciamento della deterrenza, che Israele dichiarò di aver ristabilito in gennaio, al termine dell’incursione nella Striscia. La questione centrale però non è tanto il fatto in sé, quanto il modo con cui Yadlin ha riferito del lancio. Parlare alla Knesset è equivalso di fatto a parlare all’opinione pubblica. La modalità di comunicazione ha infatti tolto un velo, iniziando a preparare il pubblico relativamente ad un nuovo conflitto a Gaza. Hamas, che sa bene come una nuova incursione israeliana risulterebbe per la già martoriata Gaza un disastro senza confini, ha smentito il lancio, denunciando la falsità della dichiarazione israeliana, volta a influenzare le discussioni Onu sul Rapporto Goldstone relativo al conflitto di dicembre-gennaio, e istigare l’opinione pubblica.

VOLANO ACCUSE – Una decina di giorni dopo, il Capo di Stato Maggiore dell’esercito, Gabi Ashkenazi, ha dichiarato: “Se i lanci continueranno, l’esercito non esiterà a rispondere contro questi”. La frase in sé potrebbe apparire quasi di circostanza, se il contesto non fosse stato quello di un dialogo con un gruppo di studenti delle superiori in una scuola di Beer Sheva. Un altro segnale indirizzato non tanto a politici e istituzioni, quanto all’opinione pubblica. Difendendo la giustizia dell’Operazione Piombo Fuso, Ashkenazi ha rilanciato così: “Quando arrivano razzi su Beer Sheva, dobbiamo difenderci, e così abbiamo fatto. Ed esiste la possibilità che saremo costretti a farlo di nuovo”. Da questa dichiarazione è partito il monito del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, che alla televisione iraniana ha denunciato la volontà israeliana relativa ad una nuova offensiva nella Striscia, mentre Hamas, come dichiarato ad una delegazione della Croce Rossa, “non sta cercando nuova violenza. Ma se Israele attaccherà, ci faremo trovare preparati e combatteremo con tutti i mezzi a nostra disposizione”. Al di là delle schermaglie verbali, rimane l’obiettivo: preparare le opinioni pubbliche, affinchè un possibile nuovo conflitto non le colga di sorpresa. E da questo punto di vista, in Israele le parole di Yadlin e Ashkenazi hanno subito trovato riscontro sulla stampa. Su Yediot Ahronot, uno dei giornali più diffusi in Israele, l’analista militare Alex Fishman ha scritto: “Nessuno ai vertici delle forze armate dubita della necessità di andare incontro ad un nuovo scontro militare con Hamas. È credibile affermare che lo scontro riprenderà su larga scala a dicembre, ad un anno esatto da Piombo Fuso”. Il lancio del razzo a lunga gittata avrebbe segnato dunque l’inizio del countdown. La tensione regionale (negoziati sul nucleare iraniano appesi a un filo, instabilità interna palestinese) potrebbero solo accelerare tutto questo. Come spiega un editoriale di Yisrael Hayom, “Per Israele è meglio essere un occupante ma in pieno controllo della situazione piuttosto che rimanere passivo lasciando ad Hamas la sua capacità strategica”.
DIPENDE DA GILAD? – In realtà, Israele non ha nessun interesse o convenienza a occupare nuovamente la Striscia di Gaza. I benefici sarebbero incerti, e i costi altissimi. Tra l’altro, da una ventina di giorni su questo scenario è calato il silenzio, soprattutto perché i negoziati per lo scambio di prigionieri tra le parti – che porterebbero alla liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit, da tre anni e mezzo nelle mani di Hamas, in cambio di 1000 detenuti palestinesi (tra cui probabilmente Marwan Barghouti, uno dei leader del braccio armato di Fatah durante la Seconda Intifada) – stanno per giungere ad un punto cruciale. Le due questioni sono collegate: se lo scambio andrà in porto, uno scenario conflittuale sembrerebbe meno possibile, o quanto meno rimandato nel tempo. Se tutto dovesse saltare improvvisamente, però, ecco che queste dichiarazioni volte a preparare l’opinione pubblica tornerebbero violentemente alla ribalta, e non potrebbero essere ignorate.
Alberto Rossi [email protected]