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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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L’Iraq ha votato

Chiuse le urne in Iraq: comincia l’attesa dei risultati che aiuteranno a capire a che punto è la normalizzazione del Paese. L’Europa fronteggia la sempre più complessa crisi greca, mentre ripartono i colloqui USA-Russia per la riduzione delle testate nucleari. Nuove violenze in Nigeria, e risultati elettorali a rischio in Togo.

Il voto per le elezioni Parlamentari in Iraq si è concluso, con una affluenza stimata del 50/60% e segnato da violenze che hanno portato alla morte di circa 40 persone. Inizia dunque il conteggio dei voti, che forse già in settimana potrebbe portare a dei risultati indicativi.

Il processo elettorale è stato sinora salutato come un successo, ma rimane il dubbio fondamentale: riusciranno le elezioni a consegnare al Paese un Parlamento ed un Governo stabili e capaci di consentire alla coalizione internazionale di programmare il ritiro dalle truppe?

Gli incontri tra Grecia e Germania non hanno portato a soluzioni chiare sulle opzioni per fornire al Governo greco l’aiuto che appare sempre più necessario per tentare di fronteggiare la grave crisi economica del Paese. Sono attesi in settimana altri colloqui a diversi livelli per definire quale sarà l’approccio dell’Europa e quali saranno le misure richieste alla Grecia.

Intanto nel Paese crescono le tensioni ed in settimana sono attese due grandi manifestazioni contro le misure di “austerity” che il Governo ha detto di voler adottare: in piazza andranno i sindacati del settore pubblico e di quello privato, così come i funzionari del Fisco.

Intanto in Portogallo, altro Paese a rischio, il Parlamento dovrebbe votare giorno 12 il bilancio per il 2010 con le relative misure anti-crisi.

In tema di terrorismo e sicurezza, il Pakistan sembra aver avviato una campagna volta a dare segnali positivi di cooperazione agli Stati Uniti. Diversi gli arresti già eseguiti dalla Polizia e dall’Esercito pakistano di esponenti legati ai Talebani e ad Al Qaeda ed aumenta adesso il rischio di una reazione violenta di questi gruppi sul suolo pakistano ed afghano.

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In Africa, ancora una volta, si riaccendono le tensioni etniche e inter-religiose. In Nigeria, nello stato di Plateau, nuovi scontri tra musulmani e cristiani hanno già fatto circa 500 vittime. La situazione attuale di crisi politica, dovuta all’incertezza sulle possibilità del Presidente Yar’Adua di continuare a governare, aumenta l’instabilità e rischia di bloccare o ritardare, nei prossimi giorni, la definizione di adeguate misure per prevenire che le violenze si espandano ad altre aree del Paese.

Rischi di violenze ed instabilità anche in Togo, dove il risultato delle elezioni presidenziali è contestato; il Presidente uscente Faure Gnassingbé è stato riconfermato, ma l’oppositore Jean-Pierre Fabre contesta irregolarità nel conteggio dei voti.

Infine segnaliamo, come sempre, gli incontri più importanti previsti in settimana.

  • Il 9 marzo Russia e Stati Uniti si ritrovano a Ginevra per riprendere i negoziati sul Il Trattato per la riduzione degli armamenti strategici, scaduto a Dicembre 2009.

  • Sempre in tema di relazioni militari, il Primo Ministro russo Vladimi Putin si recherà in India per incontrare il Primo Ministro Manmohan Singh, col quale discuterà un accordo di cooperazione militare da circa 4 miliardi di dollari.

  • Giorni di agitazione in Thailandia, dove dopo le decisioni della Corte Suprema di confiscare circa metà del patrimonio della famiglia dell’ex Primo Ministro Thaksin Shinawatra. Tra il 12 ed 14 marzo si terranno diverse manifestazioni organizzate dai suoi sostenitori, per le quali il Governo sta valutando di adottare misure di sicurezza particolarmente restrittive. Il Primo Ministro Abhisit Vejjajiva ha anche cancellato la visita prevista in Australia.

  • Giorno 14 in Cina il National People’s Congress dovrebbe votare, a conclusione dei propri lavori annuali, i documenti di indirizzo normativo.

La Redazione

8 marzo 2010

La Presidenta nel pallone

Si preannuncia un autunno caldo per Cristina Kirchner, impegnata a risolvere diversi problemi in politica interna. Dal provvedimento salva-calcio ai dissidi con gli agricoltori, passando per la riforma delle telecomunicazioni, aumentano le critiche contro il Governo argentino

KIRCHNER… IN RETE – Ventitre per cento: è l’ultima statistica rilevata che riflette il grado di popolarità di Cristina Fernández de Kirchner nell’opinione pubblica argentina. E pensare che al momento della sua elezione, nel novembre del 2007, la “Presidenta” era stata celebrata in tutto il mondo per essere la terza donna ad essere eletta democraticamente Capo di Stato nella storia dell’America Latina, simbolo di un rinnovamento sociale di tutto il continente. E invece no: una serie di errori e di politiche imposte dall’alto (ovviamente con la regia del marito, l’ex presidente Néstor Kirchner) hanno fatto crollare il sostegno degli argentini alla Kirchner, che ora si trova più sola con molti gruppi di interesse opposti al Governo. La prima gatta da pelare, dopo la sonora sconfitta dell’Oficialismo del PJ alle elezioni di medio termine di giugno, si è presentata in agosto, in prossimità dell’inizio del campionato di calcio. Molte società hanno dovuto riconoscere le proprie difficoltà economiche e l’insolvenza nei confronti di Televisión Satelital Codificada, la compagnia televisiva detentrice dei diritti di trasmissione delle partite. AFA, l’associazione del calcio argentino, che avrebbe dovuto ricevere 268 milioni di pesos (circa 70 milioni di dollari) da TSC come pagamento della licenza per trasmettere gli incontri, ha deciso di rompere il contratto con l’emittente e di stipularne un altro con il Governo. La Casa Rosada ha versato 600 milioni di pesos (155,4 milioni di dollari) ad AFA per trasmettere le partite sul canale pubblico Canal 7 e altri 100 milioni di pesos (25,9 milioni di dollari) da “girare” ai club insolventi. Un notevole aumento nella spesa pubblica argentina, già elevata oltre le possibilità delle casse statali. Basti pensare che poche settimane dopo il Governo ha concluso un nuovo prestito con il Banco Interamericano di Sviluppo per un valore di 750 milioni di dollari.

PANEM ET CIRCENSES – Così diceva un proverbio romano che si rivela sempre attuale: dai al popolo da mangiare e da divertirsi, e non si ribellerà all’autorità. Il calcio è in effetti una vera e propria febbre per gli argentini e la manovra del Governo, anche se costosa, può essere servita per raffreddare potenziali tensioni provenienti da altri settori. Innanzitutto dal conflitto con gli agricoltori, che sembra ormai destinato a non essere risolto. I produttori agricoli, che costituiscono una lobby molto potente in Argentina, hanno deciso di interrompere lo sciopero intrapreso ad agosto per protestare nuovamente contro le tasse sull’esportazione di soia e carne, ma lo scontro sembra solo rimandato alla prossima puntata. La politica dei Kirchner sembra miope nel penalizzare quello che è il settore più importante per l’economia nazionale: l’aumento delle tasse, in parallelo con il crollo dei prezzi delle materie prime dovuto alla crisi finanziaria, ha fatto diminuire molto l’export argentino, decretando per il 2009 una crescita del PIL prossima allo zero. 

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ED ORA ANCHE LA TV – In più, in questi giorni lo scontro politico si è infiammato per lo scontro in Parlamento sul disegno di legge, presentato dal Governo, che mira a riformare il sistema radiotelevisivo nazionale. Attualmente vige una legge promulgata durante la dittatura militare, che la Casa Rosada vorrebbe modificare limitando le frequenze radio-video a disposizione di un singolo gruppo mediatico e impedendo ai fornitori di servizi telefonici di fornire anche prestazioni audio-video (tale facoltà sarebbe riservata solo a quelli con partecipazione pubblica). I destinatari del provvedimento sarebbero sostanzialmente due: il gruppo Clarín, principale “forza” dell’informazione argentina, e Telefónica, la compagnia spagnola che non potrà avere accesso al segmento audio-video. Telefónica era già stata penalizzata qualche mese fa con una sentenza che decretò illegale, in quanto lesiva della concorrenza, la fusione con Telecom Italia, presente nell’azionariato di Telecom Argentina. Pare che Carlos Slim, il magnate messicano delle telecomunicazioni in America Latina (in Argentina detiene già il principale operatore di telefonia mobile, Personal)nonché vicino ai Kirchner, sia intenzionato a rilevare la quota italiana di Telecom, limitando l’espansione del colosso spagnolo. Telecom Argentina ha al suo interno una partecipazione pubblica e potrebbe quindi espandere notevolmente il proprio business diventando praticamente monopolista anche nel settore dei servizi audio-visivi forniti attraverso il cavo telefonico. 

IL PANORAMA REGIONALE – La Camera argentina ha appena approvato il disegno di legge con l’astensione dell’opposizione, che ha abbandonato l’aula al momento del voto. Provvedimenti restrittivi della libertà di stampa e di controllo statale sulle telecomunicazioni si sono registrati nelle ultime settimane anche in Venezuela, Ecuador e Bolivia. Sembra che in alcuni Paesi dell’ America del Sud stia prendendo piede un processo di arretramento rispetto al forte sviluppo delle istituzioni democratiche che si era verificato a partire dalla fine degli anni ’80. Tuttavia, mentre negli altri Stati citati i Governi sembrano solidi e stabili, in Argentina la posizione dei Kirchner si fa sempre più difficile ed isolata dal resto delle istituzioni e dei gruppi di potere locali. 

Davide Tentori 21 settembre 2009 [email protected]

A volte ritornano

Dopo la deposizione e l’esilio in Costa Rica, Manuel Zelaya ritorna (di nascosto) in Honduras. L’ambasciata del Brasile gli concede asilo, mentre il presidente ad interim Micheletti difende le ragioni del golpe

RITORNO IN PATRIA – Come se fossero state delle ferie estive: con l’inizio dell’autunno Manuel Zelaya, presidente deposto dell’Honduras, è tornato nel suo Paese dall’esilio cui era stato costretto in seguito al golpe del 28 giugno scorso. Zelaya era in Costa Rica, dove il presidente Oscar Arías gli aveva offerto ospitalità cercando anche, su mandato dell’OSA (Organizzazione degli Stati Americani), una mediazione con il presidente ad interim, Roberto Micheletti. Il tentativo era fallito e la situazione sembrava avviarsi lentamente alla normalità, in seguito all’indizione, per la fine di novembre, di nuove elezioni presidenziali. Il ritorno di Zelaya, ricomparso a Tegucigalpa senza alcun preavviso, ha invece cambiato nuovamente le carte in tavola; tanto più perché il leader deposto è riapparso all’interno dell’ambasciata brasiliana in Honduras.

IL RUOLO DI BRASILIA –  Cosa c’entra in tutto questo il Brasile? Il presidente Micheletti ha criticato la decisione di concedere l’asilo a Zelaya, sostenendo che tale atto costituisce un’intromissione negli affari interni dell’Honduras. La risposta non si è fatta attendere: l’ha data Dilma Rousseff, ministro della Casa Civil e potenziale erede di Lula, la quale ha affermato che Zelaya ha bussato alla porta dell’ambasciata e accoglierlo è stata semplicemente un’azione in linea con il rispetto dei diritti umani. È difficile tuttavia credere che il Brasile non c’entri proprio nulla con la ricomparsa in patria dell’ex presidente che, stando alla versione ufficiale,  sarebbe riuscito senza alcun appoggio esterno a rientrare in Honduras e recarsi, come un privato cittadino qualsiasi, all’ambasciata di Brasilia. Sembra chiaro invece che Lula voglia dettare la propria linea, al fine di riportare Zelaya al potere in vista delle elezioni. Tale risultato consentirebbe al Brasile di confermare la propria leadership regionale, a discapito di altre potenze come il Venezuela e il Messico. La decadenza di quest’ultimo, in particolare, ha aperto negli ultimi tempi un certo vuoto di potere in America Centrale, per riempire il quale Brasilia e Caracas hanno intrapreso da alcuni mesi una competizione “silenziosa” di tipo essenzialmente economico-commerciale. 

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E GLI USA? – La posizione degli Stati Uniti in questa situazione si è mantenuta sempre abbastanza marginale. L’amministrazione Obama ha sempre richiesto che Zelaya venisse reintegrato nelle sue funzioni, ed è quello che continua a fare. Le ultime dichiarazioni del Segretario di Stato Hillary Clinton riflettono la continuità della linea della Casa Bianca, che ha scelto sostanzialmente di lasciare che gli eventi seguano il loro corso naturale. Zelaya non è un presidente particolarmente favorevole agli USA, ma per dare l’impressione di un taglio netto con la politica estera passata Obama non può appoggiare i golpe che si svolgono in quello che da sempre è stato considerato come “il giardino di casa” degli Stati Uniti. Perciò, come già dichiarato dal presidente democratico, la Casa Bianca preferisce affidarsi al Brasile, con il quale c’è una buona comunità di intenti, per la gestione di situazioni come quella honduregna. 

Davide Tentori 23 settembre 2009 [email protected]

L’inizio della fine

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I contendenti stanno affilando le armi: da una parte il golpista dalle origini bergamasche, Roberto Micheletti, che ha sospeso le libertà costituzionali, dall’altra il presidente campesino, Manuel Zelaya, deportato dai militari e “eroicamente” rientrato in patria sotto le ali accoglienti e potenti dell’ambasciata brasiliana

TENSIONE E VIOLENZA – I due presidenti si stanno preparando a quella che pare essere l’inizio della fine della crisi hondureña: le elezioni sono alle porte, novembre 2009, e entrambi devono sfruttare il momento prima che il voto del popolo legittimi un terzo a governare il paese, situazione probabilmente desiderata da molte diplomazie occidentali, una su tutte quella statunitense, che guarda con sfiducia entrambi i presidenti che si contendono adesso lo scranno esecutivo dell’Honduras. In mezzo, come spesso succede, la popolazione che in questi giorni ha perso alcuni dei diritti fondamentali di ogni persona: la libertà di manifestare, di pensiero, il diritto alla vita e all’integrità personale. Infatti da quando Zelaya è rientrato in Honduras le migliaia di persone che hanno manifestato in suo appoggio sono state disperse da gas lacrimogeni, spari e cariche di militari, con un uso eccessivo della forza. Il governo di fatto ha riproposto il coprifuoco notturno per evitare assembramenti e manifestazioni, anche di quelle, poche, a suo favore, mentre assedia l’ambasciata brasiliana, bloccando gli approvvigionamenti di acqua, cibo e medicine, per costringere Zelaya a uscire e a consegnarsi alle autorità. Domenica 27 settembre, inoltre, Micheletti ha dato un ulteriore "giro di vite" dichiarando la sospensione della costituzione e minacciando di negare l'immunità diplomatica all'ambasciata brasiliana.

UNO CONTRO L’ALTRO – Zelaya invece, dal balcone dell’ambasciata o dalle radio amiche, lancia inviti alla “mobilitazione finale”, “all’offensiva” per deporre il governo di fatto. Tuttavia, nonostante le parole forti e di militaresca memoria, le forze antigolpiste non hanno la capacità e i mezzi per lanciare un offensiva armata contro il governo di fatto, che controlla ed è appoggiato dai generali dell’esercito. Il movimento pro Zelaya è infatti formato da contadini, operai, studenti professori e sindacati che non hanno né l’organizzazione né le armi per poter lanciare per primi una guerra civile. È più probabile che le parole di Zelaya siano mirate a convocare imponenti manifestazioni, come quella che si è svolta ieri.Il governo di Micheletti invece utilizza tecnologie militari e terroristiche per tagliare le gambe agli oppositori. Oltre all’assedio all’ambasciata brasiliana, continuano infatti i tagli di corrente mirati alle catene radiotelevisive che contestano l’operato dei golpisti, mentre evitano l’entrata nel paese di qualunque diplomatico straniero. Proprio oggi sono stati trattenuti nell’aeroporto di Tegucigalpa 4 funzionari della OSA (Organizzazioni di Stati Americani), che dovevano preparare la missione dei ministri degli esteri della OSA i quali avrebbero dovuto cercare e trovare una soluzione diplomatica alla vicenda. L'OSA si è riunita ieri ma senza giungere ad un risultato concreto: la strategia del dialogo e della mediazione, finora, non ha dato i frutti sperati.

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NUOVA DIPLOMAZIA IN AMERICA LATINA? – Zelaya, dall’altra parte affila l’arma diplomatica, tessendo una rete in suo appoggio, che formalmente va dagli Stati Uniti alla Francia, mentre concretamente si sostiene soprattutto dei paesi latinoamericani, Brasile in testa, i quali vogliono risolvere pacificamente la contesa, senza cedere agli interessi americani e dimostrando di essere capaci di gestire da soli quel “giardino di casa” statunitense, che vorrebbero diventasse il loro privato giardino. Significativo è il ruolo del Messico, politicamente a destra e in aperto contrasto con le politiche chaviste, che ha appoggiato Zelaya fin dall’inizio e lo ha ricevuto con onori da capo di stato che neanche Obama aveva ricevuto, proprio per rafforzare l’idea latinoamericana di poter far a meno della diplomazia americana per risolvere conflitti interni alla regione, come era successo durante la crisi Ecuador – Colombia dell’anno scorso. Micheletti ostinatamente non pare voglia concedere nulla. È conscio che la OSA può solo cercare una soluzione pacifica: infatti non è prevista nella sua carta istitutiva l’opzione militare in caso di destituzione di un governo democraticamente eletto. Se gli Stati latinoamericani, di fronte al continuo rifiuto di Micheletti vorranno intervenire militarmente, dovranno creare una forza multinazionale che non avrebbe un supporto giuridico su cui fondarsi. È difficile infatti che le Nazioni Unite vogliano entrare nella questione con una missione dei caschi blu. La soluzione più probabile pare quindi aspettare le elezioni presidenziali in novembre che designeranno il successivo presidente. Tuttavia una domanda è d’obbligo: saranno libere elezioni con coprifuoco, un presidente destituito che lancia inviti alla violenza e un governo di fatto che blocca militarmente le radiocomunicazioni? Le Nazioni Unite e le ONG hanno già detto di no

Andrea Cerami 29 settembre 2009 [email protected]

Piccoli avvicinamenti

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Il presidente USA si deciderà a revocare l’embargo commerciale contro Cuba? I tempi non sembrano ancora maturi, ma vi sono alcuni segnali di disgelo, come la revoca di norme troppo rigide sulle comunicazioni e sui flussi di denaro inviati dagli esuli negli Stati Uniti

ANCORA EMBARGO – Qualche giorno fa il presidente Obama ha firmato la proroga per un anno della legge che impone l’embargo commerciale a Cuba, nonostante i numerosi moniti delle missioni diplomatiche, latinoamericane e non solo. Secondo molti osservatori internazionali, il non rinnovo delle sanzioni contro la repubblica caraibica era l’occasione giusta per scongelare i rapporti tra Washington e l’Avana e differenziarsi dalle inefficaci politiche del passato, segnalando indirettamente al Congresso la necessitá di porre fine all’embargo, che affligge la popolazione cubana da oltre 40 anni. La decisione di Obama é stata motivata più da ragioni di politica interna che dalla strategia delineata nei confronti dell’America Latina: infatti con le polemiche orchestrate dall’opposizione repubblicana e dalle lobby delle assicurazioni sulla riforma sanitaria, non era il caso di aprire un altro fronte polemico con il mancato rinnovo dell’embargo, decisione che poteva essere facilmente strumentalizzata come una apertura a un regime antidemocratico e comunista da parte di un presidente già accusato di essere musulmano, anarchico, di estrema sinistra. Inoltre, ai fini pratici, la firma della proroga del decreto presidenziale era totalmente formale: infatti  la legge Helms-Burton del 1996 avrebbe mantenuto le sanzioni commerciali anche in caso di una decisione differente da parte di Obama. Tuttavia si sperava che il presidente democratico potesse inviare un messaggio simbolico di disgelo, segnando la via che si sarebbe potuta percorrere.

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QUALCOSA SI MUOVE… – Invece pare che sulla questione Cuba, l’amministrazione statunitense abbia scelto un approccio più pragmatico, caratteristica che contraddistingue molte delle decisioni scomode della nuova amministrazione statunitense:  agli inizi di settembre il Dipartimento del Tesoro ha eliminato le limitazioni all’invio di denaro e ai viaggi a Cuba degli statunitensi e degli emigrati cubani, rendendo più flessibili le restrizioni esistenti e favorendo così indirettamente anche l’economia cubana. Nei mesi precedenti, Obama aveva invece eliminato le sanzioni per promuovere un maggior flusso di telecomunicazioni con l’isola e riavvicinarsi diplomaticamente a Cuba per riprendere le discussioni relative ai flussi migratori tra Cuba e gli Stati Uniti.  In effetti, due giorni dopo il rinnovo dell’embargo commerciale, una delegazione diplomatica statunitense é atterrata a Cuba per riprendere il dialogo con il governo dell’isola così da riattivare il servizio postale diretto tra i due paesi. Queste azioni sono piccoli passi diplomatici concreti, che non eliminano comunque le restrizioni commerciali che limitano lo sviluppo economico di Cuba; tuttavia é chiaro il cambio di tendenza rispetto ai precedenti governi statunitensi, sia repubblicani che democratici, i quali non avevano mai preso in considerazione la possibilità di rendere più flessibili i rapporti con Cuba.

OPINIONI REGIONALI – La politica e le scelte di Obama sono comunque state oggetto di numerose critiche da parte dei governi latinoamericani, da sempre schierati, con pochissime eccezioni, al fianco del regime cubano. La diplomazia brasiliana ha aspramente censurato il rinnovo dell’embargo, così come Chávez, davanti alle Nazioni Unite, ha chiesto chiarezza ad Obama sulla sua strategia su Cuba. Nonostante ciò, è probabile che i presidenti latinoamericani, in questi mesi, abbiano apprezzato il cambio di rotta di Obama e i loro biasimi siano diretti soprattutto a far mantenere l’attenzione americana sulla questione cubana, affinché si arrivi alla completa eliminazione delle sanzioni commerciali, come ripetutamente votato anche dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Andrea Cerami 1 ottobre 2009 [email protected]

Pallone e potere

Il calcio spesso non è solo sport, ma può anche essere uno strumento politico a disposizione delle autorità. La storia dell’Argentina è un esempio tangibile

SALVI IN EXTREMIS (?) – In molti avranno visto alla televisione le immagini di un Maradona esultante sotto la pioggia torrenziale di Buenos Aires: uno dei suoi giocatori, Martín Palermo, aveva appena segnato nei minuti di recupero il gol che regalava alla nazionale argentina la vittoria per 2-1 sul (temibilissimo) Perù. Una rete importantissima, che ha permesso alla nazionale albi-celeste di ottenere il quarto posto nel girone sudamericano di qualificazione ai Mondiali in programma in Sudafrica l’anno prossimo: l’ultima posizione a disposizione per accedere direttamente alla competizione calcistica più importante senza dover passare per il “limbo” dei playoff, che più che rappresentare un rischio costituirebbero un’onta infamante per l’Argentina. Ma c’è ancora un ultimo ostacolo da superare: Messi e soci devono almeno pareggiare con l’Uruguay domani sera (mercoledì 14 ottobre) a Montevideo per difendere il misero punto di vantaggio che è garanzia di qualificazione.

CALCIO E POLITICA – Perché tutti questi discorsi degni di un magazine sportivo? Perché probabilmente da nessuna parte come in Argentina, il calcio può avere una grande importanza politica. Esistono almeno tre episodi che possono spiegare come il rapporto tra pallone e potere sia molto stretto nella nazione sudamericana. Innanzitutto, occorre tornare indietro al 1978, quando l’Argentina ebbe l’onore di essere il Paese organizzatore dei mondiali, e di vincerli. La giunta militare del generale Videla era al potere da due anni e stava già seminando il terrore all’interno del Paese, oltre che trascinando al tracollo economico quella che era una nazione florida. Eppure, la conquista della Coppa del Mondo servì alla dittatura per cementare il consenso al proprio interno e per ottenere prestigio all’esterno: non è un caso se il 1978 rappresentò proprio l’apice del regime. I generali furono poi costretti ad abbandonare il potere nel 1983, in seguito alla sconfitta patita dall’esercito britannico durante la guerra per il controllo delle Isole Falkland (o Malvinas), situate nell’Atlantico al largo delle coste argentine. La guerra era stata l’estremo tentativo di salvare il regime, coagulando ancora una volta la popolazione attorno a sé: esattamente come il calcio, due strumenti al servizio del potere.Il secondo episodio risale al 1986: Messico, sempre Mondiali di calcio. Si gioca Argentina – Inghilterra, e i sudamericani vincono per 2-1 con le famose reti di Maradona: la prima messa a segno con la "mano de Diós", la seconda invece da manuale del calcio. Per la popolazione argentina è un tripudio: non importa in che modo si è vinto, l’importante era solo ottenere una rivincita contro gli “odiati” inglesi. Si trattò di molto più che una semplice partita, ma di un’occasione di riscatto per una nazione molto orgogliosa e patriottica che aveva subito una sconfitta militare considerata vergognosa. E che ancora oggi rappresenta una ferita aperta, dato che la presidentessa Cristina Kirchner ha recentemente rivendicato la sovranità dell’Argentina sulle Falkland/Malvinas

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RITORNO AL PRESENTE – Allo stesso modo, oggi per l’Argentina essere estromessa dalla partecipazione ai Mondiali rappresenterebbe un’onta incancellabile, dai molteplici risvolti politici: basti pensare alla competizione con il Brasile, sempre più in ascesa a livello internazionale a dispetto di un’Argentina che deve ormai cedere il passo al vicino. E, allo stesso modo, il calcio rappresenta ancor oggi (seppur con le dovute proporzioni, ora a Buenos Aires non governa un gruppo di militari spietati) un mezzo per ottenere consenso popolare. La Casa Rosada è intervenuta ad agosto per finanziare le società calcistiche in crisi e garantire la trasmissione in chiaro degli incontri del campionato nazionale, con una spesa molto alta di oltre 250 milioni di dollari. Una scelta quasi obbligata per i Kirchner, che devono affrontare una situazione interna molto problematica: dai contrasti con gli agricoltori ai dissidi interni nel Partido Justicialista, passando per l’opposizione dei grandi gruppi delle telecomunicazioni per la recente legge approvata dal Senato, per il Governo argentino si preannuncia dura la “partita” che si dovrà giocare nei prossimi mesi. 

Davide Tentori [email protected]

L’ascesa pacifica

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Il viaggio di Obama in Cina sarà ricordato dai media soprattutto per gli inviti del Presidente USA ad intraprendere la via della democrazia. In realtà il colosso asiatico è silenziosamente consapevole di essere sempre più forte

DUE SECOLI DOPO – Duecento anni di relazioni internazionali tra anglosfera ed estremo oriente racchiusi in un gesto piccolo e breve, un attimo di sottomissione che non dura neanche il tempo di dirlo, “kòutóu”, e si è già dignitari. Vassalli. Debitori. Obama è stato in Cina duecento anni dopo Lord George Macartney, il potente statista scozzese alla corte di re Giorgio III, già governatore di colonie inglesi nei Caraibi ed in India, che fu incaricato della prima missione diplomatica all’alba della nascita delle nazioni moderne.Il rifiuto di fare “kòutóu”, letteralmente chinare il capo, di fronte all’imperatore Qianlong, costò il successo della spedizione inglese.Lord Macartney venne congedato e sollecitato a rientrare in Inghilterra con due editti, da allora famosi. L'imperatore Qianlong fece scrivere:“Non dimentico la desolata lontananza della vostra isola, tagliata fuori dal mondo da distese di mare intermedie, né tengo in scarsa considerazione la vostra ignoranza delle usanze del nostro Celeste Impero”. Parole che hanno bruciato per decenni negli orgogliosi animi dei diplomatici inglesi.

IL CORAGGIO DI OBAMA – Oggi l’uomo più importante del mondo occidentale, forse del mondo intero, porta scritto nel proprio destino quello stesso rifiuto all’inchino che, seppur formalmente impossibile secondo i dettami dell’odierna etichetta diplomatica, tuttavia non appare meno potente se osservato dall’altro lato del Pacifico.Il discorso a favore della libertà di espressione sul web davanti a 300 giovani cinesi, l’affermazione dell’importanza transnazionale e transculturale del rispetto dei diritti umani in quanto valori universali, l’invito al dialogo con il Dalai Lama sembrano parole destinate a rimanere nella storia, cariche di un coraggio di cui molti altri leader politici non sembrano capaci.Un invito esplicito ad avvicinare lo yuan ai reali valori di mercato e la stretta sugli accordi di Copenhagen in ottica di una drastica riduzione delle emissioni sono cronaca di questi giorni, frasi sincere ma responsabili del fastidioso effetto di far spellare le mani solo a chi osserva i fatti del mondo da uno studio affacciato sulla Quinta strada o dalla redazione degli esteri di qualsiasi giornale ad ovest della Grande Muraglia. 

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LA FORZA DI PECHINO – La verità è che la Cina del presidente Obama non è più l’impero decadente dei Qing.  L’ultima dinastia cinese fu un impero immenso ed in fermento ma governato da una corte decadente ed incapace di contenere le tremende esplosioni sociali che da lì a poco l’avrebbero trascinata dal declino ad un’umiliante alienazione. Oggi il potere che permette alla corte dell’imperatore Hu Jintao di dimostrarsi impassibile alle parole del nuovo presidente americano se non addirittura di accoglierle in un condiviso intento collaborativo, sta chiuso nei forzieri dei principali gruppi bancari cinesi: sono i miliardi di dollari di debito statunitense strategicamente custoditi nei caveau del nuovo impero celeste.E’ una forza assoluta, una legge non scritta dell’equilibrio di potenza nel sistema internazionale. Al perdurare della crisi e all’allontanarsi della ripresa corrisponde un continuo deprezzamento del dollaro, una condizione che giorno per giorno trasforma in carta straccia le tonnellate di depositi e buoni del tesoro americani accumulati negli ultimi anni dal governo di Pechino.E’ proprio in questa chiave che va letto il paradosso dei tre giorni del presidente Obama in Cina. Mentre il mondo si accontenta delle belle parole e, senza dubbio, dei nobili intenti, la strada per un’inversione nei rapporti di potenza tra i due giganti del sistema sembra, oggi più che mai, definitivamente intrapresa.Se dopo l’epoca di Lord Macartney la Cina, uscita sconfitta dalle guerre dell’oppio, tentò vanamente di rispondere con le armi ai paesi occidentali che le imponevano l’apertura dei porti commerciali e la cessione di ampie zone di influenza all’interno del proprio territorio, oggi il Paese sembra aver imparato una lezione storica. L’atteggiamento per cui Hu Jintao e Wen Jiabao, insieme ad una nuova generazione di giovani tecnocrati in ascesa, decisa a sostituirsi completamente agli obsoleti ideologi del partito, hanno saggiamente optato è quello che i politologi di Pechino definiscono hépíng juēqi, la strategia della “ascesa pacifica”.Un atteggiamento con cui dovremo imparare tutti a fare i conti in un futuro sempre più imminente.

Francesco Boggio Ferraris

L’impero del biscione

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Che vi piaccia oppure no, poco importa: è un dato di fatto che l’Inter, nonostante sia tornata da Pechino con zero tituli, è di gran lunga la squadra più amata in Cina. Perché questo amore? La spiegazione è negli stessi ideogrammi cinesi…

UN NOME SPECIALE – Esiste un aggettivo, nella mappa genetica dei sentimenti più reconditi di ogni cinese, che trent’anni di maoismo e una decina trascorsa sotto la guida di Deng hanno contribuito a forgiare indelebile e, ai nostri occhi, spesso insondabile: internazionale. Anelito rivoluzionario e socialista prima, quando dalle mura che sovrastano piazza Tiananmen si inneggiava a caratteri giganteschi alla lunga vita dell’unità dei popoli di tutta la terra, stretti in un sogno comune tutto da realizzare; arrembante e spregiudicato poi, quando la politica kāimen, la “porta aperta”, illuminava i volti dei primi capitalisti comunisti della storia del mondo, inebriati dall’idea che “arricchirsi è glorioso”. Guójì. Letteralmente “ai confini delle nazioni”, ovvero, internazionale. Oggi, nella geopolitica della distribuzione delle potenze calcistiche nel sistema internazionale, l’aggettivo ha travalicato il suo valore semantico e si è trasfigurato nel nome stesso della più amata delle squadre in Cina, la Beneamata, per l’appunto.A partire dalla lacerante storia di una terra eternamente divisa e contesa tra popoli fratelli, fino alla inaudita brutalità di despoti onnipotenti, il destino dell’uomo cinese è quello della rassegnata sopportazione ad ogni forma di avversità. Con la sua composizione multi etnica, fatta di uomini che provengono da alcune delle zone più povere del pianeta e che con le loro forze hanno saputo chīkù, mangiare amaro e riscattare il proprio posto nel mondo, l’Inter del Presidente Massimo Moratti ne incarna perfettamente lo spirito di rivalsa.

SI SCRIVE COSI’ – Per avere un’idea di quanta potenza evocativa sia concentrata nella parola “internazionale” pronunciata da un abitante del Regno di Mezzo, è sufficiente notare che il primo dei due caratteri di cui si compone, (guó) è costituito dal radicale “re”, (wáng), rappresentato da tre tratti orizzontali a significare il cielo, il più in alto, la terra, in basso, e tutte le cose e gli uomini che si trovano nel mezzo. Al contempo, come si può osservare dalla grafia del carattere, un tratto verticale, simbolo del potere indissolubile del re, li attraversa con decisione a significare l’unità del controllo su tutto ciò che è umano e divino. Se poi si tiene conto del piccolo punto che si trova tra gli ultimi due tratti, in basso a destra, si ottiene il carattere di giada, yù, la pietra preziosa simbolo del potere nella Cina imperiale. Per completare l’etimologia del vocabolo bisogna considerare il quadrato in cui è inserito, ovvero i confini dell’impero.

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SUPERCOPPA & SPONSOR – In questo modo risulta più semplice capire come sia possibile che la curva nerazzurra del Nido d’uccello di Pechino, in occasione dello scontro con la Lazio per la Supercoppa Italiana dell’8 agosto 2009, non avesse nulla da invidiare per numeri e calore del tifo alla Nord di San Siro. A sublimare il concetto fino ad ergerlo al più alto livello di empatia antropologica e insieme calcistica, sta il fortunato caso della traslitterazione del nome Pirelli in caratteri cinesi sulle maglie da gioco sfoggiate in diverse circostanze negli ultimi campionati.Lo sponsor in cinese suona  bèinàilì ma si scrive 倍耐力, e forse non tutti sanno che significa “una forza che resiste il doppio”. Certo, un ottimo slogan per pubblicizzare pneumatici, ma è facile immaginare che nel cuore di un cinese questo evochi inconsciamente qualcosa di più, qualcosa di ancestrale, qualcosa che sappia di emigrazione, difficoltà, fatica.Se pare una follia disegnare una mappa della distribuzione sull’intero globo del tifo per Inter, Milan e Juve, e al contempo riconoscere il totale predominio della squadra nerazzurra nel cuore degli appassionati cinesi, il dubbio svanisce quando si considera che l’Inter Club di Shanghai oggi è il più grande del mondo, con i suoi 8 milioni di tesserati. E’ altrettanto illuminante notare che, nello stesso periodo in cui esso veniva inaugurato, la rivista Forza Milan in versione cinese terminò la sua breve vita dopo appena 4 numeri. Ma questa è un’altra storia…  

Ecco il G2

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Il forum Stati Uniti-Cina conferma la realizzazione di un nuovo assetto geopolitico: Pechino si appresta ad affiancare Washington come principale leader globale

IL FATTO – Nato per volere dell’ex Presidente Repubblicano George W. Bush, il forum di dialogo strategico ed economico tra Stati Uniti e Cina potrebbe aprire una nuova era di sostanziosa cooperazione nei rapporti tra i due paesi che plasmerà il XXI secolo. Le parole di Barack Obama, riprese nella sostanza anche dal Segretario di Stato Hillary Clinton, sembrano quindi introdurre nuove relazioni tra i due giganti dell’economia mondiale, che secondo molti saranno una sorta di G-2 capace di controllare i flussi economici globali. Nelle intenzioni la mossa statunitense sembra ricordare la diplomazia del ping-pong, non a caso Obama ha volutamente inserito nel suo discorso le parole di un campione sportivo cinese, messa a punto dall’ex Presidente Nixon. In realtà lo sviluppo del summit sembra essere indicatore di una volontà ben precisa: sostituire la Russia come primo interlocutore sul versante del Pacifico. Guardando all’Asia l’amministrazione statunitense ha quindi scelto di tentare un riavvicinamento alla Cina guidata da Hu Jintao sia rispetto ai temi caldi dell’ economia sia in ambiti più delicati. Politica e questioni di sicurezza nel quadrante asiatico, energia e clima sembrano poter essere gli ambiti in cui verrà messa in atto una stretta collaborazione tra i due paesi. Non a caso Obama ha parlato chiaramente di lotta comune al disarmo nucleare, citando espressamente le questioni Iran e Corea del Nord, e di sforzo condiviso per allontanare il problema di una recessione globale che, secondo le parole del Presidente Usa, farà sentire i suoi effetti da New York fino a Shangai. 

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GLI SCENARI – La volontà cinese di trattare con Washington  (il vicepremier Wang Qishang ha parlato di un importante punto di incontro per i due paesi) sembra confermare quanto fin qui sostenuto. Per l’area asiatica la Casa Bianca starebbe mettendo in atto una strategia volta al riavvicinamento con due potenze regionali di primo livello, India e Cina, così da poter giungere alla stabilizzazione di una regione scossa da guerre e attriti di carattere politico oltre che economico. Il riavvicinamento tra Washington e Pechino nasce quindi dal bisogno di affrontare insieme una crisi economica globale capace di far sentire i suoi effetti su entrambe le sponde del Pacifico, ma si svilupperà probabilmente sia in campo politico che strategico. L’influenza politica cinese nell’area potrebbe quindi trovare il supporto militare e strategico della Casa Bianca rispetto a quelle questioni, come il nucleare in Corea del Nord, che rischiano di trasformarsi in possibile fonte di instabilità regionale con ricadute su altri scenari. Non bisogna comunque dimenticare che Stati Uniti e Cina non sono al momento, e non saranno neanche nel prossimo futuro, sullo stesso livello. La Casa Bianca sa bene che solo Washington può coordinare e dirigere la politica internazionale, intervenendo globalmente sulle issues più importanti. Per questo il summit tra i due paesi sarà anche un momento di confronto e chiarimento tra le leadership. L’avvento di Barack Obama e la politica estera fondata sulla pragmaticità delle scelte non deve confondere: per ogni presidente l’interesse nazionale statunitense è la Stella Polare su cui impostare la rotta del proprio mandato. Il percorso e le modalità di approccio alle tempeste tracciati da Barack Obama differiranno certamente da quelli sperimentati negli ultimi anni da George W. Bush, ma la meta è fissa da sempre. Su questa premessa, e sulla percezione che gli statunitensi hanno del cambiamento in atto nel proprio paese, si giocherà forse il destino del primo presidente afroamericano della storia.

Simone Comi

Business time

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Tempo di affari per gli Stati Uniti nel quadrante asiatico: firmati gli accordi militari per la tecnologia nucleare americana in India.

IL FATTO – Stati Uniti ed India hanno firmato un accordo militare il cui obiettivo è dare impulso alla vendita di armamenti statunitensi promuovendo al contempo, con la firma di un secondo documento d’intesa, la realizzazione di due reattori nucleari con tecnologia “made in USA”. L’annuncio del raggiunto accordo tra i due paesi è stato dato al termine della visita del Segretario di Stato statunitense Hillary Clinton a New Delhi, primo incontro ufficiale di un alto rappresentante della nuova amministrazione Obama con la leadership indiana. Il primo documento sottoscritto prevede che Washington diventi uno dei fornitori di armi del paese asiatico, che dovrà dimostrare di non volerle rivendere a paesi terzi, permettendo così alle industrie statunitensi una maggiore penetrazione nel mercato indiano per le forniture militari, finora controllato dalle aziende russe.

La Casa Bianca ed il Dipartimento di Stato sperano inoltre che questo accordo sia un punto di partenza per poter esercitare forti pressioni sull’esecutivo di New Delhi affinché questo decida di acquistare dall’azienda statunitense Boeing i 129 aerei da caccia per i quali è stata bandita un’asta internazionale, a cui parteciperanno anche i russi con il Mig e gli europei del consorzio Eurofighter. L’intesa raggiunta per la costruzione di due centrali nucleari su territorio indiano, per cui sono già stati decisi i siti, giunge a completamento di trattative volute dall’ex presidente George W. Bush e dal leader indiano Manmohan Singh lo scorso anno.

Contemporaneamente, Hillary Clinton ha fatto sapere che il Pakistan continuerà a ricevere dagli Stati Uniti aiuti economici e il sostegno politico dalla Casa Bianca affinché si impegni sempre più concretamente nella lotta al terrorismo. Il Segretario di Stato ha sottolineato che l’India dovrà convivere con questa realtà e si è detta certa che il Governo di Islamabad muoverà i giusti passi per sconfiggere le cellule terroristiche che ancora rendono instabile la regione.

GLI SCENARI – Con questo accordo la Casa Bianca muove un passo fondamentale verso il riavvicinamento ad una potenza regionale, l’India, con cui probabilmente si troverà a dover collaborare in misura sempre maggiore per favorire la stabilità del quadrante asiatico. Questo tentativo, voluto già dall’amministrazione Repubblicana guidata da George W. Bush, mostra chiaramente la volontà statunitense di cercare nuove alleanze oltre a quella che lega Washington ad Islamabad. Sono molti infatti, sia al Pentagono che al Dipartimento di Stato, a considerare il Pakistan un alleato poco affidabile dal punto di vista politico oltre che militare. Non è un caso infatti che la questione Afghanistan sia stata recentemente rinominata AFPAK, Afghanistan e Pakistan: riprova del fatto che la credibilità del governo pakistano agli occhi degli Stati Uniti è andata sgretolandosi nel corso degli ultimi mesi. I nuovi accordi con il governo di New Delhi e la volontà di continuare a sostenere la leadership pakistana sembrano poter essere ulteriori indicatori della pragmaticità dell’attuale gruppo dirigente statunitense. Impegnati a mantenere aperto un canale di collaborazione con un alleato utile per combattere il terrorismo, la Casa Bianca ed il Dipartimento di Stato cercano al contempo di avvicinare una potenza regionale in grado di garantire anche nel prossimo futuro una stabilità economica, oltre che politica, ad un’area storicamente attraversata da profonde divisioni.

Simone Comi

Scopriamo le carte

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Il 5 aprile il primo missile. Il 25 maggio il test nucleare. Ora, la Corea del Nord ha lanciato altri due missili, e la tensione è alle stelle. C’è chi parla di guerra imminente e chi minimizza. Grande incubo o grande bluff?

NUOVA PROVOCAZIONE           La Corea del Nord avrebbe testato due nuovi missili, probabilmente a corto raggio, effettuando i lanci da un sito posto a poca distanza dal porto orientale di Wonsan. La notizia è stata diffusa da un portavoce del Ministero della Difesa sudcoreano e potrebbe portare ad un nuovo innalzamento della tensione nell’area. In molti pensavano a nuovi test durante il weekend del 4 luglio come provocazione rivolta agli Stati Uniti, la decisione del Governo di Pyongyang ha sorpreso quindi anche gli analisti più attenti oltre che i politici della regione. Takeo Kawamura, Segretario del Governo di Tokyo, ha apertamente ammesso in una dichiarazione pubblica che l’esecutivo giapponese non era a conoscenza di ulteriori informazioni sul lancio e non aveva previsto la possibilità che questo potesse avvenire in anticipo rispetto alle previsioni. 

GLI SCENARI         Le parole di Kawamura lasciano pensare a due scenari distinti, entrambi probabili ma dal valore diametralmente opposto. La prima possibilità riguarda l’impreparazione dei servizi di intelligence della regione, incapaci di avvertire con preavviso i vari esecutivi dei programmi missilistici di Pyongyang. La seconda potrebbe lasciar pensare che la credibilità della minaccia nordcoreana sia ormai ridotta ai minimi termini, di tale pochezza da non impensierire i Governi dei paesi interessati.Nel caso in cui fosse il primo scenario a rivelarsi verosimile, tutta la regione sarebbe potenzialmente esposta ad eventuali attacchi nordocoreani senza avere alcune possibilità di mettere in atto strategie difensive o un piano di difesa nazionale efficace. Possibilità che sembra essere poco probabile dato il grado di sviluppo delle tecnologie di intelligence giapponesi e sudcoreane, senza contare la presenza in zona di unità statunitensi in stato di allerta costante. Appare quindi essere la seconda ipotesi quella più plausibile, con la possibilità che le continue minacce nordcoreane stiano perdendo di credibilità data la scarsa dotazione missilistica e tecnologica delle Forze Armate di Pyongyang. Secondo molti analisti militari al momento i missili Taepodong non possono infatti montare le testate nucleari prodotte in Corea del Nord, situazione che azzererebbe in pratica la capacità di colpire con armi nucleari non solo i paesi circostanti ma ancor più quelli posti fuori dalla regione. I missili a corto raggio potrebbero rivelarsi incapaci di provocare danni ingenti e la loro intercettabilità dovrebbe essere garantita in primo luogo dalle unità navali statunitensi nell’area. 

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IL FUTURO        Al momento non sembrano esserci state dure reazioni all’iniziativa nordcoreana e anche gli Stati Uniti non hanno fatto che ribadire quanto già dichiarato in precedenza. Il lancio è avvenuto mentre era in corso a Pechino una riunione tra una delegazione della Casa Bianca e funzionari del governo cinese sulla risoluzione adottata dopo il test di Pyongyang del 25 maggio scorso. L’incontro potrebbe portare ad una maggiore pressione cinese sulla leadership nordcoreana e alla definitiva chiusura della questione nucleare. Difficilmente infatti Pechino ed in particolare Washington, alla luce della tensione figlia degli episodi precedentitollereranno ancora per molto le iniziative di una Corea del Nord pronta a portare scompiglio in una regione economicamente fondamentale come quella del Pacifico.

Simone Comi

Al riparo dalle tigri

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Si sono tenute nell’isola dell’Oceano Indiano le prime elezioni libere dallo spettro dei ribelli Tamil, dopo 25 anni di guerra civile. L’esito delle urne, tuttavia, non ha rivelato grosse sorprese

CEYLON AL VOTO – Le elezioni presidenziali del 26 gennaio in Sri Lanka si sono concluse con una vittoria netta di Mahinda Rajapaksa, già presidente dal 2005, che ha ottenuto il 57,9% dei voti contro il 40% del suo rivale, l’ex comandante dell’esercito in pensione Sarath Fonseka. Un risultato che non sorprende, nonostante l’inaspettato margine di vittoria.  Alla vigilia dell’appuntamento elettorale, il primo che si svolge senza lo sfondo della guerra civile tra l’esercito e i ribelli delle Tigri Tamil (LTTE), la vittoria sembrava dipendere proprio dal voto della minoranza tamil. L’elettorato singalese, infatti, appariva diviso tra i due candidati che, essendo stati entrambi protagonisti dell’offensiva finale del 2009 contro i ribelli, condividevano il merito di aver messo fino alla guerra civile che sconvolgeva il paese da più di trent’anni. Proprio tale successo aveva spinto il presidente ad anticipare le elezioni convinto di poter sfruttare la propria popolarità per governare altri sei anni. La stessa logica all’origine della candidatura del generale Fonseka. 

CHE HANNO FATTO I TAMIL? – L’elettorato Tamil, quindi, ha dovuto scegliere, paradossalmente, tra due candidati i cui nomi sono associati alle migliaia di vittime civili tamil delle ultime fasi della guerra. Il sostegno dimostrato a Fonseka da parte di Sampahthan, leader dell’Alleanza Nazionale Tamil (TNA), formazione considerata braccio politico degli indipendentisti del LTTE, sembrava spostare l’ago della bilancia verso il generale. Le promesse fatte da Fonseka per porre fine alla marginalizzazione della minoranza ha spinto la TNA a preferirlo all’ex-presidente. Oltre alla carta Tamil, a favore del generale sembrava giocare la volontà di cambiamento, tanto della minoranza, quanto di quella parte della maggioranza stanca delle posizioni ultranazionaliste di Rajapaksa. Le cose, però, sono andate diversamente e l’ex presidente ha vinto con un ampio margine sul generale Fonseka. Tale risultato si spiega in primo luogo con la decisione dei Tamil di disertare le urne; secondo alcuni sondaggi, infatti, avrebbe votato solo il 30% della minoranza. Le promesse di Fonseka non sono state sufficienti a convincere l’elettorato Tamil del suo reale impegno e della sua credibilità. A ciò si è aggiunta la confusione causata dalla campagna lanciata dalla TV di stato contro il generale lo stesso giorno delle elezioni. Secondo i media, la candidatura di Fonseka non era legittima perché era non era risultato iscritto alle liste elettorali, accuse poi smentite dalla Commissione Elettorale.

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I PROBLEMI RIMANGONO – Nonostante le denuncie di Fonseka di brogli e irregolarità del suo avversario durante la campagna elettorale, il successo di Rajapaksa appare legittimo. Secondo gli osservatori, fatta eccezione per alcuni incidenti nel nord del paese, le elezioni si sono svolte in modo regolare. La sua vittoria, però, non è stata ottenuta né grazie al voto Tamil, né grazie a quello musulmano. La società rimane profondamente divisa e il presidente non potrà evitare di portare avanti il processo di riconciliazione nazionale. Il ritorno alla stabilità politica e l’instaurarsi di una reale pace interna, infatti, sono i prerequisiti essenziali per la ripresa dello sviluppo economico del paese. Per raggiungere tale obiettivo tra gli impegni post-guerra più urgenti appaiono il ricollocamento dei Tamil, la ricostruzione del nord del paese e la questione degli abusi e delle violazioni dei diritti umani avvenuti durante gli scontri. Il coinvolgimento delle minoranze in tale processo potrebbe permettere al paese di avviarsi verso la ricostruzione. Le prospettive economiche e sociali dei prossimi mesi dipenderanno dall’impegno e dalle scelte del nuovo presidente, anche in vista delle elezioni parlamentari di aprile. 

Valentina Origoni