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I dolori di Hugo

Il Venezuela, al contrario degli altri Stati sudamericani, sta entrando in una seria crisi economica, mentre le libertà individuali si stanno assottigliando sempre più. Per Chávez si preannuncia un difficile 2010

IL POTERE LOGORA… – ma è meglio non perderlo, recita un detto. E il proverbio potrebbe descrivere la situazione in cui si sta trovando Hugo Chàvez, presidente del Venezuela: dopo un decennio alla guida dello Stato sudamericano (fu eletto per la prima volta nel 1999), si cominciano a intravvedere i primi segnali di difficoltà. Ma, proprio perché “l’appetito vien mangiando”, il leader di Caracas non sembra affatto disposto ad abbandonare il potere e i fatti accaduti negli ultimi mesi dimostrano come il suo governo si caratterizzi per tratti sempre più autoritari. 

CRISI ECONOMICA – Il Venezuela è una delle principali potenze petrolifere mondiali. Unico membro americano dell’OPEC, il cartello che riunisce alcuni tra i principali Stati produttori di idrocarburi al mondo, ha fatto dell’estrazione del greggio il principale sostentamento della propria economia. Hugo Chávez ha potuto beneficiare del periodo più florido per l’estrazione, ovvero questo primo decennio degli anni Duemila, durante il quale i prezzi delle materie prime sui mercati internazionali hanno raggiunto livelli altissimi. Anziché approfittare della “bonanza” derivante dalle esportazioni di petrolio per diversificare le attività produttive, però, Chávez ha trasformato il Venezuela in un Paese quasi interamente dipendente dall’ “oro nero”. Dopo anni caratterizzati da alti tassi di crescita economica, in seguito alla crisi economica il 2009 si chiuderà per la prima volta  dopo molto tempo con una recessione. Le ultime statistiche rese pubbliche dalla Banca Centrale venezuelana rivelano che nel terzo trimestre dell’anno il PIL ha subito una flessione del 4,5%; nel primo trimestre era salito dello 0,3% e nel secondo calato del 2,4%. Il motivo? Essenzialmente dovuto al brusco calo del prezzo del petrolio e alla minore produzione, una scelta concordata a livello OPEC per evitare abbassamenti del prezzo ancora maggiori attraverso una contrazione dell’offerta. Non va dimenticato, inoltre, che il petrolio venezuelano è “pesante”, ovvero ha una composizione chimica tale per cui la sua raffinazione è più complessa e costosa rispetto a petroli “leggeri” come, ad esempio, quello scoperto di recente al largo delle coste brasiliane. Un altro punto che rischia di mettere in ginocchio il sistema economico venezuelano è l’inflazione, tra le più alte al mondo: nel 2008 l’aumento dei prezzi è stato del 31,4%, con punte del 46,7% per i prodotti alimentari. E le prospettive per quest’anno sembrano ancora peggiori, dato che il blocco dei rapporti commerciali con la Colombia ha reso il Venezuela ancora più dipendente dalle importazioni di cibo e prodotti agricoli. Inoltre, il Governo è stato costretto ad operare in alcuni casi un razionamento della fornitura di acqua ed energia elettrica.

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TUTTO SOTTO CONTROLLO? – Nonostante questa situazione, Hugo Chávez ha negato di essere in difficoltà e anzi ha criticato la veridicità delle statistiche macroeconomiche pubblicate. Secondo il caudillo di Caracas, lo sviluppo di una nazione non può essere misurato solo in base a indicatori “tipicamente capitalisti” come il PIL. Vero, ma Chávez dovrebbe considerare che anche per quanto riguarda indicatori di stampo meno “freddamente” e più sociali il Venezuela non se la passa troppo bene. I tassi di criminalità sono tra i più alti al mondo e anche il livello di distribuzione del reddito tra la popolazione è particolarmente disomogeneo (il 10% della popolazione più ricca detiene il 32% del reddito nazionale, mentre il 10% più povero solo l’1%). Il benessere di una popolazione dovrebbe essere misurato anche in base al grado di libertà di cui essa gode: tuttavia, nei mesi scorsi il Governo ha varato una legge sulle comunicazioni che potrebbe far chiudere il 40% delle emittenti radiofoniche e ha minacciato di sospendere le trasmissioni di Globovisiòn, televisione che ha un orientamento di opposizione. La diminuzione della libertà di stampa non ha però impedito di portare alla luce i risultati di recenti sondaggi, che rivelano un calo sensibile del consenso dei cittadini attorno a Chàvez, sceso al di sotto del 40%. Un brutto segnale in vista delle elezioni legislative che si terranno l’anno prossimo e che potrebbero mettere il Presidente in minoranza per la prima volta. 

RAPPORTI TESI – Anche in campo internazionale il Venezuela sta attraversando un momento critico. Oltre ai forti contrasti con la Colombia (Cfr. “Giocare” alla guerra) la repubblica bolivariana è in attesa di essere ammessa nel Mercosur, l’area di libero scambio che comprende Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay. Il Senato brasiliano, a cui spetta l’ultima parola (o meglio la penultima, visto che anche il Paraguay deve ancora esprimersi) in merito all’ammissione, ha bloccato la procedura di voto per le perplessità legate al rispetto della democrazia in Venezuela. Caracas, nonostante sia già un grande importatore da Argentina e Uruguay di prodotti agricoli, avrebbe da guadagnare entrando nel Mercosur perché i prezzi delle merci si abbasserebbero e l’inflazione potrebbe tornare sotto controllo. Ma finchè Chávez continuerà a seminare zizzania in America Latina e a promuovere progetti di integrazione palesemente contrari al sistema internazionale, difficilmente otterrà una ripresa della propria economia. Mostrare i “muscoli” è servito fino a quando il petrolio ha garantito ricchezza e crescita, ma ora la potenza geopolitica di Caracas rischia di essere paragonabile ad una “tigre di carta”. 

Davide Tentori 19 novembre 2009 [email protected]

Il mio amico Mahmud

Il recente viaggio di Ahmadinejad in Sudamerica conferma le partnership con i “vecchi” amici Chávez e Morales e un po’a sorpresa rivela la nuova sintonia con il Brasile. A che gioco sta giocando Lula?

IL VIAGGIO – Tra Iran e America del Sud c’è una singolare sintonia da alcuni anni a questa parte, almeno da quando a Teheran governa Ahmadinejad e in Venezuela Hugo Chávez ha fondato il “socialismo del XXI secolo”. Una simile alleanza non avrebbe ragion d’essere al di fuori di pochi punti fondamentali: la comune avversione contro il “grande Satana” statunitense e interessi economici condivisi nel campo dell’energia, riguardanti il petrolio e il nucleare (il Venezuela ha l’uranio mentre l’Iran ne ha bisogno per portare avanti il proprio progetto). L’ultimo viaggio del presidente persiano Mahmud Ahmadinejad in terra latina dunque non dovrebbe destare uno scalpore particolare: il leader islamico si è recato dapprima in Brasile, poi in Bolivia da Evo Morales e infine a Caracas per incontrare l’amico Hugo. È stata la prima tappa del viaggio tuttavia a riservare alcune sorprese: quelle che sono emerse dall’incontro tra Ahmadinejad e Lula.

 APPOGGIO A TEHERAN – Se ci si attendeva una posizione conciliante ma ferma nei confronti dell’Iran è stato necessario ricredersi. Infatti, oltre alla firma di una serie di accordi bilaterali in campo energetico, scientifico, tecnologico e commerciale, il presidente brasiliano ha sostenuto le ragioni di Teheran nel proseguire sulla strada del progetto nucleare, nonostante l’Iran abbia dimostrato nelle ultime settimane di non avere una reale volontà collaborativa con l’AIEA e il gruppo dei “5+1”. Lula ha sottolineato il diritto di ogni nazione a sviluppare una propria energia nucleare per scopi civili e ha citato come esempio virtuoso proprio quello del Brasile, dove sono attive due centrali e dal 2007 sono ripresi i lavori per la conclusione della terza, denominata “Angra III”. Non sono mancate critiche da parte di manifestanti che hanno espresso il loro dissenso al di fuori del palazzo presidenziale a Brasilia e da parte del candidato dell’opposizione alle prossime elezioni, José Serra del Partito Socialdemocratico, il quale ha sottolineato l’inopportunità di stipulare accordi con l’esponente di un regime autoritario irrispettoso dei diritti umani.

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LE IMPLICAZIONI – L’orientamento di Lula nelle ultime settimane in tema di politica estera ha leggermente virato da quello mantenuto fino a qualche tempo fa, caratterizzato da una grande apertura verso gli Stati Uniti e le nazioni più ricche. Il presidente brasiliano ha espresso critiche nei confronti di Obama per non aver mantenuto – almeno fino a questo momento – la promessa di tornare ad interessarsi con forza delle questioni emisferiche e sta adottando un atteggiamento poco chiaro relativamente alla questione Battisti, molto importante per l’Italia (anche se non tanto da compromettere le solide e irrinunciabili relazioni economiche con il Brasile). Cosa c’è sotto a questo comportamento? Ambiguità? Ostilità nei confronti dell’Occidente? Molto probabilmente niente di tutto questo. In realtà, la politica estera brasiliana è attualmente improntata sul pragmatismo, al di là di qualsiasi connotazione ideologica. Il Brasile sa che, per ottenere realmente un peso fondamentale a livello globale, non può appiattirsi sulle posizioni di Washington o Bruxelles ma, in quanto protagonista all’interno del gruppo delle potenze emergenti, deve farsi portavoce di una via autonoma e alternativa, senza per questo dover seguire dinamiche antisistema come il Venezuela. In questo modo Brasilia può davvero aumentare il proprio potere contrattuale e diventare una potenza determinante, una sorta di trait d’union” tra le nazioni più sviluppate e quelle emergenti. Dietro agli abbracci e ai sorrisi riservati ad Ahmadinejad, dunque, si nascondono le ambizioni di una nazione di duecento milioni di abitanti che vuole contare non solo a livello economico, ma anche politico. 

Davide Tentori 27 novembre 2009 [email protected]

Davvero insieme?

La IV Conferenza Italia – America Latina, che si è appena svolta a Milano, ha tentato di rilanciare i rapporti internazionali. Ecco le ragioni per cui il nostro Paese dovrebbe interessarsi di più di quello che succede dall’altra parte del mondo

INSIEME VERSO IL FUTURO – Questo è lo slogan della IV Conferenza Italia – America Latina e Caraibi, evento che si è svolto a Milano mercoledì 2 e giovedì 3 dicembre con l’organizzazione della Ri-Al (Rete Italia – America Latina), della Camera di Commercio di Milano, della Regione Lombardia e del Ministero degli Esteri. Il vertice, che ha cadenza biennale (la prima edizione si svolse nel 2003), ha lo scopo di favorire e rafforzare i legami tra il nostro Paese e il subcontinente latinoamericano, non solo in prospettiva nazionale ma anche all’interno dei vari progetti di integrazione regionale esistenti. Ma è proprio vero che l’Italia cammina insieme all’America Latina? A giudicare il clima di forte cordialità e positività che si poteva respirare durante le sessioni di lavoro, la risposta dovrebbe essere affermativa. E si potrebbe rispondere “sì” anche considerando le dichiarazioni del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che nel suo breve intervento in apertura della conferenza ha promesso che nel 2010 effettuerà in viaggio in America Latina e ha rimarcato l’attenzione del Governo verso questa area. 

NON E’ TUTTO ORO QUEL CHE LUCCICA – Le affermazioni del premier dovrebbero in verità essere ridimensionate dai fatti. Il nostro Paese si è sostanzialmente disinteressato, da una ventina d’anni a questa parte, dei rapporti con la regione latinoamericana, impostando la propria politica estera secondo altre linee prioritarie (come, ad esempio, i rapporti con i Paesi del Mediterraneo, soprattutto per ragioni geografiche), a differenza di altri attori europei come la Spagna e persino la Francia, che grazie all’impulso statale è riuscita a promuovere gli investimenti delle proprie imprese nei settori delle infrastrutture e della difesa, specialmente in Brasile. Questo non significa che l’Italia non intrattenga relazioni intense con l’America Latina, perché in realtà sono molte le imprese che investono e vendono i loro prodotti in questi Paesi. I “campioni” nazionali come Fiat, Finmeccanica, Telecom e Pirelli sono leader nei loro rispettivi settori di business in Paesi come Brasile e Argentina; quello che manca, quindi, è l’impegno da parte della politica che sembra di essersi scordata di questa regione. Il pubblico, in questo caso, dovrebbe seguire il privato.

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I NODI DA SCIOGLIERE – Rafforzare in modo concreto la cooperazione bilaterale tra l’Italia e le nazioni di Centro e Sudamerica non può essere immediato. Se la “diplomazia personale” del premier Berlusconi sembra aver avviato una sorta di “special relationship” con il nuovo presidente di Panama, Ricardo Martinelli (tra l’altro, Impregilo parteciperà ai lavori di ampliamento del Canale), è altrettanto vero che una politica estera organica non può essere condotta solo attraverso i rapporti cordiali tra leader di turno, ma deve essere inserita all’interno di un indirizzo strutturato e consapevole dell’importanza di stabilire una partnership strategica con questa regione. È facile cadere nella tentazione di guardare all’America Latina con atteggiamento un po’paternalistico e un po’da sognatore dei paradisi tropicali, mentre bisognerebbe riuscire a cogliere le grandi opportunità di sviluppo di questo continente, che non ha mai conosciuto un periodo così prospero e solido di crescita economica e di sviluppo delle istituzioni democratiche (salvo eccezioni come Cuba, Venezuela, Nicaragua). L’America Latina può essere veramente il continente del futuro: Paesi come Brasile, Cile, Argentina sono attori dotati di enormi potenzialità, non solo a livello di risorse naturali ma anche umane e demografiche. Il Brasile, per citare l’esempio principale, è una nazione di centonovanta milioni di abitanti e lo sviluppo passa anche e soprattutto per la formazione del capitale umano: le opportunità di scambi scientifici e culturali sarebbero dunque potenzialmente infinite. Ovviamente anche le nazioni americane devono fare la loro parte, soprattutto per quanto riguarda il processo di integrazione regionale. Se le numerose organizzazioni regionali sorte negli ultimi anni riuscissero a divenire veramente efficaci, si riuscirebbe ad elaborare una politica di grande profondità con l’Unione Europea, con la quale si potrebbe concludere un accordo di associazione in occasione del prossimo vertice, in programma a Madrid a maggio 2010. L’entrata in vigore del trattato di Lisbona e l’istituzione di un ministro degli Esteri dell’Unione fornisce un’occasione importante e da cogliere, guardando proprio al futuro. 

Davide Tentori 4 dicembre 2009 [email protected]

Il cortile di casa?

Per quasi due secoli, gli Stati Uniti hanno considerato l’America Latina in questo modo. Il Presidente Obama ha promesso un cambiamento nelle relazioni: vediamo quali sono i risultati dopo un anno alla Casa Bianca

DA MONROE A BARACK – Era il 1823 quando l’allora Presidente degli Stati Uniti, James Monroe, formulò la “dottrina” che rimase poi famosa con il suo stesso cognome. “L’America agli Americani”, affermò il Presidente, avvertendo le potenze europee ad astenersi da qualsiasi ingerenza nelle questioni emisferiche. L’impianto della dottrina, che era sostanzialmente difensivo, mutò nel 1904 quando, con il cosiddetto “corollario Roosevelt” (dal nome del Presidente Theodore, che portò gli USA in guerra con la Spagna per il controllo di Cuba), Washington rivendicò una sorta di “diritto di intervento” nelle questioni interne dei Paesi latinoamericani. Da allora, in pratica, l’America Latina è diventata il “cortile di casa” degli Stati Uniti, che spesso – soprattutto durante la Guerra Fredda per scongiurare la diffusione di regimi filosovietici nel continente – è intervenuta attraverso la CIA per sostenere regimi “amici” ma in molti casi per nulla democratici. Per questo motivo, oggi nelle popolazioni latinoamericane sono diffusi il risentimento e l’antipatia per lo “zio Sam”, e alcuni Stati hanno adottato ormai da alcuni anni un orientamento decisamente antiamericano. L’esempio più eclatante, ovviamente, è il Venezuela di Chávez, che non perde occasione per insultare gli odiati “yanquis”; ma l’elenco potrebbe continuare con i regimi di sinistra che sono proliferati nell’ultimo decennio, dalla Bolivia all’Ecuador al Nicaragua. E Obama che fa? Le speranze riposte in lui erano molto forti. L’attuale Presidente – e premio Nobel per la Pace – aveva affermato in campagna elettorale di voler rilanciare i rapporti con l’America Latina sulla base di parità e collegialità. Lo stesso fu ripetuto in occasione del Vertice delle Americhe che ha avuto luogo a Trinidad e Tobago in primavera. Ora, ad un anno dall’assunzione dei poteri, quale può essere il bilancio della politica estera dell’amministrazione Obama nei confronti del continente americano? 

RIMANDATO – Se a giudicare fosse un collegio docenti, probabilmente questo sarebbe il giudizio che riceverebbe il leader Democratico. Nonostante le buone intenzioni e l’abbraccio “storico” con Chávez, in realtà l’attenzione dedicata da Obama all’America Latina è stata pressoché nulla. A parziale giustificazione del Presidente, è innegabile che Afghanistan e Iraq siano i “grattacapi” principali della Casa Bianca in questo momento, e continueranno ad esserlo ancora per diversi anni. Le forze diplomatiche, militari ed economiche destinate per il Medio Oriente mettono giocoforza in secondo piano le altre linee di politica estera. L’America Latina, dunque, non rientra attualmente tra le priorità di Washington. Obama si è esposto pochissime volte in prima persona e ha preferito delegare interamente al Segretario di Stato Hillary Clinton la “patata bollente” dell’Honduras. In questo caso, di dimensioni ridotte ma rilevante in quanto “spettro” dell’atteggiamento degli USA, l’amministrazione ha seguito dapprima la via della prudenza e del dialogo, quindi ha imposto un accordo che non è servito a garantire il ritorno pro tempore al potere del presidente deposto Zelaya, ma che ha contribuito solo ad aumentare la divisione nella regione e ha portato la maggioranza degli Stati latinoamericani a sconfessare l’esito delle elezioni che si sono tenute due settimane fa in Honduras. Non esattamente un successo diplomatico, quindi. Tanto più che Lula ha pubblicamente manifestato il proprio disappunto, facendo un passo indietro nelle amichevoli relazioni con il Brasile che si erano sviluppate negli ultimi anni soprattutto per quanto riguarda la cooperazione nel settore della Difesa. Sembra un paradosso, ma attualmente Washington e Brasilia sono più lontane rispetto all’era Bush.

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SPERANZA VALENZUELA? – Entra ora in gioco una nuova figura, quella di Arturo Valenzuela, nuovo Sottosegretario di Stato con delega alle relazioni con l’America Latina. Cileno di nascita, accademico al prestigioso Center for Latin American Studies dell’università di Georgetown, Valenzuela ha preso recentemente il posto di Thomas Shannon, nominato ambasciatore in Brasile. In una recente conferenza stampa, il nuovo delegato ha affrontato le principali questioni sul tappeto. Innanzitutto, la spinosa questione dei rapporti tesi tra Colombia e Venezuela: l’installazione delle sette basi militari statunitensi al fine di combattere il narcotraffico in terra colombiana non è andata giù a Chávez, che a ripetizione minaccia di dichiarare guerra a Bogotà (quando in realtà ha problemi ben più seri all’interno del Paese). Valenzuela ha promesso di ricercare il dialogo al fine di ammorbidire le relazioni con Caracas (anche se da settembre quest’ultima ha rotto i contatti diplomatici con Washington). Viene poi Cuba, nei confronti della quale il delegato ha affermato che si continuerà a cercare un avvicinamento “graduale”. Obama aveva fatto in primavera un piccolo passo avanti riducendo le restrizioni per l’invio di rimesse da parte degli emigranti, ma le parole di Valenzuela sembrano testimoniare l’assenza di volontà di prendere un impegno concreto per la soluzione di questa annosa questione. È stato confermato l’impegno di portare avanti con il Messico l’iniziativa “Mérida” contro il narcotraffico, mentre è stato rivolto un appello alla Spagna, ultimo presidente di turno dell’Unione Europea, affinchè si possano studiare strategie comuni per gestire i rapporti con la regione.Un po’poco? Forse. Il pericolo per gli Stati Uniti è che il cambio di rotta dalla “dottrina Monroe” al disinteresse per l’America Latina provochi un divario ancora maggiore di quello esistente, in particolar modo con i Paesi a sud del Canale di Panama, le cui economie sono meno integrate con quella statunitense. La cooperazione con attori sempre più importanti come il Brasile dovrebbe essere invece una priorità dell’amministrazione Obama, per creare spazi comuni di sviluppo e di sicurezza.  

Davide Tentori 12 dicembre 2009 [email protected]

Maratona elettorale

Si è conclusa in Sudamerica una fase densa di novità a livello politico. In Uruguay, Bolivia e Cile si sono svolte le elezioni presidenziali, che se in alcuni casi hanno offerto conferme, in altre hanno offerto cambiamenti interessanti

TUTTI ALLE URNE – Per una volta non parliamo di Honduras, ma concentriamoci sul Sudamerica. Non solo nella piccola repubblica centroamericana, infatti, nelle ultime settimane si sono svolte le elezioni presidenziali, bensì anche – in ordine cronologico – in Uruguay, Bolivia e Cile. Le prime tre “tappe” di una maratona elettorale che coinvolgerà anche altri Stati nel 2010 fino a culminare, ad ottobre prossimo, con le elezioni in Brasile verso le quali sono già puntati i riflettori. Tappe importanti, perché forniscono l’occasione per verificare qual è il grado di maturazione politica della democrazia nell’area latinoamericana, protagonista negli ultimi anni di una grande crescita economica che ha fatto il paio, salvo alcune eccezioni, con una generale diffusione e consolidamento delle istituzioni democratiche. 

I RISULTATI – Cominciamo dall’Uruguay, dove la coalizione di centrosinistra già al Governo con il presidente uscente Tabaré Vázquez ha vinto nuovamente, presentando come candidato l’ex guerrigliero dei Tupamaros José Mujica. Si tratta di un volto assolutamente conosciuto all’interno del Paese, ma anche nella confinante Argentina, dove si è recato in virtù dei buoni rapporti personali con i Kirchner per conquistare i voti degli uruguaiani emigrati al di là del Rio de la Plata. A Mujica, ultrasettantenne, è servito il ballottaggio per spuntarla su Luis Alberto Lacalle, del Partido Nacional orientato a centrodestra. Cosa propone “Pepe” Mujica? Nonostante il suo passato da estremista, è presumibile che il nuovo Presidente proseguirà nel solco tracciato da Vázquez, che ha raggiunto ottimi risultati soprattutto a livello sociale ed educativo, anche se a livello politico la sua figura comporta giocoforza uno spostamento a sinistra dell’ago della bilancia.La sinistra di Evo Morales è invece una realtà del tutto consolidata in Bolivia, dove il 6 dicembre il MAS (Movimiento Al Socialismo) dell’ex coltivatore di coca ha letteralmente trionfato alle elezioni presidenziali e legislative. Morales, il primo presidente di etnia india nella storia del Paese andino, è stato riconfermato con il 64% delle preferenze, mentre il rivale Manfred Reyes-Villa non è andato oltre un modesto 26,5%. In questo caso l’esito della consultazione assume contorni più preoccupanti: se da un lato la regolarità dello scrutinio (nonostante percentuali che alle nostre latitudini definiremmo “bulgare”) non appare in discussione, dall’altro la frattura sociale ed economica presente in Bolivia desta qualche campanello d’allarme. Morales, infatti, ha vinto in tutte le province più povere a maggioranza india, mentre ha perso in quelle di Santa Cruz, Beni e Pando, dove si concentrano le principali risorse naturali in mano all’élite di derivazione europea e che già nei mesi scorsi sono state teatro di scontri e proteste contro il Governo. I due terzi dei seggi ottenuti in Parlamento consentiranno al Presidente di agire senza tenere conto del dissenso, ma questo potrebbe essere controproducente per il tentativo di ricomporre la spaccatura all’interno del Paese.Infine, attraversando le Ande si arriva in Cile, dove al primo turno che si è tenuto domenica 13 dicembre ha ottenuto la maggioranza relativa il candidato del centrodestra, Sebastian Piñera. Tra gli uomini più ricchi di tutto il Sudamerica per le sue attività imprenditoriali, Piñera è l’esponente del Partido Renovación Nacional e ha ottenuto il 44% contro il rivale Eduardo Frei, candidato della Concertación di centrosinistra. Frei, già presidente dal 1994 al 2000, ha pagato lo scarso appeal di cui godeva presso la popolazione e i voti “sottratti” dall’outsider Marco Enríquez-Ominami, del Partido Socialista, che ha ottenuto il 20% delle preferenze confermandosi una novità politica interessante per il futuro cileno. Frei non ha quindi potuto sfruttare il forte clima di consenso intorno a Michelle Bachelet, la Presidente uscente che, secondo la costituzione, non si è potuta ripresentare per un secondo mandato consecutivo.

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PROSPETTIVE – A Montevideo e a Santiago l’esito del voto conferma una cosa: le istituzioni democratiche sono ormai stabili e l’alternanza al potere delle diverse forze politiche è un fattore che può essere considerato come normale. Non è ancora del tutto scontato il risultato del ballottaggio cileno, previsto per il 17 gennaio, ma la vittoria di Piñera non ha fatto risvegliare timori di un ritorno agli incubi del passato, legati all’era Pinochet, segno di una normalizzazione ormai acquisita dello schieramento politico.Più enigmatica la questione boliviana: se da un lato la maggioranza della popolazione appoggia effettivamente Morales, dall’altro l’eccessivo peso del MAS nelle istituzioni potrebbe rivelarsi pericoloso per il pluralismo. Inoltre, le politiche di Morales non hanno garantito alla Bolivia gli stessi tassi di crescita economica che si sono verificati in altri Stati, più aperti alle transazioni internazionali. Le nazionalizzazioni delle risorse naturali, infatti, se da una parte sono contribuite a restituire sovranità alla popolazione indigena privata per secoli dei propri diritti, dall’altra non hanno di certo favorito l’afflusso di capitali esteri diretti per investimenti. Il futuro politico ed economico lassù a La Paz, dunque, è ancora tutto da definire. 

Davide Tentori 17 dicembre 2009 [email protected]

Piena luce

Il presidente brasiliano Lula annuncia l’istituzione di una Commissione della Verità per indagare sui crimini commessi durante la dittatura. Un ulteriore passo per la democrazia in America del Sud

TRASFORMARE I MORTI IN EROI” – Con queste parole Luíz Inácio “Lula” da Silva, presidente brasiliano, ha cercato di spiegare lunedì 21 dicembre il senso della sua proposta: la costituzione di una Commissione della Verità per fare piena chiarezza sulle violazioni dei diritti umani avvenute in Brasile durante gli anni della dittatura militare, dal 1964 al 1985. Secondo il leader della potenza sudamericana è necessario chiarire gli episodi di violenza che si verificarono in quegli anni per dare una risposta ai familiari delle persone uccise, e mai più ritrovate, in base a una prassi purtroppo diffusa durante quel periodo in Sudamerica. Diverse organizzazioni non governative che si occupano della tutela dei diritti umani avevano fatto pressioni in questo senso e la risposta di Lula dovrebbe portare all’istituzione di una commissione in seno al Congresso, la quale deciderà poi modalità e vincoli entro cui agire. In ogni caso, ha precisato il presidente, l’intenzione di questo progetto non nasce da una volontà vendicativa, bensì dalla necessità di fare chiarezza e ridare dignità e giustizia ai brasiliani uccisi. 

LA STORIA – Al pari di molti altri Paesi dell’America Latina, il Brasile fu governato da una dittatura militare per un ventennio, dal 1964 al 1985. Non fu un regime brutale e sanguinoso al pari di quelli argentino e cileno, ma si stima che ci furono comunque circa duecento “desaparecidos”, ovvero dissidenti politici che vennero arrestati e uccisi per poi essere fatti sparire senza lasciare alcuna traccia. La dittatura fu “inaugurata” dal maresciallo Castelo Branco in seguito ad un colpo di Stato che depose il presidente legittimo, il socialdemocratico João Goulart. Si succedettero da allora al potere diversi esponenti delle Forze Armate, che instaurarono un regime poliziesco tuttavia senza modificare, almeno formalmente, la pratica democratica delle elezioni (che si svolgevano però in forma indiretta e a suffragio ridotto). I militari cercarono di portare il Brasile sulla strada dello sviluppo economico attraverso un massiccio programma di industrializzazione forzata e di costruzione di infrastrutture (è in questo periodo che si comincia a sfruttare intensivamente l’enorme potenziale idroelettrico del Paese), che però non fu sostenibile per l’inflazione endemica e l’indebitamento crescente con l’estero. I militari seppero comunque preparare una conclusione “soft” al loro regime, cominciando a varare nel 1979 un decreto di amnistia a favore di quanti erano stati condannati per essersi opporti alla dittatura, e facendosi da parte spontaneamente nel 1985. Il generale João Baptista de Oliveira Figueredo, conscio della pessima situazione economica e memore di quanto era accaduto in Argentina, lasciò il potere a Tancredo de Almeida Neves, primo civile a riprendere le redini del Governo dopo vent’anni.

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I RISVOLTI – Il Brasile arriva in ritardo rispetto ai Paesi sudamericani che hanno vissuto pagine altrettanto (o ancora di più) buie, come Cile e Argentina. In quest’ultima, i militari furono costretti a dimettersi dopo la disastrosa spedizione alle Falkland/Malvinas e il governo di Raúl Alfonsín ebbe il merito di mettere sotto processo i principali responsabili dei massacri contro i dissidenti e di avviare un processo che fu in grado di dare giustizia ai morti e a porre le basi per una società democratica che oggi appare stabile, anche se ancora imperfetta. In Cile, invece, Augusto Pinochet si fece spontaneamente da parte nel 1989 ma rimase capo delle Forze Armate fino al 1998. Nonostante questa situazione all’apparenza paradossale, il popolo e i governanti cileni furono in grado di dare vita ad una delle società più avanzate di tutto il continente sudamericano.Il Brasile, infine, non aveva ancora fatto i conti con questa pagina oscura del proprio recente passato. Il gesto di Lula va nella direzione di fare giustizia e di rafforzare ulteriormente il livello della democrazia all’interno del Paese. Il Brasile non potrà essere un vero protagonista sulla scena globale se non avrà una società forte quanto la sua economia. È un dato di fatto la correlazione tra lo sviluppo eccezionale che si è verificato negli ultimi anni in America Latina e la diffusione e il consolidamento delle istituzioni democratiche, sia in termini di inclusione sociale nel processo politico che di lotta alla povertà. La possibilità per una crescita duratura e strutturale passa dunque proprio attraverso questo legame indissolubile. 

Davide Tentori 23 dicembre 2009 [email protected]

Quale rivoluzione?

Dopo le elezioni che hanno riconfermato al potere il leader conservatore Ahmadi-Nejad, il Paese è in balia del caos; le proteste popolari sono al di là di quanto si potesse immaginare. Quali sono le prospettive per l'immediato futuro della repubblica islamica mediorientale?

Che direzione sta prendendo l’Iran? – Per il momento è ancora presto per determinarlo, come sicuramente è difficile capire che ne sarà dell’onda verde che sta invadendo le strade di Teheran da quasi una settimana, come protesta per i presunti brogli elettorali del vincitore Mahmoud Ahmadi-Nejad. A dire il vero l’esito del voto, su cui ancora gravano molti dubbi, poteva essere prevedibile nell’individuazione del vincitore, ma sicuramente non nelle cifre ufficiali, né tantomeno nelle conseguenze che avrebbe avuto. Ahmadi-Nejad ha incassatto, secondo i dati forniti dal Ministero degli Interni, circa il doppio dei voti del rivale: circa il 66% contro il 33% di Mousavi, vale a dire più o meno 24 milioni di voti contro poco più di 13 milioni. Il risultato suona “strano” se si considera l’altissima affluenza alle urne, circa l’85%, e il fatto che pareva quasi sicuro che nei maggiori centri urbani, così come negli ambienti intellettuali e della media-borghesia, Mousavi fosse in netto vantaggio sull’attuale Presidente, mentre le cifre ufficiali parlano di una forbice per Ahmadi-Nejad tra il 60% ed il 69% in tutte le province, perfino in quella di Tabriz, a maggioranza azera, come di etnia azera è Mousavi.  

Se effettivamente Ahmadi-Nejad abbia ricorso a degli espedienti per manipolare il risultato delle urne, per il momento non è dato saperlo. Probabilmente, molti analisti concordano, il Presidente avrebbe vinto le elezioni senza la necessità di ricorrere a brogli elettorali, ma con un margine molto inferiore di distacco rispetto a Mousavi e, forse, in un secondo turno di ballottaggio. Che Ahmadi-Nejad sia ancora popolare al livello da essere rieletto dalla maggioranza degli iraniani non appare inverosimile, quanto invece, agli occhi degli Iraniani, è apparso inverosimile che si sia trattato di un semi-plebiscito. Ciò detto, nessuno, neanche il regime, probabilmente si sarebbe aspettato una reazione da parte dell’elettorato di Mousavi così decisa e plateale. Nessuno si aspettava di vedere cortei di centinaia di migliaia di persone riversarsi nelle strade di Teheran e nessuno si aspettava di trovarsi di fronte ad una repressione così dura, stile Tienanmen.

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Siamo dunque vicini ad una nuova rivoluzione, dopo quella del 1979? – Dipende da cosa di intende. In effetti, una sorta di rivoluzione sistemica potrebbe essere alle porte, ma non ha niente a che vedere con le “rivoluzioni colorate” che hanno investito negli anni scorsi alcuni Paesi come l’Ucraina e la Georgia (e che comunque, a distanza di anni, hanno dimostrato di non aver provocato un grande cambiamento decisivo in senso democratico…). Piuttosto potrebbe essere in atto una rivoluzione del sistema iraniano e del rapporto di potere all’interno dell’elite attualmente ai vertici dello Stato. E’ questa la posta in gioco in Iran: il sistema messo in piedi all’indomani della Rivoluzione e il concetto di teocrazia e legittimità religiosa del potere, rispetto a quella politica. In effetti già l’Ayatollah Khomeini aveva definitivamente stabilito il sopravvento dell’elemento politico su quello religioso, decretando che non sarebbe servito il titolo religioso di Ayatollah per assurgere al ruolo di Guida Suprema.

Oggi, alla luce dei fatti che stanno accadendo in Iran, il clero sciita e la Guida Suprema attuale potrebbero essere messi in secondo piano da un regime di stampo militare e praticamente laico (Ahmadi-Nejad), molto più nazionalista e militarista, che religioso. Altrimenti l’Iran, con i riformisti e i pragmatici di Rafsanjani che hanno l’intento di spartirsi il potere, potrebbe divenire una Repubblica sempre meno religiosa e sempre più politica, riducendo l’elemento religioso, attualmente fondante della Repubblica stessa, a mera caratteristica sociale e popolare, piuttosto che statale.

Corsa all’oro (nero)

Il giorno dopo il ritiro americano dai centri urbani, l’Iraq ha aperto l’asta per lo sfruttamento delle risorse petrolifere, fondamentale per ricostruire il Paese. È accaduto di tutto, anche due attentati, legati a doppio filo con l’affare petrolio

APERTE LE DANZE – Dopo il ritiro delle Forze statunitensi da tutti i centri urbani, come previsto dagli accordi del SOFA (che peraltro dovranno essere confermati tramite referendum popolare ad inizio 2010), l’Iraq ha oggi ufficialmente aperto l’asta per lo sfruttamento e l’implementazione delle immense risorse petrolifere presenti nel Paese. Ad accaparrarsi i primi contratti in assoluto, riguardanti il giacimento di Rumaila (circa 18 miliardi di barili di petrolio di riserve) sono state la britannica British Petroleum (BP) e la cinese CNPC International Ltd che hanno raggiunto l’accordo per un contratto ventennale secondo il quale dovranno arrivare a produrre fino a 2,8 milioni di barili di petrolio giornalieri e, secondo quanto dichiarato dal Ministro per il Petrolio iracheno al-Shahristani, riceveranno dallo Stato un prezzo di 2 dollari per ogni barile prodotto.

TRATTATIVEPer il momento, dei 6 giacimenti (di cui due gasiferi) per cui l’Iraq ha disposto l’asta internazionale, solo quello di Rumaila è stato assegnato. Non sono mancate, infatti, le controversie circa i prezzi per ogni barile prodotto con altre compagnie per altri giacimenti petroliferi. Le cinesi Sinopec e CNOOC hanno rifiutato la concessione del giacimento di Maysan, dal momento che, a fronte di una richiesta di 25,4 dollari al barile, hanno ricevuto da Baghdad l’offerta di 2 dollari. Allo stesso modo la statunitense ConocoPhilips ha rifiutato l’offerta del governo iracheno di 4 dollari per ogni barile prodotto dai giacimenti di Bai Hassan, avendo fatto richiesta di 26,7 dollari al barile.

TESORETTOIn ogni caso, gli introiti derivanti dalle immense risorse di idrocarburi irachene (stimate in circa 45 miliardi di barili di petrolio), saranno ingenti e saranno l’imprescindibile base per la ricostruzione del Paese, martoriato da 6 lunghi anni di guerra, oltre che dal retaggio dei trent’anni di regime di Saddam Hussein. Shahristani ha dichiarato che l’obiettivo principale è quello di raggiungere, entro il 2014, una produzione di almeno 4 milioni di barili di petrolio al giorno. Secondo i calcoli del governo iracheno, in questo modo nelle casse dello Stato entreranno circa 1,7 milioni di miliardi di dollari nei prossimi 20 anni di cui, secondo quanto detto dal Primo Ministro al-Maliki, solo 30 miliardi finiranno nelle casse delle compagnie straniere.

KIRKUK ESPLODE – Resta da risolvere il nodo della questione delle risorse di petrolio e gas presenti nel sottosuolo del Nord e dell’Est governato dai Curdi. Nei mesi passati, infatti, il Governo Regionale Curdo (KRG) ha concluso dei contratti con molte compagnie straniere per lo sfruttamento delle risorse di gas e petrolio. Tra tali accordi, vi è quello del mese scorso con compagnie di Austria e Ungheria in chiave Nabucco, per l’esportazione del gas naturale. Il governo centrale di Baghdad non ha riconosciuto la legittimità di tali stipule, giudicandole senza valore legale. Non è una caso che, proprio nei giorno delle aperture da parte di Baghdad delle concessioni dei diritti sui giacimenti petroliferi e gasiferi del Paese, Kirkuk, città simbolo della controversia tra i Curdi e le altre comunità irachene, sia stata oggetto di ben due gravi attentati che hanno portato alla morte di almeno 50 persone.

Tutto a posto. Come no

Hezbollah non ha vinto le elezioni, e dunque nessuno si fila più il Libano. Ma la situazione è tutt'altro che tranquilla, e non si può trascurare. Intanto, è già tornato il sangue per le strade

Un resoconto – Se fino ad un mese fa il Libano sembrava essere al centro assoluto della scena internazionale, il Paese da cui sarebbero dipesi i futuri equilibri della regione mediorientale e, per estensione, delle maggiori superpotenze interessate, dopo la tornata elettorale del 7 giugno nessuno ne ha più parlato. Certo, le elezioni in Iran e il caos che ne è seguito (e che ancora oggi perdura, con lo sciopero generale proclamato dai sostenitori i Mousavi per il 6, 7 e 8 luglio) hanno portato l’attenzione a spostarsi verso oriente, tralasciando momentaneamente tutti gli altri teatri mediorientali. E’ così che la questione israelo-palestinese, il ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq e la destabilizzazione nel Nord del Paese che ne sta seguendo, il riavvicinamento tra Siria e Stati Uniti, sembrano passare in secondo piano. In questa cornice, il Libano e la sua situazione politico-istituzionale interna sembra addirittura non costituire più un problema per la stabilità del Medio Oriente, quasi come se, ad elezioni svolte, tutta la bufera si passata

Buoni e cattivi?Questo, in parte, è sicuramente dovuto, oltre che all’emergenza iraniana, al fatto che in Libano le elezioni siano state vinte dal fronte del “14 marzo”, alleanza tra Sunniti ed una parte di Cristiani, filo-occidentale e filo-saudita, guidata da Saad Hariri, figlio dell’ex Premier assassinato a Beirut nel febbraio del 2005, Rafiq Hariri. In questo modo si è scongiurata la tanto paventata ipotesi che ad ottenere la maggioranza fosse l’altra coalizione, quella denominata “8 marzo”, composta per lo più dalle forze sciite (insieme ad un’altra parte consistente della comunità cristiana) e guidata da Hezbollah, da molti definito (con molta superficialità a dire il vero) più un movimento dedito al terrorismo che un vero e proprio partito politico. Alla fine, la comunità internazionale sembra aver fatto questo ragionamento: “Hezbollah ha perso, hanno vinto i buoni e il Libano è salvo, quindi per il momento non serve occuparsene”.

I malintesi internazionali – Il fatto è che, nel ragionamento appena descritto, si danno per scontate troppe cose che, a ben vedere, non stanno proprio così. Prima di tutto Hezbollah non ha perso, ovvero non ha raggiunto la maggioranza a livello nazionale, ma resta comunque ben radicato nelle sue roccaforti nel Sud del Paese (tra l’altro la parte confinante con Israele) e, soprattutto, non ha nessuna intenzione di smantellare il proprio arsenale, come molti suoi oppositori speravano. In secondo luogo, non è detto che la vittoria del fronte filo-occidentale sunnita costituisca per forza una base da cui poter governare con stabilità ed incisività il Paese, dal momento che la coalizione di maggioranza non è più coesa come lo era prima e che, probabilmente, il nuovo governo dovrà essere formato seguendo il principio dell’unità nazionale. Ciò vorrà dire portare alcuni membri sciiti all’interno dell’Esecutivo e avere una sorta di opposizione all’interno dello stesso governo. Infine, non è detto che i Sunniti siano i “buoni”: due estati fa l’Esercito libanese dovette ingaggiare una dura battaglia (che portò a più di 150 morti, andando a costituire gli scontri più gravi dalla fine della guerra civile nel 1990) con i fondamentalisti sunniti di Fatah al-Islam, asserragliati nel campo palestinese i Nahr el-Bared ed armati proprio da coloro che oggi sostengono il movimento di Hariri. 

Ma è davvero finita? – A riprova del fatto che la situazione in Libano è tutt’altro che pacificata, a inizio settimana a Beirut è tornata la violenza per strada: nella parte occidentale della capitale si sono registrati scontri a fuoco tra sostenitori sunniti di Hariri e gli sciiti di Amal, il partito alleato di Hezbollah e di cui fa parte il neo-eletto Presidente del Parlamento (per la quinta volta consecutiva, a riprova dell’influenza che il movimento sciita continua ad avere) Nabih Berri. Negli scontri una donna è rimasta uccisa e le fonti parlano di un bilancio che sarebbe potuto essere molto peggiore. Il Libano virtualmente è ancora in fermento e la comunità internazionale dovrà prenderne atto e non lasciarsi andare a giudizi frettolosi (sia in senso pessimistico, che ottimistico) circa il suo destino. L’importante è seguire ciò che accade, per evitare di cadere dalle nuvole qualora dovessero esservi altri cambiamenti.

L’ora della vendetta

In Iran continuano manifestazioni di piazza, repressioni, torture nei confronti dei detenuti. Il regime sta decidendo di spegnere sul nascere ogni altra forma di ribellione, alla stregua di una guerra interna preventiva. Per adesso tocca ai Baluchi

LE IMPICCAGIONI – Il governo di Teheran ha disposto e attuato la condanna a morte tramite impiccagione di 13 uomini nel Sud-Est dell’Iran, la regione del Sistan-Baluchistan. Secondo l’agenzia governativa nazionale IRNA (Iranian Republic News Agency), i 13 condannati a morte avrebbero fatto parte di un gruppo armato ribelle di matrice sunnita, il Jundullah (Esercito di Dio). Il gruppo fondamentalista sunnita è da anni impegnato in una lotta contro lo Stato iraniano ed è stato, probabilmente, il responsabile dell’attentato che alla vigilia delle elezioni del 12 giugno (il 28 maggio) aveva colpito una delle due moschee sciite di Zahedan, capitale della regione del Sistan-Baluchistan, provocando la morte di almeno 30 persone. Tra gli impiccati, secondo la stessa fonte, vi sarebbe Abdulhamid Rigi, fratello del capo dell’organizzazione Abdulmalik Rigi.

 

CONTINUANO I DISORDINI – L’esecuzione sarebbe avvenuta in pubblico e nella stessa città di Zahedan, elemento che potrebbe far pensare ad un monito del Presidente Ahmadi-Nejad e del suo entourage nei confronti delle forze che in questo momento abbiano intenzione di metterne in discussione l’autorità e la legittimità al potere. Mentre infatti nelle principali città iraniane, soprattutto a Teheran, continuano le proteste e le repressioni governative (alcuni manifestanti e membri delle opposizioni riferiscono di “centinaia di cadaveri” negli obitori della capitale), il timore del regime è quello che tale azione di protesta possa sfociare in un movimento ancora più ampio e coinvolgere tutti i potenziali oppositori del governo, tra cui appunto i movimenti sunniti e baluchi che si trovano nel Sud-Est del Paese. 

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GUAI A CHI SI OPPONE – Nei giorni precedenti le elezioni lo stesso Ayatollah Ali Khamenei, Guida Suprema dell’Iran, aveva stigmatizzato le azioni di guerriglia e ribellione della minoranza baluchi, attribuendole soprattutto all’ingerenza occidentale. Allo stesso modo il regime ha sempre accusato Washington e Londra in primo luogo di fomentare la guerriglia di matrice curda del PJAK, movimento affiliato al PKK turco che agisce nel Nord-Ovest dell’Iran, costituendo un altro fronte dell’opposizione armata contro lo Stato sciita iraniano. A fronte di tali premesse, e considerata la delicata situazione interna dell’Iran, dunque, l’impiccagione pubblica dei 13 appartenenti al Jundullah suona a tutti gli effetti come una vendetta da un lato ed un avvertimento dall’altro: nessun oppositore potrà illudersi di rimanere in vita a lungo. Pechino docet e, da questo punto di vista, la Comunità Internazionale (privata dell’appoggio di un attore preponderante come la Cina) non riesce a far altro che guardare.  

Curdi o Iracheni?

I Curdi dominano il processo politico in Iraq. Unico gruppo ad essersi ricostuito dopo la guerra attorno ad un proprio governo autonomo e pacifico, ora deve fare i conti con le sfide sino ad ora sempre rimandate

 

 

IL KRG – Nella giornata di domenica si sono tenute le libere elezioni per il rinnovo della Camera rappresentativa del cosiddetto Governo Regionale Curdo (Kurdish Regional Government, KRG) nel Nord dell’Iraq, inaugurato nel 1992 a seguito della Guerra del Golfo. Attualmente la regione settentrionale dell’Iraq, quella a maggioranza curda, appunto, risulta essere la più tranquilla dal punto di vista della sicurezza e quella che ha potuto riavviare una sorta di sistema economico e di sviluppo, anche grazie all’arrivo di molti capitali stranieri. Allo stesso tempo, però, è anche il fulcro intorno al quale si concentrano la maggior parte del problemi irrisolti della nuova Repubblica d’Iraq (soprattutto adesso, dopo il ritiro dalle città delle truppe statunitensi), come quello del futuro assetto statale-istituzionale e dell’effettiva forza e autorità delle nuove istituzioni del Paese. 

 

ELEZIONI LIBERE MA SCONTATE – Se, dunque, il risultato delle elezioni appare alquanto scontato -non tanto per mancanza di trasparenza, ma piuttosto per mancanza di avversari rispetto alla attuale coalizione di governo tra i due storici partiti curdi iracheni, l’Unione Patriottica del Kurdistan (Patriotic Union of Kurdistan, PUK) capeggiata dall’attuale Presidente iracheno Jalal Talabani e il Partito Democratico del Kurdistan (Kurdistan Democratic Party, KDP), guidato dal Presidente del KRG Massoud Barzani– non è scontato il modo in cui tali forze politiche riusciranno a dare delle risposte alle questioni ancora sul tavolo e che riguardano non solo il futuro dei Curdi, ma dell’Iraq e di tutta la regione mediorientale.

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COSA BOLLE IN PENTOLA: IL PESO CURDO – Prima su tutte è la questione della forma istituzionale che si dovrà dare all’Iraq del futuro. I Curdi attualmente gestiscono in maniera autonoma la regione settentrionale del Paese, ma dipendono dal governo centrale di Baghdad. Questo è stato, fin dai primi anni ’90, un escamotage grazie al quale si è evitata la completa indipendenza del Kurdistan (che avrebbe avuto ripercussioni serie anche su almeno altri due Stati che ospitano significative minoranze curde: la Turchia e l’Iran). Il problema che ora si pone è quello di scegliere tra un Iraq federale e, quindi, diviso su basi etnico-religiose (Curdi al Nord; Arabi sunniti al Centro; Arabi sciiti al Sud), oppure uno Stato centralizzato che abbia in Baghdad il punto decisionale unico. Ciò detto, soprattutto se si dovesse andar everso lo stato federale, vi sarà da risolvere la spinosissima questione della città di Kirkuk: seduta su un mare di petrolio e, dunque, fonte di immense rendite per il futuro, e rivendicata dai Curdi. Si può scommettere che la parte restante del Paese è pronta a tutto purchè questo scenario non si delinei e i Curdi non diventino i veri padroni dell’Iraq. A proposito di idrocarburi, vi è comunque ancora da risolvere la controversia, sempre legata al Kurdistan iracheno, circa i contratti che il KRG ha già concluso con molte aziende straniere, ma che Baghdad ha dichiarato nulli, in quanto non firmati anche dal governo centrale. L’orizzonte è tutt’altro che pacifico, dunque. E i Curdi sono coinvolti in tutti tali processi. 

 

L’IRAQ DI TUTTI – Infine, le influenze e le pressioni esterne. La Turchia, fortemente interessata alla questione curda perché ha a che fare con le azioni di guerriglia e terrorismo del PKK (Partito dei Lavoratori Curdi, organizzazione che dagli anni ’80 rivendica i diritti dei Curdi in Turchia e ha commesso decine di attentati nel Paese) e perché ha circa 10 milioni di Curdi al proprio interno, vorrebbe un Kurdistan iracheno il meno autonomo possibile, per evitare che la sua influenza possa arrivare dentro i propri confini; l’Iran vorrebbe un Iraq, come adesso, governato da forze sciite e, possibilmente malleabili ai propri interessi; gli Stati arabi in generale, soprattutto i confinanti come il piccolo Kuwait, forse propenderebbero più per un governo federale, più debole di uno centralizzato e, potenzialmente, meno pericoloso in futuro (memori delle azioni espansionistiche di Saddam Hussein); anche Israele prefereirebbe probabilmente quest’ultima opzione; Washington potrebbe preferire, in chiave anti-iraniana, un governo centralizzato a guida sciita, da porre in contrapposizione al regime di Teheran. Il futuro dell’Iraq è ancora da costruire. Per il Kurdistan passano molte questioni importanti in merito e l’obiettivo primario ai livelli attuali è quello di evitare che anche l’unica zona relativamente pacificata dell’Iraq possa esplodere nuovamente e allargare gli attuali scontri anche nel Nord del Paese.

Bombe dal cielo

Ancora un attacco aereo con molti morti in Afghanistan. Non è ancora chiara la cifra di vittime civili. Al di là delle polemiche è ormai chiaro che l'airstrike, da solo, non può servire a molto

LE BOMBE – Un attacco aereo nella zona di Kunduz, nel Nord-Est del Paese, ha portato alla morte di almeno 90 persone, tra cui, secondo fonti locali, vi sarebbero anche molte vittime civili. La zona è sotto il controllo delle Forze Armate tedesche, le quali hanno confermato la notizia, smentendo l'uccisione di civili e dichiarando di aver ucciso 56 guerriglieri appartenenti al movimento dei Talebani, ma aggiungendo anche di non essere “sicuri al 100%”, dunque lasciandosi andare a dichiarazioni altalenanti. Di sicuro c'è che i Talebani avrebbero sequestrato due camion che trasportavano carburante per le truppe tedesche proprio verso la zona di Kunduz, nella giornata di giovedì. In seguito, avendo localizzato i convogli presso le sponde del fiume Kunduz, le Forze alleate avrebbero ordinato un massiccio attacco aereo, “assicurandosi prima che non vi fossero civili”.

RICOSTRUZIONI LOCALI – Secondo altre fonti locali pervenute all'ISAF, invece, nel momento del bombardamento intorno ai camion vi sarebbero stati diversi abitanti dei villaggi circostanti la zona, invitati dai Talebani a rifornirsi gratis del carburante precedentemente rubato al convoglio tedesco (che, al momento del sequestro, viaggiava senza scorta armata). Secondo questa ricostruzione, dunque, le vittime sarebbero state un centinaio, tra cui la maggior parte civili, mentre “solo una quindicina di Talebani stazionavano intorno alle cisterne”. Tutto ciò è accaduto a neanche una settimana di distanza dalla nota in cui i vertici della NATO in Afghanistan facevano un quadro pessimistico della situazione sul campo dopo 8 anni di guerra, aggiungendo la necessità di cambiare al più presto strategia.

 
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TRA TATTICHE E STRATEGIA – Ciò riporta l'attenzione su almeno tre punti fondamentali circa la campagna occidentale in Afghanistan, di cui due di natura più tattica e una strategica. Per quanto riguarda la strategia, torna l'interrogativo se la conduzione di una guerra nelle condizioni come quelle presenti in Afghanistan e con questi mezzi, possa continuare così, oppure se, come caldeggiato anche dallo stesso Presidente statunitense Barack Obama, non sia il caso di rivedere alcuni punti fondamentali, come l'invio o meno di maggiori truppe di terra per il controllo del territorio ed il debellamento della guerriglia armata. Proprio a proposito di quest'ultima, si nota come gli attacchi spesso basati quasi esclusivamente sull'airpower possano alla lunga portare la popolazione a sentire sempre di più l'insofferenza nei confronti della presenza straniera e, di conseguenza, a sostenere maggiormente i Talebani. Infine, proprio a proposito dei Talebani, si nota come questi ultimi stiano tentando (spesso anche con un discreto successo) di radicarsi anche nel Nord del Paese (il Sud è già largamente controllato dalle forze talebane), tramite episodi come quello della distribuzione gratuita di carburante alla popolazione. In tal modo, gli “Studenti di Dio” cercherebbero di guadagnarsi il consenso dei civili, per poter agire indisturbati (come avrebbe detto Mao, “come un pesce nell'acqua”) all'interno dei villaggi. Il tempo delle operazioni di guerra (e contro-guerriglia) si allungherebbe, dando un notevole vantaggio tattico ai Talebani.