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L’oro nero di Lula

Le scoperte di enormi (almeno potenzialmente) giacimenti di petrolio nell’Atlantico hanno indotto il presidente brasiliano a varare una legge per tutelare le risorse energetiche. Non sarà facile tuttavia riuscire a sfruttarle

UN TESORO NELL’ATLANTICO – Si parla tanto di fine del petrolio, presentata dai più catastrofisti come imminente, o quasi. Eppure, c’è chi, di petrolio, ne scopre ancora, e parecchio. L’esempio più eclatante degli ultimi tempi è il Brasile: nel 2007, al largo delle coste dell’Oceano Atlantico, è stata scoperta una enorme quantità di risorse petrolifere, che secondo le stime potrebbero addirittura raggiungere i cento miliardi di barili, se le previsioni più rosee dovessero venire rispettate. 

 FACILE A DIRSI… – Tra il dire e il fare, però, c’è di mezzo il mare. In questo caso nel vero senso della parola: il petrolio si trova infatti al di sotto delle profondità atlantiche, circa a sette chilometri sotto il livello del mare, in prossimità di uno strato della crosta terrestre particolarmente salina chiamato per questo motivo “pre-sal”. Per questo è opportuno effettuare una distinzione tra risorse e riserve: per il primo termine si intende la quantità di idrocarburi esistente, con il secondo quelle effettivamente disponibili per essere raffinate e trasformate in combustibile. Rimane ancora da capire, infatti, fino a che punto il petrolio “pre-sal” sarà estraibile e a quali costi: saranno necessari infatti una grande quantità di investimenti per effettuare trivellazioni a tali profondità.

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A ME ALMENO IL 30% – Il presidente brasiliano Lula, intanto, ha deciso di correre ai ripari e di mettere “in cassaforte” le risorse scoperte nel bacino di Tupi, che potrebbero trasformare il Brasile in una delle maggiori potenze energetiche mondiali. Il 31 agosto, infatti, Lula ha presentato una proposta governativa secondo la quale il 30% di tutti i ricavi dei futuri contratti che saranno stipulati per lo sfruttamento delle risorse “pre-sal” sarà riservato alla compagnia a partecipazione statale Petrobras. In altre parole, il colosso dell’energia brasiliana avrà diritto alla partecipazione in ogni contratto almeno in questa proporzione; il restante 70% potrà essere concesso ad altre compagnie estrattive.  

RISCHI E PROSPETTIVE – Rischi, tuttavia, ce ne sono. Da una parte bisogna mettere in conto la fattibilità finanziaria di tali investimenti che, come si diceva, dovranno essere enormi: Petrobras aveva promesso di destinare 174 miliardi di dollari nel prossimo quinquennio da destinare allo sfruttamento dei bacini “pre-sal”, ma il Governo brasiliano ha già rivisto le stime al rialzo. Non vanno inoltre trascurati i rischi di natura politica. Lula ha annunciato la creazione di un organismo pubblico, “Petrosal”, che si incaricherà di sovrintendere alla gestione di tali risorse e alla stipula dei contratti di esplorazione e sfruttamento; inoltre parte delle rendite petrolifere sarà destinata da subito per progetti di utilità sociale e di lotta alla povertà, con un meccanismo di redistribuzione che riguarderà tutte le province brasiliane senza privilegiare quelle costiere, dove si trovano i giacimenti. I pericoli sono due: per quanto riguarda Petrosal, lo spettro della corruzione non può essere trascurato, dato che in Brasile è ancora molto diffusa e la stessa Petrobras è stata di recente coinvolta in uno scandalo di natura fiscale. Lula dovrà inoltre tenere conto del possibile malcontento delle province costiere, come quella di San Paolo, in vista delle elezioni politiche del 2010: i sondaggi danno in testa il candidato dell’opposizione, José Serra, contro la potenziale “erede” di Lula, Dilma Rousseff. 

Davide Tentori 5 settembre 2009 [email protected]

Hugo superstar

Chávez si dà anche al cinema per il documentario celebrativo di Oliver Stone. Intanto incontra Ahmadinejad e conclude accordi in campo energetico

CHÁVEZ IN LAGUNA – Chi l’avrebbe mai detto che, tra un divo e l’altro di Hollywood, sulla passerella del Festival del Cinema di Venezia (in svolgimento in questi giorni) sarebbe comparso anche il leader venezuelano, Hugo Chávez? Ebbene sì, le innegabili doti comunicative ed istrioniche del caudillo di Caracas sono state utilizzate per la realizzazione di un film. Si tratta del documentario “South of the border” (guarda il trailer), girato dal regista statunitense Oliver Stone, che da qualche anno si è appassionato a sostenere la causa dei principali oppositori della Casa Bianca. Dopo l’agiografia di Fidel Castro, infatti, giunge questa nuova pellicola che ripercorre le “gesta” di Chávez, avvalorate dai commenti positivi degli altri Capi di Stato sudamericani (Correa, Kirchner, Lugo, Morales e anche il brasiliano Lula).

MAHMUD, AMICO MIO – La comparsata veneziana è stata però solo una parentesi in mezzo a una fitta tournée che ha portato Chávez a visitare in pochi giorni sei Paesi: Algeria, Libia, Siria, Iran, Russia e Bielorussia. Dopo aver applaudito il colonnello Gheddafi a Tripoli per il quarantesimo anniversario della rivoluzione libica, il leader bolivarista è volato a Teheran, dove ha incontrato per l’undicesima volta il suo omologo iraniano, Mahmud Ahmadinejad. La comunità di intenti tra i due leader è molto stretta e la visita è servita a rinsaldare ulteriormente le relazioni bilaterali. Sul tavolo Caracas ha offerto a Teheran una fornitura giornaliera di ventimila barili di carburante al giorno: questo dato può sembrare paradossale visto che l’Iran è tra i principali produttori mondiali di idrocarburi, ma la repubblica teocratica in realtà deve fare i conti con un deficit abbastanza forte nella capacità interna di raffinazione ed è quindi costretta ad importare il 40% del proprio fabbisogno di benzina e gasolio. Oltre alle forniture energetiche, Chávez ha anche ribadito il proprio sostegno al programma nucleare iraniano, assicurando che ha scopi esclusivamente civili. 

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POSSIBILI RETROSCENA – Anche il Venezuela, per ammissione del suo stesso Presidente, ha intenzione di dotarsi dell’energia nucleare. Questo fatto potrebbe essere un indizio per avvalorare la tesi secondo la quale Caracas fornisce sottobanco uranio da arricchire all’Iran; parte di queste forniture potrebbero arrivare anche dalla Bolivia. In cambio, il regime degli ayatollah potrebbe fornire il know-how, in termini di tecnologia e di competenze, necessario per costruire una centrale nucleare. Rimane tutto da dimostrare, ma è certo che la rete di amicizie di Chávez potrebbe, anzi dovrebbe, far destare qualche preoccupazione negli Stati Uniti, ma anche nel Brasile. Non solo l’Iran, ma anche la Russia è un importante alleato del Venezuela: recenti accordi militari hanno riportato navi della marina di Mosca nel mar dei Caraibi, decenni dopo la crisi di Cuba in piena Guerra Fredda. L’amministrazione Obama non ha ancora lanciato una sua politica chiara nei confronti dell’America Meridionale ma dovrebbe porre attenzione al vuoto di potere che si è creato negli ultimi anni di “disimpegno”. Quanto al Brasile, Lula cerca di mantenere una posizione di equidistanza tra Caracas e Washington nel tentativo di rimanere l’interlocutore più autorevole. L’abilità di Chávez, tuttavia, è proprio quella di saper rubare la scena. 

Davide Tentori 9 settembre 2009 [email protected]

Non c’e’ due senza tre

Anche il terzo vertice dell’Unasur, convocato per affrontare la questione delle basi militari USA in Colombia, si conclude con un nulla di fatto. Bogotà minaccia pure di andarsene, mentre nel continente sudamericano sembra in atto una corsa agli armamenti

NESSUN ACCORDO – Come avevamo previsto, nemmeno questa volta le nazioni sudamericane, che fanno parte dell’Unasur, sono giunte ad una posizione condivisa che portasse all’adozione di misure concrete. Sul tappeto, la questione era ancora quella delle basi militari che la Colombia ha concesso di installare agli USA sul proprio territorio: sette postazioni di esercito, marina e aviazione che porteranno in Colombia circa 1400 “yanquis” (storpiatura “latina” di yankee), divisi tra personale militare e civile. A Quito, capitale dell’Ecuador (cui spetta la presidenza di turno dell’Unasur) le posizioni degli attori sono rimaste più o meno invariate. Il presidente colombiano Álvaro Uribe ha rifiutato di rivelare nei dettagli i termini dell’accordo: trattandosi di un’alleanza a fini strategico-difensivi il “no” di Uribe è legittimo, ma non ha potuto sgombrare il campo dai dubbi ventilati dal Venezuela circa velleità, se non imperialistiche, quantomeno di ingerenza di Washington negli affari regionali.

ME NE VADO – Uribe ha minacciato persino di ritirare la Colombia dall’Unasur, qualora dovesse permanere un clima diffuso di ostilità nei confronti del suo Paese. Attraverso il ministro della Difesa, Gabriel Silva, il leader colombiano ha fatto sapere che “Bogotà potrebbe decidere di prendere questa decisione se continuerà a riscontrare un clima di insensibilità verso temi quali il traffico di armi, di droga e le altre attività esercitate dalla criminalità organizzata”. La Colombia, inoltre, ha cercato di rispondere alle accuse chiedendo altrettante spiegazioni in merito agli ingenti acquisti di armamenti effettuati di recente da Venezuela e Brasile. 

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HUGO FA LA SPESA A MOSCA – Le posizioni dei due Paesi “pivot” nella regione sono tuttavia ben distinte. Il Brasile ha infatti concluso pochi giorni fa importanti accordi con la Francia per l’acquisto di aerei ed elicotteri da addestramento e combattimento, nonché di cinque sommergibili di cui uno nucleare. L’episodio si inserisce in una precisa strategia brasiliana che non ha intenti aggressivi verso gli altri Stati sudamericani, ma mira a consolidare il primato del Brasile nella regione anche a livello strategico-militare e a difendere i propri confini così estesi. Inoltre, Brasilia sta sviluppando una propria industria della Difesa che fa perno attorno al colosso dell’aeronautica civile e militare Embraer, al fine di diventare leader globale anche in questo settore.Il Venezuela ha invece acquistato elicotteri, cacciabombardieri e sistemi missilistici moderni dalla Russia, che si consolida come partner strategico di Caracas. Inoltre, Chávez ha manifestato la volontà di avviare un programma nucleare in collaborazione con l’Iran. Sarebbe troppo semplicistico pensare che il caudillo venezuelano abbia intenzione di muovere guerra contro la Colombia, ma è chiaro il suo intento destabilizzatore. Innalzare il livello della tensione nella regione potrebbe servire a polarizzare ulteriormente attorno al Venezuela i Paesi che gravitano nella sua orbita. In questo caso, però, le prospettive per l’integrazione regionale non saranno rosee. 

Davide Tentori 17 settembre 2009 [email protected]

Europa alla riscossa

La settimana propone due importanti temi economici: l’Unione Europea tenta di rilanciare le proprie strategie e di contenere la crisi greca; al contempo la Russia e la Francia coltivano i propri rapporti su temi fondamentali quali l’energia

Grandi manovre europee dal punto di vista economico e commerciale.

Durante la settimana sono previsti incontri di alto livello propedeutici ad importanti decisioni legate sia alla gestione della crisi economica in corso, con particolare attenzione alla Grecia, che legate a nuove strategie di sviluppo dei mercati. 

Il rappresentante della UE per gli Affari Monetari, Olli Rehm, condurrà una serie di incontri con il Governo greco; in particolare gli incontri coinvolgeranno i Ministri delle Finanze, del Lavoro per discutere di tutela sociale e competitività.Intanto il Primo Ministro George Papandreu andrà a far visita al Cancelliere tedesco Angela Merkel. La Germania è il Paese che più di tutti dovrebbe contribuire alla stabilizzazione della condizione economica della Grecia, e questo incontro diretto tra i leader dei due Paesi potrebbe segnare il punto cruciale nella discussione sulle misure da adottare in sede europea.  

La Banca Centrale Europea discuterà a Francoforte eventuali modifiche ai tassi di interesse: bloccati al minimo storico dell’1%, potrebbero essere rialzati.  

Si discute infine di due importanti decisioni per il futuro: la Commissione Europea presenterà un dettagliato piano strategico per l’Unione; dovrebbero esser comprese le strategie generali 2010-2020 e strategie specifiche per il cruciale settore energetico.

Inoltre, il Commissario Europeo per il Commercio, Karel De Gucht, si recherà in India per colloqui sulla possibilità di stabilire un accordo di libero scambio

Gli incontri di rilievo della settimana saranno i seguenti: 

        Dmitri Medvedev, Presidente russo, incontrerà il Presidente francese Sarkozy: in agenda sia questioni bilaterali che di rilievo internazionale.Sempre nel quadro delle relazioni Francia-Russia, è in dirittura d’arrivo un accordo tra il colosso francese GDF Suez e quello russo Gazprom: sul tavolo la partecipazione dei francesi al progetto del gasdotto Nord Stream, tramite l’acquisto di una partecipazione di circa il 9%.

        Il neo eletto Presidente ucraino Viktor Yanukovich farà la sua prima visita ufficiale in Russia. Dopo anni di rapporti tesi tra i due Paesi, soprattutto in tema di gestione dei flussi di gas verso l’Europa, la nuova presidenza ucraina dovrebbe tendere ad un riavvicinamento tra i due Governi.

        Cina: due importanti appuntamenti politici in vista. Il Chinese People’s Political Consultative Conference, importante organo consultivo del Governo cinese, terrà la sua riunione annuale; sarà seguito, dal 5 al 18 marzo, dall’Assemblea plenaria annuale del National People’s Congress, il Parlamento cinese.

        Proseguono intanto i colloqui strategici tra USA e Israele, avviati settimana scorsa con la visita del Ministro delle Difesa israeliano Ehud Barak; il vice Segretario di Stato Americano, James Steinberg, infatti, si recherà in Israele.

        In Africa, la Corte Suprema del Rwanda deciderà se estradare Laurent Nkunda, capo del gruppo ribelle congolese di etnia tutsi (il National Congress for the Defense of the People), che si è reso negli anni passati protagonista di gravi crimini nella Repubblica Democratica del Congo. La decisione potrà avere importanti ripercussioni sulla stabilizzazione delle relazioni tra i due Paesi.

        Il 4 marzo, infine, si terranno in Togo le elezioni politiche nazionali.

La Redazione

1 marzo 2010

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Forti scosse

Il terremoto che ha sconvolto il Cile precede di pochi giorni l’insediamento del nuovo Governo. Le possibili conseguenze politiche ed economiche di questo catastrofico evento che ha colpito il Paese.

IL TERREMOTO – Il sisma che ha devastato la parte centro-meridionale del Cile nella notte tra venerdì 26 e sabato 27 febbraio non è purtroppo un fenomeno nuovo a quelle latitudini. Ogni vent’anni circa, infatti, il Paese andino trema per scosse che giungono dalle profondità dell’Oceano Pacifico. Questa volta, nonostante si tratti di una vera e propria tragedia nazionale, sarebbe potuta andare anche molto peggio: l’epicentro del terremoto, fortunatamente, è stato a 150 km dalla città più colpita, Concepción, in una zona scarsamente popolata. Il numero relativamente ridotto (oltre 700 le vittime, destinato però a salire) dei morti, in rapporto alla tremenda violenza del sisma (8,8 gradi della scala Richter, una potenza sprigionata diecimila volte superiore a quella di Haiti), è dovuto proprio alla localizzazione del fenomeno geologico, ma anche alla buon livello delle infrastrutture cilene. Il Paese sudamericano è infatti all’avanguardia nella regione per quanto riguarda il livello delle proprie strade e degli edifici. Queste condizioni hanno senz’altro permesso di evitare un bilancio ben peggiore, ma a prova dell’estrema forza del terremoto vi sono le immagini dei viadotti crollati e dell’aeroporto della capitale Santiago reso inagibile.

CONSEGUENZE ECONOMICHE – Ora è il momento di fare anche la conta dei danni economici. L’agenzia di consulenza cilena Eqecat, specializzata nel monitoraggio di catastrofi naturali, ha stimato in una cifra compresa tra 15 e 30 miliardi di dollari l’ammontare economico dei danni. Non si tratterà solo di ripristinare strade e ponti e di ricostruire le case delle migliaia di cileni che hanno perso la propria casa, ma anche di cercare di evitare che l’economia nazionale entri in una pericolosa stagnazione. Il Cile ha infatti risentito, come tutti i Paesi latinoamericani, della crisi economica globale, e dopo un 2009 caratterizzato da una bassa crescita si stava preparando per ripartire di slancio. L’emergenza del sisma costringerà giocoforza le autorità a rivedere i programmi di crescita, destinando ingenti risorse pubbliche per la ricostruzione. Sarà da valutare anche l’impatto che subirà l’estrazione del rame, di cui il Cile è il principale produttore mondiale. Fortunatamente le maggiori riserve di questo metallo sono custodite in miniere situate al Nord del Paese, ma due miniere collocate nella regione meridionale sono state chiuse e le difficoltà nelle comunicazioni aumenteranno i costi di trasporto. Il prezzo del rame è destinato ad aumentare, ma non è chiaro se la diminuzione nella produzione sarà abbastanza ridotta da evitare comunque perdite.

 

CONSEGUENZE POLITICHE – Senza dubbio Sebastián Piñera avrebbe preferito cominciare il suo mandato presidenziale in una situazione più tranquilla. Il nuovo inquilino del Palazzo della Moneda (sede del Governo di Santiago) entrerà in carica il prossimo 11 marzo, ereditando da Michelle Bachelet, con la quale negli ultimi giorni ci sono state dichiarazioni di unità nazionale, una situazione tutt’altro che facile. Il ricco imprenditore dovrà inoltre fare i conti con una maggioranza parlamentare risicatissima, dunque per poter governare stabilmente avrà spesso bisogno dei voti dell’opposizione. Anche a questo scopo il suo esecutivo sarà poco “colorato” politicamente: tredici ministri dei ventidue scelti da Piñera non provengono infatti dalla politica, ma sono dei tecnici esperti prevalentemente di questioni economiche. Il Presidente si è presentato come “uomo del fare” più che appartenente alla tradizionale destra conservatrice, ma questa strategia si spiega anche con la necessità di fare i conti con le altre forze politiche.Un inizio in salita dunque per il “Berlusconi” cileno. La repubblica andina ha però tutte le carte in regola per farcela: è una vera democrazia con istituzioni solide e fondate su principi condivisi. Inoltre possiede un sistema economico sviluppato e dinamico, in grado di superare questa tragedia e di guardare avanti con nuovo slancio.

 

Davide Tentori

2 marzo 2010

Tanta roba

Le esportazioni cinesi, nonostante la crisi economica, resistono e conquistano fette sempre maggiori di mercato. Le statistiche in uscita nei prossimi giorni forniranno la spiegazione di questo trend

Immagine di copertina tratta da "Economist.com"

 

        Saranno pubblicate martedì 11 gennaio statistiche ufficiali in merito al commercio estero cinese. I dati dovrebbero rivelare che lo stock di esportazioni del mese di dicembre 2009 sono state più alte rispetto allo stesso mese del 2008, dopo un anno di declino misurato nell’ordine del 17%. Tuttavia Pechino risulta premiata rispetto alle altre potenze, dato che è riuscita a mitigare gli effetti della crisi economica. Il segreto principale risiede nell’estrema competitività delle proprie merci, legata ai bassi salari e al basso valore dello yuan, la valuta locale. Nemmeno il viaggio di Obama in Cina è servito per convincere le autorità locali ad apprezzare la moneta, il cui valore è giudicato da anni troppo basso dagli analisti internazionali.  

 

        Sabato 16 gennaio l’Ucraina andrà alle urne per eleggere il suo nuovo Presidente. L’attuale leader, Viktor Yushenko, si farà da parte e i principali candidati alla successione sono la sua “erede” politica, Yulia Tymoshenko, esponente del partito “arancione” filoeuropeo, e Viktor Yanukovich, oppositore sconfitto nella precedente tornata elettorale e vicino alle posizioni russe. Il risultato è incerto, ma rispecchierà comunque un Paese diviso sostanzialmente in due: la parte occidentale tendenzialmente volenterosa di integrarsi nell’Unione Europea e di emanciparsi dalla dipendenza dalla Russia, e quella orientale più legata alle posizioni di Mosca. 

 

        Si svolge domenica 17 in Cile l’atteso ballottaggio elettorale tra i candidati alla Presidenza: per la Concertación, coalizione di centrosinistra, si presenta Eduardo Frei, mentre per il centrodestra corre il miliardario Sebastián Piñera. Quest’ultimo, che ha vinto il primo turno con una solida maggioranza relativa (più del 40%), è favorito alla vittoria finale: pare infatti che i voti degli elettori di Marco Enríquez-Ominami, l’outsider del Partido Socialista che ha ottenuto il 20%, si divideranno tra i due candidati e non confluiranno tutti per il candidato di centrosinistra.

La Redazione

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La volta buona?

Potrebbe essere una settimana chiave per la vicenda di Gilad Shalit, il giovane soldato israeliano nelle mani di Hamas. Secondo alcune fonti, Shalit potrebbe essere liberato a breve in seguito ad uno scambio di prigionieri

         Inizia lunedì 23 una “tournée” del presidente iraniano, Mahmud Ahmadinejad, in America del Sud. Il discusso leader visiterà innanzitutto il Brasile, dove incontrerà Lula, poi si recherà in Bolivia e infine in Venezuela per incontrare l’amico Hugo Chávez. Gli USA hanno chiesto al Brasile di effettuare pressioni perché l’Iran rinunci al suo programma nucleare, ma la posizione della potenza sudamericana sembra quella di consentire lo sviluppo dell’energia atomica a scopi civili. 

 

        Potrebbe giungere ad una svolta la vicenda di Gilad Shalit, il soldato israeliano rapito dai palestinesi di Hamas nel 2006. Tel Aviv potrebbe accettare lo scambio di centinaia di prigionieri palestinesi presenti nelle proprie carceri per avere in cambio il giovane Shalit, che potrebbe essere liberato da venerdì 27 novembre in poi, in coincidenza con una festività musulmana che sancisce la fine del tradizionale pellegrinaggio alla Mecca. 

 

        Weekend denso di elezioni in America Latina e Africa. In Honduras si terranno le elezioni presidenziali in un clima di forte incertezza. Argentina e Brasile non riconosceranno il risultato del voto se Zelaya non sarà reintegrato nelle sue funzioni, mentre gli USA sembrano intenzionati ad offrire il riconoscimento. Il presidente de facto Micheletti dovrebbe auto-sospendersi dalla propria carica da mercoledì 25 fino al 2 dicembre per garantire il regolare svolgimento delle elezioni. In Uruguay si svolgerà il ballottaggio tra il socialista Mujica e il liberale Lacalle: l’esito, non del tutto scontato, dovrebbe premiare il primo. Spostandoci in Africa, invece, in Guinea Equatoriale il presidente Teodoro Obiang Nguema dovrebbe avere vita facile nell’essere confermato al potere dopo trent’anni (alle ultime elezioni ottenne il 97% dei suffragi). Il piccolo paese è importante per le sue notevoli riserve petrolifere.

La Redazione

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Per qualche soldato in più

A dire il vero sono oltre 30mila i militari statunitensi che si aggiungeranno a quelli già schierati in Afghanistan. La decisione di Obama, indubbiamente, è la notizia della settimana. Entra in vigore – finalmente – il trattato di Lisbona. Bolivia alle urne.

Immagine di copertina tratta da "Economist.com"  

 

        Ci sarà il “surge” tanto richiesto dal generale Stanley McChrystal, comandante della coalizione ISAF, ovvero l’adozione di maggiori mezzi e uomini da dispiegare in Afghanistanper tentare di debellare definitivamente le forze talebane? Martedì 1 dicembre il Presidente Barack Obama annuncerà la sua decisione, che sarà probabilmente quella di inviare 35mila soldati in più, accontentando così le richieste di McChrystal. Una decisione difficile, che dovrà però dare i suoi frutti per consentire agli USA di vincere definitivamente il conflitto in Afghanistan che dura da ormai otto anni. 

 

        Finalmente l’Unione Europea avrà il suo nuovo trattato. Entra in vigore martedì 1 dicembre il Trattato di Lisbona, dopo la sofferta ratifica da parte dell’Irlanda e della Repubblica Ceca. Il naufragio della Costituzione Europea aveva fatto temere in una brusca frenata dell’integrazione europea, ma la carta di Lisbona permette, seppure con ambizioni rivedute al ribasso, di compiere un passo avanti. Le principali innovazioni sono l’introduzione di figure come il Presidente dell’Unione e del Ministro degli Esteri, oltre che un leggero aumento di poteri per il Parlamento Europeo, che dovrebbe essere l’organo legislativo ma in realtà non ha poteri decisionali veri e propri. 

 

        Si svolge a Milano mercoledì 2 e giovedì 3 dicembre la IV Conferenza Italia – America Latina, organizzata dalla Rete Italia-America Latina in collaborazione con il Ministero degli Esteri e la Camera di Commercio di Milano. Dopo la seduta plenaria di mercoledì, giovedì si terranno dei seminari per materia inerenti a cooperazione economica, giudiziaria, politica e scientifica. Parteciperanno anche il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il Ministro degli Esteri Franco Frattini. –        Altro weekend elettorale in America Latina. Dopo Uruguay e Honduras andrà al voto anche la Bolivia, dove è molto probabile una rielezione del “cocalero” Evo Morales, esponente del MAS (Movimiento al Socialismo). Il suo rivale, Manfred Reyes Villa, per adesso è fermo nei sondaggi al 20% e dovrebbe ottenere la maggioranza relativa solo nelle province “ribelli” del Sud-est. Il voto potrebbe consegnare l’immagine di un Paese sempre più diviso.

La Redazione

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Cosi’ vicini, cosi’lontani

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La visita del Commissario europeo alle Relazioni Internazionali in America Latina potrebbe essere l’indice di una ripresa dei rapporti tra Vecchio e Nuovo continente, anche se vi sono alcuni nodi da sciogliere

SI AVVICINA L’ORA DI MADRID – L’Europa e l’America Latina non potrebbero essere più lontane geograficamente; eppure, come la storia insegna, i vincoli e le somiglianze tra i due continenti sono molto stretti. Tali rapporti, tuttavia, negli ultimi anni non sono stati così intensi come in passato: un esempio particolarmente significativo è quello dell’Italia, in quanto i governi che si sono succeduti nell’ultimo quindicennio si sono pressoché scordati degli importanti legami storici e culturali con l’America Latina. In questi giorni il Commissario europeo alle Relazioni Internazionali, Benita Ferrero Waldner, sta visitando i principali Paesi dell’area (attualmente si trova in Argentina, poi visiterà Messico e Cuba) allo scopo di rilanciare i rapporti tra Unione Europea e continente latino. A favore di una nuova fase nelle relazioni biregionali può giocare il fatto che la Spagna occuperà la presidenza dell’Unione nel primo semestre del 2010: Madrid è l’attore che mantiene i contatti più intensi con l’America Latina, a livello politico così come economico e culturale.

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MERCOSUR E UE: AMICI O RIVALI? – Siccome l’attività esterna dell’Unione Europea è essenzialmente di ambito economico, i progressi più rilevanti che ci potrebbero essere riguardano i rapporti tra di essa e il principale blocco di integrazione sudamericana, ovvero il Mercosur (Mercato Comune del Sud). Quest’unione doganale, formata da Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay (con il Venezuela da più di due anni in attesa di entrare, ma bloccato dal veto del parlamento brasiliano), guarda esplicitamente all’UE come modello di integrazione ed è con essa legata da un accordo di cooperazione la cui negoziazione è iniziata nel 1999. Tuttavia, i nodi che attualmente impediscono una collaborazione più stretta sono diversi. Innanzitutto, il Mercosur sta attraversando da diverso tempo una fase di stallo determinata da un “revival” protezionistico messo in atto dall’Argentina (poi seguita per reazione anche dagli altri membri) che sta bloccando ogni progresso dell’organizzazione. Con l’Unione Europea, inoltre, bisognerà affrontare questioni importanti che riguardano soprattutto il livello di protezione sulle rispettive merci agricole. Si tratta di due settori importanti per entrambi i blocchi: per il Mercosur si tratta di un punto di forza e quindi cerca di spingere sui sussidi all’esportazione, mentre per l’UE è un comparto più debole e per questo vengono utilizzati i dazi sulle importazioni. Per verificare se la visita di Benita Ferrero Waldner si sarà risolta in una consueta serie di dichiarazioni “di maniera” bisognerà attendere alcuni mesi e sommare tre fattori. Il primo è l’impegno che la Spagna vorrà riservare allo stimolo delle relazioni biregionali, il secondo è di portata più generale e consiste nell’effettiva ripresa dei negoziati del Doha Round in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio. Infine, la ripresa dell’economia globale sarà un fattore decisivo per la ripresa degli scambi, composta in maniera decisiva dalla domanda di consumi proveniente dall’Europa. 

Davide Tentori [email protected]

Il primo esame

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Il caso Honduras rappresenta la prima sfida per Obama in America Latina. Dal suo atteggiamento si misurerà la volontà di mettere in atto un nuovo approccio politico

UNA SFIDA PER OBAMA – La questione hondureña si sta trasformando da piccola e paradigmatica questione locale, nella prima sfida importante che dovrà saper gestire la nuova amministrazione statunitense, che tanto ha detto per cambiare l’opinione straniera sulla politica estera americana. Non è infatti il risultato da raggiungere (per quanto il governo militare di fatto cerchi di mantenersi al vertice, la comunità internazionale, senza eccezioni, appoggia e sostiene il presidente Zelaya, democraticamente eletto) ad essere sotto osservazione ma la maniera nella quale Obama e il suo staff gestiranno il ritorno al potere del Presidente Zelaya.Sono mesi che Obama gira il mondo per diffondere la sua nuova dottrina, di risoluzione non violenta delle controversie internazionali, di rispetto reciproco nelle relazioni internazionali, non basato sulla paura ma sulla fiducia nel prossimo, dell’America non come stato imperiale, ma come l’esempio che ogni paese dovrebbe seguire nelle libertà e nei diritti civili. In sostanza un giro di vite abbastanza energico rispetto alla dottrina della precedente amministrazione americana, che tanti dissensi aveva raccolto in America Latina.

L’EREDITA’ DI BUSH – Durante l’era Bush, nei paesi latini si è assistito a varie vittorie elettorali di forze politiche legate alla sinistra: dalla vittoria di Lula in Brasile nel 2002, ai Kirckner in Argentina al potere dal 2003, a Correa in Ecuador, a Morales in Bolivia, a Lugo in Paraguay. Inoltre il Venezuela di Chávez ha spesso radicalizzato lo scontro con gli USA cercando accordi con le altre potenze dell’America Latina che escludessero gli Stati Uniti dal continente, creando per esempio l’ALBA (Alternativa Bolivariana per le Americhe), come una possibile alternativa al liberismo sfrenato promulgato da Bush e che ha danneggiato le economie locali.Con l’arrivo alla Casa Bianca di Obama lo scenario pare essere cambiato: Obama nella sua prima uscita in America Latina si è presentato all’Assemblea Generale dell’Organizzazione di Stati Americani, spazio reciprocamente snobbato dagli USA ed amato dai paesi latini, per tessere nuove relazioni con tutti i paesi del continente americano, stringendo la mano a Chávez e intavolando profondi incontri con Lula e la Kirchner, due partner fondamentali. Obama cerca in tutti i modi di pulire la sua facciata dalla nomea di “pinche gringo pugnetero”, ossia l’americano imperialista che si rapporta all’America Latina con superiorità. Obama prova a riallacciare i rapporti con i paesi dell’America Latina perché sa che nella competizione globale non può prescindere né dalla manodopera latina a basso costo, né dell’enorme mercato adiacente costituito dai Paesi del continente.  

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GLI SCENARI – E nelle relazioni con l’America Latina, la questione Honduras sta divenendo prioritaria. Da una parte vi è l’oligarchia honduregna, da anni sostenuta economicamente e militarmente dagli Stati Uniti, che non vuole una deriva socialista in Honduras; dall’altra Zelaya, il popolo honduregno e i presidenti di sinistra dei vari paesi latini che vogliono vedere nei fatti un cambiamento nella politica statunitense, che privilegi i principi di libertà e democrazia rispetto agli interessi economici americani, da sempre preferiti nell’appoggio alle dittature militari degli anni ’80.In mezzo Obama che non può dimenticarsi un secolo di storia statunitense e che però sta cercando di modificare le priorità politiche e culturali non solo degli Stati Uniti ma del mondo intero. Cosa farà? Appoggerà gli Stati che chiedono a gran voce il ritorno di Zelaya oppure prenderà provvedimenti economici contro il governo di fatto in Honduras? Gli Stati Uniti sono il principale partner commerciale del piccolo stato centroamericano: in caso di vera volontà di boicottare il governo militare al potere adesso, agli americani basterebbe chiudere qualche rubinetto e esercitare pressioni affinché Zelaya torni al suo posto. L’altra strada da seguire potrebbe essere quella del sostegno al governo militare o, ancora, di lasciare che le cose facciano il loro corso in modo che le vicende di Tegucigalpa passino presto in secondo piano nell’opinione pubblica internazionale. 

Andrea Cerami [email protected]

Tira e molla

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La scoperta che le FARC colombiane hanno ottenuto forniture di armi dal Venezuela causa una nuova tensione nei rapporti tra Caracas e Bogotà. Eppure Chàvez non può fare a meno dei propri “vicini di casa”

ARMI  E GUERRIGLIA – La conferma giunta dalle autorità svedesi lascia poco spazio a dubbi. La notizia è questa: i guerriglieri delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane), che da anni costituiscono insieme al narcotraffico il più grave problema per la sicurezza in Colombia, hanno ricevuto forniture di armi “sottobanco” da parte del Venezuela. Stoccolma è entrata nel merito della questione per il semplice fatto che le armi ritrovate dalle forze dell’ordine colombiane sono dei lanciarazzi prodotti in Svezia e venduti proprio al Venezuela circa una ventina d’anni fa. Tale ritrovamento sembra fornire una prova abbastanza concreta delle relazioni tra Caracas e la guerriglia marxista che tenta di destabilizzare il Paese confinante, ma il presidente Hugo Chávez ha subito smentito la notizia e ha rispedito al mittente qualunque addebito nei suoi confronti. Non solo: ha rotto le relazioni diplomatiche con la Colombia richiamando in patria il proprio ambasciatore a Bogotà. La crisi tra Venezuela e Colombia non è una novità, dato che periodicamente il caudillo di Caracas alza la temperatura dello scontro tra i due Paesi: l’ultima volta si verificò circa un anno fa, per una disputa sorta intorno alla difesa delle frontiere.

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UNA RELAZIONE IMPORTANTE – La chiave di lettura principale nello scontro tra Colombia e Venezuela risiede nell’orientamento politico dei rispettivi governanti. Il leader di Bogotà, Álvaro Uribe, è uno dei più fidati alleati degli Stati Uniti (indubbiamente il suo è il Governo maggiormente orientato verso Washington in tutta l’America del Sud), mentre Chávez è notoriamente ostile all’ “imperialismo capitalista” degli USA. Il sostegno, ovviamente implicito e attualmente non quantificabile in termini precisi, alle FARC si inserisce nella logica chavista di destabilizzare i propri vicini per acquisire peso politico nella regione. Tuttavia il Venezuela non può fare a meno della Colombia: le relazioni commerciali fra i due Paesi sono infatti molto importanti. L’anno scorso il livello degli scambi ha raggiunto il valore di otto miliardi di dollari, ma l’aspetto più significativo è che la bilancia commerciale pende decisamente a sfavore di Caracas, che per l’87% importa merci dalla Colombia, mentre per il solo restante 13% esporta i propri prodotti. Il perché è presto detto: le politiche di sviluppo di Chávez hanno privilegiato in maniera quasi esclusiva il settore degli idrocarburi (gas e petrolio), rendendo il Venezuela dipendente in tutto per quanto riguarda prodotti basilari come quelli alimentari. Entrambi i Paesi coinvolti sanno di essere importanti l’uno per l’altro, anche se Chávez ha dichiarato di non avere problemi a comprare da altri Paesi ciò che oggi acquista dalla Colombia. Chi sono questi altri venditori? Brasile e Argentina soprattutto, ovvero i principali membri del Mercosur, organizzazione nella quale il Venezuela vorrebbe entrare, senza esserci ancora riuscito. Cambiando partner, non cambierà tuttavia la situazione: Caracas sarà costretta a riproporre la sua dipendenza alimentare. Ecco perché, almeno all’estero, la portata dell’azione geopolitica di Chávez non va per il momento sopravvalutata.

Davide Tentori [email protected]

Venti di guerra da Sud?

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Il leader venezuelano Chávez promette battaglia se gli USA installeranno sette basi militari in Colombia. Dall’UNASUR, tuttavia, non arriva una posizione comune. Cosa c’è sotto all’accordo tra Washington e Bogotà?

 

L’ACCORDO – L’America Latina è in subbuglio in queste settimane per il possibile accordo tra Stati Uniti e Colombia che porterebbe alla concessione, da parte di Bogotá, di sette basi militari per le forze armate di Washington. Il piano si inserisce nell’ambito della storica collaborazione tra gli USA e la nazione sudamericana e avrebbe lo scopo di ottenere risultati più concreti nella lotta al narcotraffico e alla guerriglia marxista delle FARC. Nello specifico, si tratterebbe di tre basi aeree, due per la Marina e due riservate invece alle forze di terra. La Casa Bianca spinge per concludere l’accordo in seguito alla revoca, da parte dell’Ecuador, della concessione dell’utilizzo della base di Manta. Le autorità militari e politiche dei due Paesi hanno affermato di voler concludere la trattativa entro la fine di questa settimana, nonostante la ferma opposizione di altri Stati della regione, in testa il Venezuela. Per discutere la questione è stato convocato nella capitale ecuadoregna, Quito, un vertice straordinario del Consiglio Sudamericano di Difesa, un organismo che fa parte dell’UNASUR (Unione delle Nazioni Sudamericane), una delle ultime organizzazioni regionali nate in questi anni.

 

TANTO RUMORE PER NULLA – La riunione che si è tenuta l’11 agosto scorso (assente il presidente colombiano, Álvaro Uribe, in ragione delle cattive relazioni diplomatiche tra Ecuador e Colombia), non ha sortito alcun effetto concreto. Il Venezuela di Hugo Chávez ha spinto perchè venissero decise delle sanzioni comuni contro Bogotá, ma gli altri Paesi hanno preferito percorrere la strada della prudenza. In particolare il Brasile, nonostante si sia dichiarato contrario ad un aumento così massiccio della presenza “yankee” nella regione, ha adottato un atteggiamento più conciliante e il presidente Lula ha chiesto a Obama che descriva pubblicamente all’intera regione le sue intenzioni. Anche il Cile e l’Argentina, abitualmente vicina al Venezuela, hanno adottato lo stesso atteggiamento, proponendo che si tenga un’altra riunione entro la fine di agosto a Buenos Aires.

 

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E ORA? – Il presidente venezuelano ha affermato che stanno “soffiando venti di guerra in America Latina”. Tuttavia, la possibilità che Caracas dichiari guerra alla Colombia sembra del tutto remota. È indubbio però che un aumento ingente della presenza militare statunitense nella regione desti preoccupazione negli Stati sudamericani. Il Brasile è il principale alleato strategico degli USA nella regione, ma l’atteggiamento titubante in questa situazione si può spiegare con il timore di non essere coinvolto in tutte le questioni militari che rientrano nella politica di Washington verso l’America Latina. L’incapacità dell’UNASUR di prendere una decisione sulla materia denota ancora una volta lo stallo nel processo di integrazione regionale: il successo delle organizzazioni regionali proliferate in questi anni si potrà solo misurare con le decisioni concrete che verranno intraprese. Al momento, tuttavia, manca una posizione comune: i Paesi sudamericani sono divisi tra l’opposizione intransigente a Washington e la volontà di intraprendere un rapporto di collaborazione reciproca. Tali fratture, però, non sembrano propiziare un cambiamento effettivo delle relazioni emisferiche e gli USA potrebbero essere incentivati a proseguire sulla strada degli accordi bilaterali con i suoi alleati storici.