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Le proteste in Iraq: uniti contro il settarismo (e contro Teheran)

Analisi- Da ormai due mesi, l’Iraq è scosso da una violenta ondata di proteste: alle istanze socio-economiche si sono presto aggiunte le rivendicazioni anti-sistemiche di una popolazione stanca della governance settaria e dell’ingerenza iraniana.

“UNA SOLA PATRIA”

Il mese di ottobre ha visto nascere in Iraq un’ondata di proteste di enorme portata, che hanno colpito Baghdad e altre città nel centro-sud del paese. Per capire lo scenario attuale, è bene ricordare come l’Iraq sia caratterizzato da una popolazione piuttosto eterogenea dal punto di vista etnico-settario: la maggioranza arabo sciita vive fianco a fianco con gli arabo-sunniti e i curdi, per la maggior parte musulmani sunniti, concentrati nel nord del paese. All’intervento a guida americana del 2003, che ha determinato la caduta del trentennale regime di Saddam Hussein, è seguito un goffo tentativo di state-building risultato nell’approvazione della nuova Costituzione del 2005, che ha sancito il settarismo (il sistema della muhasasa ta‘ifiyya, su modello di quello libanese) come principio base del nuovo Stato iracheno. Lungi dal poter essere sviscerata in queste poche righe, la storia irachena dal 2003 a oggi è stata quanto mai travagliata e conflittuale, così che quella odierna si inserisce in una lunga serie di contestazioni anti-governative. Tuttavia, essa si configura come la più ampia ondata di proteste degli ultimi decenni – si parla infatti di rivoluzione – a cui avrebbero preso parte già circa 200.000 persone.

Sebbene si stiano svolgendo principalmente nelle aree a maggioranza sciita, le attuali proteste si basano sul rifiuto della muhasasa e dei suoi network clientelari capaci di mantenere saldi gli interessi delle élite al potere. A dimostrazione di ciò, i manifestanti, bandiere irachene alla mano, urlanoSecular, Secular, neither Sunni nor Shiite”, e “Nurid Watan“, rivendicando la propria appartenenza a una sola patria e non ai gruppi etno-settari nei quali la muhasasa ha sezionato la popolazione irachena.

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Fig.1- Funerali di un attivista ucciso durante le proteste nella città di Karbala, a sud di Baghdad, 9 dicembre 2019.

LA RIVOLUZIONE DI OTTOBRE

Le rivendicazioni delle prime proteste scoppiate a inizio ottobre erano principalmente socio-economiche: i manifestanti, per lo più giovani esponenti delle classi sociali più basse, sono scesi in piazza per lamentare l’alto tasso di disoccupazione, la mancanza di opportunità lavorative per una popolazione sempre più giovane – il 67% degli iracheni ha meno di 30 anni –, la corruzione endemica e la mancanza degli anche più basici servizi, come l’elettricità. Si tratta di rivendicazioni tutt’altro che inedite per lo scenario iracheno: le stesse istanze erano riscontrabili anche nelle proteste che hanno scosso Basra, grande centro petrolifero nel sud del paese, nell’estate del 2018. Con il passare dei giorni e l’aumento della repressione governativa, le proteste si sono diffuse a più larghe fasce della popolazione: anche la classe media si è unita alle manifestazioni, e le rivendicazioni si sono fatte sempre più sistemiche. Gli iracheni oggi non chiedono più riforme, bensì un cambiamento tout court del sistema post-2003, concepito come la causa di tutti i mali della società irachena: si tratta, insomma, di una forte reazione al fallimento del sistema che ha governato il paese negli ultimi 16 anni. Il rifiuto sistemico che muove le masse di manifestanti ben si accorda con la stessa natura di questo proteste, che fino a oggi mancano di un leader e di una rappresentanza politica, presentandosi come vera e propria emanazione del popolo iracheno e delle sue istanze. 

D’altra parte, Teheran non ha mancato di commentare quanto sta accadendo nel vicino Iraq utilizzando il leitmotiv del complotto straniero, tanto più perché i manifestanti chiedono a gran voce la fine dell’ingerenza iraniana in Iraq, anch’essa a sua volta veicolata e accentuata dalla settarizzazione della politica irachena. A conferma simbolica della forte opposizione popolare alle intrusioni iraniane, i manifestanti hanno recentemente attaccato il consolato iraniano a Karbala e a Najaf.

A questo proposito, è importante accennare come la scintilla delle proteste in Iraq sia stata, a fine settembre, l’annuncio da parte del premier iracheno Adil Abdul Mahdi del sollevamento del Generale Abdul Wahab al-Saadi dal suo prestigioso incarico di Comandante delle Unità di elite anti-terrorismo, per essere ricollocato al Ministero della Difesa. Questa decisione, immotivata pubblicamente, ha scatenato le ire della popolazione irachena, in particolar modo perché si mormora che dietro a questa scelta vi sia stata l’ombra di Teheran: al-Saadi, estremamente popolare per aver partecipato alla lotta contro lo Stato Islamico e alla battaglia per la liberazione di Mosul, sarebbe infatti una figura vicina agli Stati Uniti

D’altronde, a conferma del suo prepotente ruolo nella politica del vicino, Teheran non ha fatto attendere una sua reazione in seguito allo scoppio delle proteste: a fine ottobre, una prima dichiarazione di dimissioni da parte del PM iracheno Abdul Mahdi sarebbe infatti stata scongiurata dall’intervento di Qassim Soleimani, Comandante delle forze Quds (l’unità delle Guardie Rivoluzionarie iraniane preposta alle operazioni extraterritoriali), inviato da Teheran a Baghdad a salvaguardia dello status quo

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Fig.2- Protestanti in piazza Tahrir a Baghdad durante le manifestazioni anti-governative, 10 dicembre 2019.

LA GESTIONE DELLA CRISI

Le proteste, già di per sé radicali e le cui rivendicazioni sono apparse ben più strutturate delle precedenti, si sono ulteriormente estremizzate nelle loro istanze a causa della violenta risposta governativa. La chiusura della rete internet e i gas lacrimogeni hanno presto lasciato spazio a vere e proprie battaglie nelle strade di numerose città irachene, con tanto di cecchini che sparano sulla folla. 

Oltre a scatenare il disaccordo della comunità internazionale, questo climax di violenza, dietro cui peraltro si sospetta possa esserci anche il sostegno attivo di Teheran, ha avuto il risultato di chiudere ogni possibilità di dialogo con il popolo. Sembra così venir meno la già dubbia efficacia delle riforme promesse dal governo nel corso delle ultime settimane, che includerebbero un inasprimento della legge anti-corruzione, il miglioramento del sistema di welfare e l’aumento delle possibilità occupazionali; sul lato puramente politico, si è parlato di una nuova legge elettorale, della riduzione dei membri parlamentari e della sostituzione dello staff dell’Indipendent High Electoral Commission, l’ente che si occupa del monitoraggio elettorale, con personale tecnico e indipendente, con il fine ultimo di organizzare elezioni anticipate nel 2020.

Il 29 novembre, a seguito di episodi di rinnovata violenza che hanno fatto vertiginosamente salire il numero delle vittime tra i manifestanti – si parla in tutto di 400 vittime da inizio ottobre – il Premier Abdul Mahdi ha infine rassegnato le sue dimissioni, così che si possa formare un nuovo governo con la speranza di traghettare il paese fuori dalla crisi. Questa comunicazione è giunta dopo l’appello dell’Ayatollah al-Sistani, massima autorità sciita del paese, che tende a esporsi sul piano politico in momenti di estrema crisi – non dimentichiamo che fu una sua fatwa, nel 2014, a chiamare alle armi gli iracheni contro l’avanzata del califfato.

Dopo aver espresso solidarietà verso i manifestanti nelle scorse settimane, nel suo discorso di venerdì 29 novembre dalla città sacra sciita di Karbala, al-Sistani ha invitato il parlamento a considerare cosa è meglio per il paese, sottolineando come il governo si sia dimostrato incapace di gestire la crisi.

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Fig.3- Studentesse universitarie durante una protesta nella città di Basra per boicottare l’importazione dei prodotti iraniani e sostenere l’economia locale, 8 dicembre 2019.

POSSIBILI SCENARI

Quello che succederà nelle prossime settimane, così come nel medio-lungo periodo, è assolutamente incerto. Da una parte, si rischia che il protrarsi a lungo dell’ attuale situazione di conflitto determini l’insanabilità della frattura tra popolo e classe governativa, portando il Paese a scivolare nel caos più totale; dall’altra, un cambiamento sistemico appare estremamente difficile, implicando che la presente oligarchia acconsenta a fare un passo indietro, rinunciando al sistema che garantisce i suoi privilegi. È questo peraltro lo stesso sistema che, come abbiamo visto, veicola la forte influenza iraniana in Iraq, che sarà a sua volta assai ardua da sradicare. A questo proposito, la recente pubblicazione dei cosiddetti “Iran cables” dimostra il profondo radicamento dell’ingerenza di Teheran nella politica irachena; d’altra parte, lo scoperchiamento di questo vaso di Pandora potrebbe anche rappresentare una forza propulsiva per il cambiamento dell’attuale situazione da parte degli attori politici non direttamente coinvolti.

Parlando di cambiamenti, data l’attuale assenza di una qualsivoglia rappresentanza politica, è alquanto complesso per il movimento di protesta contribuire concretamente alla realizzazione delle proprie istanze. Tuttavia, se anche nuove entità politiche emergessero a rappresentanza delle rivendicazioni dei manifestanti, una riforma del sistema attuale appare assai più probabile di un suo ribaltamento. È infine importante considerare, imparando dagli errori del passato, i rischi che un vuoto di potere potrebbe comportare in un Iraq ancora fragile dopo la recente sconfitta territoriale dello Stato Islamico.

Lorena Stella Martini

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Lorena Stella Martini

Nata a Milano nel 1993, scrivo di area MENA per il Caffè Geopolitico dal 2017. Ho conseguito una laurea triennale in Scienze Linguistiche per le relazioni internazionali, specializzandomi in lingua araba, un Master di I livello in Middle Eastern Studies e una laurea magistrale binazionale in Analyse Comparée des Sociétés Mediterranéennes tra l’Italia e il Marocco. Mi interesso in particolar modo di tematiche legate ai diritti umani, alle questioni di genere e ai movimenti sociali nella regione MENA.

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